Magico è il compito del progettista che deve regalare alla città, alle sue architetture, alle piazze e alle chiese l’artificio incantato della luce, sottolineare parti, geometrie, particolari per poter leggere quello che l’occhio riconosce come attrazione estetica, come vera seduzione urbana.
Illuminare è la metafora oggettiva, artificiale del vedere soggettivo: nella sequenza delle certezze personali si compie la vertigine del rendere chiaro ciò che altrimenti resterebbe nelle tenebre.
E’ una scelta impegnativa quella che impegna l’architetto, quando deve usare la luce per abbracciare d’incanto la sua opera(o quella di un altro). C’è una dipendenza dallo slancio urbanistico in questa profonda necessità dell’uomo e la ricerca della conoscenza delle città in cui vive, che sente come teatro dell’esistenza: spazio materno, invitante. Luminoso come il ricordo tremulo di candele mai dimenticate.
Le luci della città sono naturalmente quelle della ribalta, illuminano il teatro esistenziale dove si svolge qualsiasi attività umana, dove si compie il rito della socialità condivisa che, solo nei casi più intensi, diventa identità.
Il più immateriale dei disegni diventa il vincolo più rigido per l’infinita sequenza degli spazi che convenzionalmente e politicamente assumono il nome di Milano, Stoccolma, Hong Kong o l’Atlantide tanto sognata. Ognuna di queste città vere o immaginate ha, oltre ad una particolare luce naturale, una caratteristica vocazione alla scelta luminosa artificiale.
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Nel progetto del vedere c’è il racconto del bagliore che sarà strappato dall’indefinito magma dei contrasti, dei chiaroscuri, prima che giunga la notte a uniformare le spinte poetiche degli architetti che nei secoli e nel mondo hanno tracciato la linea titanica che separa la città dalla natura, e successivamente la cadenza musicale del buio e del giorno artificiali.
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Nel tempo della notte, lo spazio e la città si trasfigurano in un mondo alternativo a quello successivo all’alba, dare luce, dilatare il giorno costituisce il primo passo verso l’ascesa concettuale dell’artificialità nei processi di pianificazione.
Con la codificazione dell’energia elettrica la fruizione dello spazio urbano è cambiata definitivamente, amplificando le possibilità di utilizzazione dei luoghi pubblici, l’idea di città, soprattutto nel novecento, diventa concettualmente incompatibile con quanto pianificato e realizzato nei secoli precedenti.
Questo rende una città: ”la mia città”.
Il mondo artificiale delle città è sempre alla ricerca di sinergie concettuali per la progettazione, di cui il disegno illuminotecnico è parte fondamentale.
L’importanza di un Piano Urbanistico per la Luce, se così si può chiamare, é evidente, poiché accompagna la visione di un programma identitario (alcuni lo chiamano Piano per il Governo del Territorio), ne condivide le emozioni, contribuisce a dare corpo all’immaginazione urbanistica.
Cosa sono una strada, un viale, una piazza o un palazzo storico senza la forza strategica dell’illuminazione scientifica che ne sottolinea la magia romantica, o il nascondiglio estetico?
E’ significativa l’attenzione che amministrazioni e team di progettisti hanno manifestato negli ultimi anni, creando una cultura illuminotecnica che accanto alla storica abilità ingegneristica, privilegia un’attenta costruzione dei luoghi pubblici, come momenti di sollecitazione emozionale.
L’architettura ha un alleato nella ricerca illuminotecnica, i due momenti creativi devono fondersi in un programma sperimentale per costruire un risultato prezioso e unitario di forme e di luci.
L’arte ci può aiutare. Immaginare una “città luminosa” significa rendere amorevole la percezione che avremo di essa come matrice di ogni nostro tracciato esistenziale, come proiezione emotiva della necessità di bellezza.
Un progetto etico semplice come la volontà di ogni cittadino di essere illuminato sul senso dello spazio in cui vive, un luogo emozionante dove l’architettura dello spazio pubblico disegna l’identità di una visione della nostra era.
Nella luce o nell’ombra.
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