Alfonso Femia ha una sensibilità visiva, antropologica e stereometrica superiore alla media degli architetti della sua generazione, attento ai progressi contraddittori della cultura contemporanea e critico analitico del tempo presente, dunque nessuno meglio di lui rappresenta una figura di riferimento per l’abilità con cui interseca la pratica quotidiana, del fare e del creare processi costruttivi, ai principi della definizione concettuale del nostro lavoro comune.
E’ un talento che non elude le aspettative degli attori che compongono il difficile processo fisico e psicologico che conduce dal fare e dal passare “dalla parola all’atto”, che, a differenza di Dostoevskij, in Femia assume il carattere di identità fenomenologica.
“C’è un paese al mondo
Che misura un’enormità
Alto, lungo, largo
Senza ladri di verità
Cresce nella mente
Su radici di parità
C’è un paese al mondo
Dove danza la libertà”“C’è un paese al mondo(dove danza la libertà)”.
(Verso della canzone omonima dei Maxophone.1975)
Ora scegliere un’opera (forse due e complementari, in questo caso), come il bacio che Otello chiede a Desdemona, per tutto l’Otello, è una sfida alle convenzioni nella tradizione della storia e della critica contemporanea, in un portfolio di grandi realizzazioni, di tipologie, funzioni e caratteristiche piuttosto variegate. dunque la scelta è del critico, per un compiuto esempio di “estetica della casa, del paese, del borgo e del villaggio”.
San Giuliano di Puglia.2004
Una prova, un esempio, una metafora. Qui siamo nel sud più profondo, a ridosso delle antiche contraddizioni delle regioni di confine, il terreno di costruzione, e di ri-costruzione rende giustizia alla necessità di essere molto più che sensibili in quanto architetti ma ci aiuta ad ascoltare il suono delle necessità e dei desideri di una comunità che vuole tornare ad essere tale.
Siamo in un’area che ha subito lacerazioni per un sisma del 2002 che ha provocato un dolore insanabile per la morte di molti bambini nella scuola comunale e l’architetto compone una scenografia esistenziale per un nuovo racconto, per un nuovo incominciamento che mantiene inalterata la magia del minuscolo borgo molisano, ma non può ne deve dimenticare. La delicatezza del gesto dell’architettura non rinuncia ad una arditezza, ad un azzardo che libera tutta l’energia del progettista conserva gelosamente dentro di sé, sia nel cuore che nel cervello.
Alfonso non sbaglia anche se parte alto, altissimo e chiede alla memoria di due grandi intellettuali del mondo dell’arte quell’ispirazione per dare alla sua naturale ritrosia, il respiro della storia: Ghirri e Morandi sussurrano le parole chiare che servono per ri-fare un paese, per costruire una nuova modalità per viverlo. Riscrive l’esistente dando una nuova linfa alle forme, alle tipologie, all’impianto urbano ma senza scontrarsi mai con quanto ha trovato e visto, in un processo di reale rigenerazione sociale, in una nuova propedeutica estetica che non lascia niente di intentato e non media per essere più leggibile.
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Un progetto di architettura e di urbanistica del possibile, una strada concreta per esprimere un dialogo tra il prima e il dopo, per fare del borgo un luogo dell’adesso, perché l’architettura ha questa necessità e non può sottostare alle imposizioni contestuali che per Femia sono il terreno di coltura per una qualche idea di futuro. Questa è etica pura, non c’è nessuna caduta emotiva nell’estetica salvifica che rende il nuovo comunque più emozionante e complesso, più facile da “usare” ma più difficile da metabolizzare, come una lezione sul “possibile”, come un nuovo Corso principale per lo struscio, come l’antico che si fa strada nel contemporaneo.
Ecco dunque la lezione del fare, che ci indica percorsi e tracciati, e ci consente di guardare al Borgo-Nuovo con la certezza che la finalità sociale dell’architettura non è ancora perduta e il “facciatismo diffuso” dovrà ancora confrontarsi con Luoghi e Forme che ambiscono a produrre inesorabilmente: identità.
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E per tutto questo bastano “quindicimila metriquadrati”, tra residenze e spazi pubblici, tra vuoti e pieni, in una sequenza formale e cromatica di grande interesse compositivo, ma sempre nel controllo assoluto del gesto, in una specie di “urbanistica della tenerezza”, che condizionerà il borgo di San Giuliano di Puglia per i prossimi anni, senza dover imporre modelli “glamour”, rispetto all’edilizia tradizionale che continuerà il suo percorso e la sua esistenza locale.
Una dialettica del rispetto formale e funzionale, lontana dalle performance roboanti delle superstar, operazione di cardiochirurgia delicata e necessaria, problematica ma con esito felice, da guardare con orgoglio e da candidare a modello sociale, come un laboratorio permanente e incastro riuscito tra l’antico che impone tradizioni estetiche e il nuovo che ha la missione di interpretarle, modificandole.
E’ il romanzo senza inizio ne conclusione, dove si possono soltanto scrivere, nuovi capitoli, di un racconto che è sempre più affascinate perché non se ne conosce il finale, ma Femia sa perfettamente che un contributo a questa “narrazione del tempo presente” l’ha consegnata alla cronaca e alla storia, alla critica e alla sociologia urbana.
Aspettiamo, insieme, che invecchi insieme alle nostre certezze e ai nostri probabili errori di valutazione ma intanto godiamoci il risultato che è li, in un paese piccolo piccolo, molto lontano dai riflettori ma proprio per questo vogliamo bene a questa architettura e al suo autore.
Urbagreen 2015-2020. Île de France/Paris
Centosette volte casa, vicino ad una foresta, un quartiere che risplende per i rivestimenti in ceramica diamantata, una scheggia luminosa alla fine di Parigi, un piccolo borgo costruito ex-novo, un’idea articolata di isole/edifici extra-urbani alla ricerca di una identità, in fondo è l’isola de France, ma il gesto di Femia dopo tanti anni rimane lo stesso: nitido, coerente.
La ricerca del decoro delle facciate non è soltanto una decorazione ma è un segno profondo per dare una diversa densità allo spazio neutro che ospita l’intervento residenziale, come a marcare nella contemporaneità il territorio, per la necessità di differenziare la volontà dell’architettura di essere sempre originale, come l’architetto e/o urbanista desidera.
Il risultato è ricco di spunti, di viste, di prospettive, di percorsi, di spazi pubblici, come per voler velocizzare il tempo di relazione con le pre-esistenze, per dare corpo all’idea di “borgo-città” molto presente nella lunga attività di Alfonso, anche se i due episodi sono lontani nello spazio e nel tempo sono due momenti della crescita intellettuale del progettista (e per questo abbiamo voluto definirli come unitari, dal solo punto semantico).
La distanza temporale tra le due architetture/architettura ci consente di capire la scientificità analitica del progettista, anche a migliaia di chilometri di distanza e dopo quasi due decenni, ma quella tenerezza nell’espressività rimane, quasi in forma romantica, dentro l’architettura dell’adesso, sia prima che dopo, per sempre.
All’Île de France, il paradigma originario pulsa ancora forte dentro un cuore che non conosce invecchiamento formale e funzionale, e gli spazi si adagiano “nell’inizio”: prima della foresta e dopo la città, come se l’architettura fosse una mediazione di artifici, tra le naturalità progettate, e scoperte di nuove meraviglie, ogni nuovo quartiere è un Locus Solus, come informava Raymond Russel.
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Un altro capitolo del “Libro delle Citta e dei Borghi”, personalissima autobiografia dei luoghi di Alfonso è compiuta, e già ci rimanda a da altre creazioni, ad altre progettazioni ma il percorso che lo ha portato fin qui è cristallino ed evidente, denso di contenuti e di invenzioni ma scevro da sovrastrutture concettuali.
L’architetto Femia è un costruttore, ama trasformare le idee in volumi da abitare, da vivere, da condividere e noi con lui assistiamo al miracolo della concretezza, all’esibizione del fare e fare bene, come la scienza e la cultura del progetto impongono in Molise o a Parigi, nel tempo che sfugge questi sembrano capisaldi di una città più grande fatta da tutte le opere che ha realizzato.
Non può sfuggire all’osservatore attento l’invidiabile capacità che ha Femia di creare momenti di riflessione sullo stato dell’arte della professione, anche se il progettista ha ancora molto da dire e molto da fare, anzi è tutta una scoperta ancora da rendere esplicita.
Ci piace inoltre ricordare che ogni momento, ogni capitolo di questo ormai lungo romanzo, contiene elementi originari che ne consentono la lettura per parti o nella sua interezza, un percorso che è possibile intraprendere in più direzioni, dove ogni momento è legato a quelli futuri e conserva gelosamente la memoria dei precedenti.
Ma la lingua, il linguaggio architettonico è sempre felice, nitido, pieno di metafore e chiaro, riconoscibile in tutte le sue variazioni e in tutte le diverse declinazioni che lo spazio ed il tempo hanno imposto all’Autore. La felicità con cui il progettista si esprime nei segni, nelle forme e nelle soluzioni, ci ricorda quanto sia importante credere in quello che si fa e proprio in quel modo specifico, è un gesto d’amore che sono sicuro che riporremo nella parte più segreta del cuore, per ispirarci e per rendere più emozionante la nostra pratica costante di cultori delle forme e delle rappresentazioni etiche ed estetiche. „
Non temere di essere giudicato non moderno. Le modifiche al modo di costruire tradizionale sono consentite soltanto se rappresentano un miglioramento, in caso contrario attieniti alla tradizione. Perché la verità, anche se vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina al fianco.“ Adolf Loos. Parole nel vuoto
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