L’ho conosciuto da studente, era seduto dietro uno di quei tavoli giganteschi di legno che si usavano tanto tempo fa, con il porta-mine in mano, e tanti fogli pasticciati, illeggibili, schiacciati dalle sue mani nervose.
Era veloce, Vittorio, nella parola, nella scrittura e probabilmente anche nella composizione, appunto nervoso, come se non avesse abbastanza tempo per fare tutte le cose che si era ripromesso di fare, eppure in tutti questi decenni di attività ne aveva fatte di cose, e molte, molto importanti.
Ha diretto riviste come Casabella e Rassegna, la “Gregotti Associati” è stata la prima “firm” planetaria, italiana, prima di una lunga serie successiva, mantenendo un’identità profondamente “gregottiana e non internazionalista”.
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Ha insegnato a Milano, a Palermo e a Venezia, ha scritto decine di saggi teorici, e tanto altro, ha realizzato moltissime opere in venti paesi, tutte di grandi dimensioni, alla scala urbana, monumenti moderni.
Ha teorizzato che un Piano del Governo del Territorio, dovesse essere definito alla scala delle sue architetture come a voler significare che lo spazio urbano non fosse altro che una teoria non discontinua di architetture.
Perché insieme a Pierluigi Cerri e Augusto Cagnardi, il suo studio ha spaziato dalle copertine dei libri per Einaudi ai piani urbanistici di grandi e piccole città, dai musei ai quartieri, con una sequenza impressionante, vertiginosa di opere realizzate.
Sempre, o quasi, controverse, celebrate o criticate per un certo rigore formale che spesso sfociava in un’astrattezza geometrica non sempre invitante, piacevole, ma credo, anzi sono sicuro che di questo, Vittorio, non si curasse.
Col suo aspetto da folletto barbuto, sempre agitato e sempre pronto a partecipare a qualsiasi polemica teorica e professionale.
Indimenticabile l’ultima durata decenni contro tutte le correnti che si erano allontanate dal razionalismo poetico, italiano e da un certo funzionalismo scientifico, insomma “dal Post-modern alla decostruzione”, era tutta una produzione di ciarpame scenografico e facciatista, privo di un vero impianto spaziale, che costringeva l’architettura ad una “superficialità” a scapito della sua costante ricerca di “profondità”.
Gregotti avrebbe voluto fare il filosofo, e per altro nei suoi scritti gronda la vena di questa pulsione esistenziale ed intellettuale.
Forse domenica quindici marzo duemilaventi, anno del C-virus, è morto l’ultimo intellettuale-progettista che questo paese abbia mai avuto.
Alcuni quartieri come Bicocca a Milano (non parliamo dello ZEN di Palermo), sono stati croce e delizia di ogni studente, critico, e collega che non ha perso occasione per distruggerne, ma seguendo le impari qualità di ciascuno, sia l’impianto urbanistico e che la sequenza, piuttosto noiosa delle residenze e dei servizi.
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Intendiamoci, in molte occasioni ho avuto modo di criticarlo pesantemente, come tanti altri, soprattutto per alcune scelte formali che nella semplificazione cercavano l’essenza del tracciato progettuale ma spesso finivano per mortificarne l’azzardo estetico.
Lui non lo saprà mai ma, nella prova scritta del mio esame di stato, ho scritto quaranta pagine contro il suo progetto di sistemazione (fortunatamente non realizzato) per l’area della stazione Nord di Milano, spiegando secondo le mie scarse possibilità teoriche, che quello rappresentava il vademecuum di tutte le azioni che un architetto non doveva compiere.
Sono stato abilitato col massimo dei voti, per il coraggio.
Proprio per questo considero Vittorio Gregotti un grande personaggio della cultura italiana degli ultimi cinquanta anni, perché il valore della sua opera complessiva, letteraria, teorica, filosofica è molto più importante spesso ,di quello che ha realizzato, e in questo è stato l’ultimo, prima di lui soltanto Aldo Rossi, a dare una dignità internazionale alla ricerca teorica italiana.
Per questo dovremmo essergli grati e anche per averci insegnato soprattutto come sconfiggere il provincialismo, male assoluto della cultura italiana, e dell’architettura in particolare, sempre pronta ad innamorarsi dell’intellettuale o dell’architetto famoso, perché famoso.
Il giudizio post-mortem sul Grande Architetto sarà simile a quello ricevuto dalle sue opere in vita, ma una cosa mi piace ricordare: la frenesia intellettuale, un vigore agitato, nascosto da una calma culturale avida di ricerca di nuovi territori, e anche “Il Territorio dell’architettura” sua Summa Theologica, invitava al viaggio (metaforico) intellettuale, scientifico e pieno di insidie.
La cultura scientifico-filosofica come baluardo-bastione rispetto al vociare scomposto della contemporaneità, per Vittorio il teorizzare aveva giustamente la stessa importanza del costruire.
Il silenzio odierno della Città di Milano gli riserva, è l’omaggio sonoro e deferente, ad un protagonista importante della cultura, non solo progettuale, degli ultimi decenni di questo paese, nel bene e nel male.
R.I.P. caro Vittorio.
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