(una breve antologia dei premi IN/Architettura 2023)
Potrebbe sembrare un paradosso eppure non lo è, perché anche la qualità ha bisogno più di altri fenomeni, di essere raccontata.
L’interpretazione è l’unica strada che conduce al reale, senza scomodare Nietzsche, perché è sempre a ridosso della critica e della tecnica che si svolge il percorso analitico che conduce alle categorie del bello e del significativo.
Senza nessuna volontà di spostare l’argomento verso territori astratti e filosofici, quello che voglio descrivere oggi, è il processo che aiuta a rendere più esplicite le qualità di un progetto, ma anche di un oggetto, di un materiale e/o di una forma, compito mirabile e pericoloso del critico e in generale della critica.
Nel nostro tempo “confuso e rumoroso” l’attenzione ad alcuni princìpi analitici è ancora più faticoso quando non diventa superfluo: è di qualità il progetto che comunemente viene condiviso e inserito nella lista delle consuetudini, l’estetica a-critica nasce dall’assorbimento sociale di una descrizione, sia essa architettura, oppure industrial design, se non “product design”.
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La ricerca sulla tecnica (tecnologia) dell’architettura, insegue un polo dove l’energia diventa gravità e cioè il punto esatto in cui la forma, qualunque essa sia, viene sostenuta e definita dalla sequenza scientifica dei materiali che la compongono.
Apparentemente si potrebbe parlare di una dialettica tra creazione e scienza, tra libertà creativa e prassi costruttive che, nel sano scambio di percorsi semantici determina la forma, il segno compiuto che l’artefice ha pensato idealmente, ma solo la tecnica, ha permesso di realizzare: sia esso un grattacielo o uno spremiagrumi.
Dunque per questi motivi soprattutto la qualità (la sua assenza o la banalità delle forme, comunicano molto bene nella pochezza della contemporaneità) ha bisogno di un racconto preciso e multiforme che indichi nella narrazione, la sostanza dell’ente che diventa episodio da ricordare, o da criticare.
Nel corso turbolento della storia recente, abbiamo vissuto momenti molto difformi, dove architettura e design hanno colonizzato la nostra società con episodi discutibili o francamente sopravvalutati, a partire delle cosiddette avanguardie radicali ,che al di la delle splendide narrazioni ideali, si sono spente in pochi decenni, non lasciando dietro di se che “vuoti a perdere culturali” e banalità politiche, guerrigliere e sociologiche.
Oggi dimenticata (per fortuna) quella stagione, possiamo guardare a questo” presente permanente” che viviamo con la lente dell’identità da individuare e da rendere esplicita, non abbiamo maestri, o maestrini, non abbiamo certezze ma solo tracciati multipli, una dodecafonia estetica e formale, di gesti che si sovrappongo in una diffusa e complessa quotidianità.
Non avere tracciati precisi potrebbe essere una ricchezza polimorfa, dove stili, stilemi, formalismi, e slanci creativi costruiscono un panorama multiplo ma fragile perché le ricerche teoriche come accade possono sovrapporsi, se non addirittura elidersi a vicenda.
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Nell’era dell’instabilità permanente vince chi manda messaggi incoerenti, esprime percorsi progettuali imprevedibili, leggi alla voce archi-star, fenomeno incoercibile e diffuso che ha scambiato la causa con l’effetto, e il soggetto proponente con l’oggetto realizzato, dunque la qualità è espressa dall’artefice famoso (e spesso fumoso) a dispetto del risultato.
Questa condizione gerarchica si è evidenziata soprattutto negli ultimi decenni anche perché nella società dello spettacolo anche l’architetto (o il designer) deve diventare un divo se vuole primeggiare, se vuole creare un solco tra la sua attività planetaria e funambolica e l’analisi reale della cultura del progetto, che si trasforma nella “Cultura del Soggetto” e nella esaltazione continua dell’Io sono, io faccio, io produco cultura, io definisco la forma che dovete accettare, senza discussioni e senza critiche.
Questo processo snatura il significato della comunicazione “della qualità o delle qualità”, perché rende indifferente il principio analitico della verifica, della valutazione, troppo preponderante è il percorso di auto-celebrazione delle star e delle “starlette”, e devo ammettere che la critica attuale non è più una disciplina autonoma come dovrebbe essere, ma solo una corsa a blindare l’estetica solo se prodotta in certi laboratori da alchimisti celebri e indifferenti.
Perché questo è un problema, ma siamo sicuri che la qualità interessi ancora? Provocatoriamente dico che forse ci siamo lasciati prendere da altre considerazioni, quali l’economia, la semplicità di esecuzione, la difficoltà di esprimere idee forti e dirompenti, insomma dalla gestione di una “necessità della banalità”, sia in basso che in alto, per rendere l’espressione del tempo, lo zeitgeist rassicurante, prevedibile, senza inquietudini.
Nella tarda “società dello spettacolo digitale”, l’immagine, il contenente sostituisce il contenuto, e non ci sono più relazioni tra i due momenti creativi, tutto è istantaneo, tutto è ”adesso”, la riflessione analitica viene vista con sospetto, come fastidio metodologico, come pesantezza, rimane dunque un campionario indifferenziato di figurine mediatiche che danno le risposte semplici che la cultura corrente richiede.
Tutto qui, e se poi niente è veramente come sembra non c’è tempo per l’approfondimento perché “la superficie è tutto quello che rimane delle dimensioni spaziali, e la profondità non è praticabile se si continua a planare a pelo d’acqua”.
Ma torniamo alla domanda iniziale, dunque, perché dobbiamo raccontare la qualità e a chi ci rivolgiamo quando lo facciamo, non è un’esigenza di catalogazione delle esperienze che riteniamo più profonde per ogni disciplina, perchè il racconto dovrebbe inglobare le immagini che lo sovrastano e lo annichiliscono, dunque è solo una forma di resistenza intellettuale, un vezzo da anziani professionisti che non riescono ad accettare la fragilità insopportabile dell’attualità.
Senza avere il tempo di metabolizzare “ciò che è buono e ciò che è cattivo”, tutto si amalgama nel grande calderone indifferenziato delle qualità che ci sembrano ideali, mentre rappresentano solo un veicolo per sospendere il giudizio, una volta per tutte, una volta per sempre.
Photo courtesy Gerardo Sannella
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