Influenze, imitazioni, fraintendimenti su Zaha Hadid, la più importante donna della storia dell’architettura del Novecento (e oltre), prima della beatificazione.
Donne e Architettura (2.continua)
La prima volta che l’ho vista, sarà stato il 1983, era seduta sul pavimento di cemento del suo studio, con attorno due o tre assistenti, davanti ad un pannello di due metri per due, dove stavano dipingendo a tempera(sic!) alcune tavole del concorso del Peack di Hong Kong.
La stanza era satura del concerto per pianoforte e orchestra n.23 di W.A. Mozart, ma ad un volume soffice, leggero, un vero sottofondo aristocratico.
Ed in effetti Zaha aveva l’incedere di una principessa orientale, ma all’epoca non riuscivo a capire se fosse del passato o del futuro, ma di sicuro non era dei nostri tempi. Parlava dei suoi primi progetti e del suo lavoro all’Architectural Association con una grazia e con una sicurezza che mi sembrava di vederli già realizzati, a dimostrazione che l’architettura è sempre linguaggio, narrazione, affabulazione, incanto.
La giovane “regina delle forme imprevedibili”, aveva già lo “stile Miyake Issey” e un percorso scritto nel destino. Tra gli altri nella stanza c’erano Ben Van Berkel poi capo di Un-Studio ed allora studente, Alex Wall e Stefano Di Martino poi OMA, ma per poco.
Rem Koolhaas aveva capito per primo la grandezza della sua prima socia, e per questo ovviamente la temeva, da vecchio-giovane stratega, e infatti il sodalizio non poteva durare, e non durò.
La Hadid, dopo aver trionfato in questo straordinario concorso del Peack, si allontana dal “suprematismo compresso di Rem”, e da una lettura del “costruttivismo à la Derrida”, dopo anni di lavoro forsennato e di poche realizzazioni, organizza la sua esistenza basata sul “dire di no”, sul rinunciare al compromesso, sull’accettare le imposizioni di una committenza non sempre audace come lei, e dunque incapace di comprendere il senso della sua parabola.
Questo progetto non poteva che esser vincente, e così sarà, da quel momento batterla in un concorso è come salire sul ring contro Mike Tyson, per lei si apre lo scenario più imponente dare voce e vita ad un’architettura al femminile che non sa di esserlo, ma che sarà prima in tutto dai premi, ai fatturati, ai volumi realizzati e da realizzare.
Le (altre) stelle, stanno a guardare.
I contesti stanno a guardare e i governi di tutto il mondo fanno a gara per averla, disposti a follie economiche per le sue ricerche imprevedibili e stupefacenti, non sarebbe corretto raccontare l’infinita teoria di edifici realizzati in decine di paesi, le tipologie, le dimensioni e l’azzardo di ogni opera, sempre meno dialettico al presente, al passato, a tutto quello che avevamo visto prima, e ovunque.
Nella sua azione culturale c’è qualcosa di profetico, di soprannaturale, come se l’universo delle forme l’avesse incaricata di farci comprendere il mondo parallelo, come in una scoperta subacquea, come in una giungla tecnologica o nell’iper-spazio dove solo lei , la Regina ,è in grado di muoversi con tale sicurezza e precisione da farci comprendere la nostra inadeguatezza.
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Molti anni dopo quell’incontro le chiesi da disponibilità per realizzare una moschea a Milano, pensando ad un suo totale disinteresse e invece mi rispose via fax qualche ora dopo, dandomi disponibilità e saluti. Stava nascendo la mitologia della donna multiforme che è in grado di agire su mille fronti contemporaneamente e produrre oltre quello che la natura umana, che si esprime attraverso l’architettura, è in grado di immaginare.
Zaha è così potente che non ha paura di diventare un’icona pop, un brand di successo omnivoro e indifferenziato, perché ogni linea prodotta le appartiene come unica figlia alternativa a quelle che non ha mai avuto. Non avrebbe avuto il tempo.
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Nell’immaginario collettivo il suo sentirsi architetto e non donna-architetto ha rappresentato il punto di svolta sul genere del produttore, perché Zaha era donna a tutti gli effetti ma interpretava il suo ruolo professionale senza dovere necessariamente prendere una posizione, anche perché non si è mai sentita un’eroina, anzi, sembrava che tutto scorresse, accadesse, naturalmente.
Perchè inciso, probabilmente, nel destino dell’umanità.
Dunque tutto diventa facile per la donna del mistero e della complessità e nessuno cerca di seguirla realmente sull’impervia strada intrapresa all’inizio degli anni settanta a Londra, all’AA, all’OMA, dopo l’OMA, dopo il Peack di Hong Kong, mentre l’esercito dei suoi opliti cresce, una falange armata chiusa e responsabile, capace di produrre un’infinità di progetti all’anno, notizia poco commentabile, ma non dimentichiamoci mai che l’area di intervento di Zaha Hadid è il mondo.
Certo questa non è una storia di discriminazione di genere, o di umiliazione, perché Lei è sempre stata Lei, anche da piccola, e il suo tracciato era segnato anche quando studiava Matematica all’Università di Beirut, lei sarebbe diventata l’idea stessa della ricerca più alta e spericolata nella storia dell’architettura di ogni tempo, e questo vale finché è vissuta e anche per l’eredità che ha lasciato agli epigoni del suo gigantesco atelier.
Alla posa della prima pietra del MAXII di Roma avevo rivisto alla cena di Gala, ZH, con un codazzo di ministri italiani, ricevuta come un Capo di Stato, e così felice di poter costruire in Italia.
Forse i politici di allora non conoscevano neppure chi fosse quella strana signora, così gentile ma così potente da potersi permettere decine di assistenti per realizzare la mostra che il Comune di Roma le dedicava, durante la guerra del Golfo, su cui non profferì parola, perché il suo paese d’origine, la Favolosa Persia, era rimasto nei ricordi di una bambina molto fortunata per intelligenza e censo.
Il MAXII sappiamo che ha dimostrato quasi l’impossibilità di realizzare le idee di Zaha, troppo diverso il “concept” dal volume bello ma appesantito, realizzato anni dopo, e questo vale per quasi tutte le prime opere, anche per la fase fino alla fine del millennio, poi negli ultimi anni accade che l’opera si adegua con maggiore coerenza allo schizzo.
Come se ne avesse pietà, diciamo che anche i grandi compositori dodecafonici hanno avuto ripensamenti e derive classicheggianti ma, è un peccato veniale, quasi un aiuto alle possibilità di comprensione e di percezione dell’utenza che non può sopportare per molto un modulo spaziale, e non crede di poter sopravvivere su Marte.
Con Zaha, morta troppo presto e improvvisamente scompare un sintomo, un virus che ha alterato il corpo vivo dell’architettura, che l’ha costretto a piegarsi ad altre esigenze morfologiche, ne ha conquistato i gangli e l’essenza determinandone una trasformazione non sempre comprensibile (ma poi come potrebbe essere comprensibile l’avanguardia, se di questo si tratta?).
Non c’è uno stile ZH ma una scia immortale che da qualche parte ispira i computer umani dello studio a continuare a raccontare l’inesprimibile, non è neppure manierismo ma soltanto la necessità che il pensiero della grande Anglo-Irachena venga perpetrato col minor danno estetico, e morfologico possibile.
Zaha non ha scritto quasi nulla, ovviamente, ha soltanto costruito centinaia di opere, senza respiro, senza neppure un attimo di tregua, assediata dal tempo, dalla bulimia formale, inarrestabile condottiera di un esercito solo, il suo, che non ha mai avuto rivali, e se li ha avuti, non se n’è neppure accorta.
Un esempio di donna, star, attrice e dunque archi-star (probabilmente il neologismo è stato coniato per lei), una furia inarrestabile, fermata nell’imprevedibile esistenziale, solitaria nel dispiegamento della sua personalissima enciclopedia architettonica.
Una storia dentro la storia dell’architettura che rende il resto poco attraente, desueto, incerto.
C’è dunque qualcosa di misterioso, di magico nella sua opera, come se facesse gruppo a se, Zaha contro il resto del mondo, ma è una partita che nessuno ha mai avuto il coraggio di giocare, contro una squadra formata da una sola donna.
Metafora di un universo che è riuscita a realizzare anche morendo prima del previsto perché era riuscita, e chissà come, a lasciare le consegne ai suoi “ragazzi e ragazze”.
Ecco perché non si deve dire cosa resterà del suo lavoro che continua con una veemenza maggiore di quando lei dettava la legge.
Il “metodo Hadid” ha attecchito, paradigmi, tracciati e scomposizioni multiple sono diventate l’esperienza della quotidianità delle centinaia di architetti che ancora credono di vederla girare per lo studio di Bowling Green Lane, vedendo scorrere il tabellone che segna 950 progetti!!!
Altro che Plautilla, ma se ci pensate bene la forza delle donne è identica a Bagdad o a Roma nel secondo novecento o nel XVII secolo, declinazioni e realizzazioni diverse ma percorsi intrecciati, la nostra Bricci ha fatto si che molti secoli dopo, nascesse una ZH capace di incantare il mondo, anche con “milioni e milioni di metri cubi”.
Ecco perché non ci manca, nel 2016 al Mount Sinai di Miami, è solo passata altrove, nell’iperspazio, per dare il meglio di se, senza dover dormire o perdere tempo tra intervistatori incolonnati e contingentamento di premi da ricevere.
Zaha adesso è pura essenza, ispirazione per tante giovani donne (e uomini, ovviamente) e ha dimostrato che non c’è nulla che la mente umana riesca a concepire che non possa essere realizzato. magari domani, o forse tra mille anni.
Anche allora ci sarà il suono della sua voce a correggere l’ultima forma pensata e disegnata, prima di spegnere l’ultimo computer e le luci del suo nuovo studio. Su Marte.
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