l 22 marzo, il governatore di New York Andrew Cuomo ha twittato: “C’è un livello di densità a New York che è distruttivo” e pertanto ha chiesto alla città di “sviluppare un piano immediato per ridurlo“.

Il giorno successivo, il titolo della colonna del New York Times di Brian M. Rosenthal ha fatto eco all’avvertimento di Cuomo: “La densità è il grande nemico di New York nella lotta contro il Coronavirus“.

Joel Kotkin sul Washington Post ha sostenuto che “Le pandemie sono sempre state nemiche della densa vita urbana“.

L’attuale situazione dimostra che sono correlati alla densità urbana non solo i rischi socio-economici, noti da tempo, ma ora anche quelli epidemiologici.

Parallelamente, con la diffusione della pandemia si registrano due fenomeni significativi: la vendita al dettaglio a livello di strada si è fermata (rafforzando la presa di Amazon sulla spesa dei consumatori), gli uffici di tutto il mondo sono passati rapidamente al lavoro a distanza (accelerando la tendenza verso attività decentralizzate).

Il cambiamento potrebbe rivelarsi permanente?

Secondo Alex Hern di The Guardian, “sorge il sospetto che la situazione non tornerà più com’era: molti dirigenti di azienda, che hanno inviato tutto il personale a casa, stanno iniziando a chiedersi perché debbano farli tornare in ufficio una volta terminate le attuali restrizioni.”

Ma il futuro delle città non è così cupo come sembra.

Sebbene la densità e l’interconnettività dei centri urbani creino evidenti vulnerabilità, la storia – e persino l’attuale crisi – dimostra che le città sono ben equipaggiate per rispondere alle pandemie, il tutto mantenendo le loro basi economiche e culturali.

Da un punto di vista epidemiologico, le comunità meno densamente popolate sembrano più adatte al distanziamento sociale e all’autoisolamento.

In una pandemia globale, non sorprende che la paura della vita urbana spinga i cittadini abbienti nelle loro case estive. Basti ricordare che nel Decamerone Giovanni Boccaccio descrive un gruppo di ricchi fiorentini, che per sfuggire alla Morte Nera, si rinchiudono in una casa di campagna nella periferia collinare della città.

Sette secoli dopo, COVID-19 rende il cortile suburbano e la campagna bucolica altrettanto allettanti.

In realtà gli eventuali impatti sulle comunità periferiche possono essere ben più gravi. Considerato che le risorse chiave per combattere la pandemia sono la salute pubblica e le comunicazioni, nelle grandi città – per intuibili ragioni organizzative ed economiche – l’offerta di tali servizi e la loro efficienza sono di gran lunga migliori che non nei piccoli centri.

In Norvegia, il governo ha già vietato agli abitanti delle città di ritirarsi nelle loro case di campagna, nonostante i rischi apparentemente più bassi della trasmissione rurale.Per i frequentatori di cottage di Toronto, il governo provinciale ha ugualmente invitato a restare in città.

In entrambi i paesi, la logica è la stessa: lasciare i densi centri urbani non eliminerà il rischio di trasmissione.

Al contrario, nel caso di una forte dispersione delle persone nel territorio, prendersi cura di chi si ammala travolgerebbe rapidamente la limitata capacità sanitaria locale.

Inoltre, dove le grandi città possono rapidamente trasformare stadi sportivi, centri congressi, aree fieristiche in ospedali e rifugi di emergenza, raramente è possibile adattare con altrettanta facilità le infrastrutture periferiche più piccole.

Taiwan, Giappone, Singapore e Corea del Sud nei rispettivi programmi di sanità pubblica si sono concentrati in modo aggressivo su test, cure e tracciabilità (sic!) e, di conseguenza, hanno “appiattito la curva” più velocemente, dimostrando che la densità urbana non è certo il fattore decisivo nella diffusione del virus.

Per Marion Weiss, titolare dello studio Weiss/Manfredi di New York “L’attuale pandemia dimostra che le strade pubbliche, le piazze e i parchi sono cruciali“, non a caso la salute pubblica è stata storicamente una forza trainante della pianificazione urbana. “New York ha sviluppato i requisiti di luce e aria quando la densità verticale è stata resa possibile dall’invenzione dell’ascensore. Allo stesso modo i parchi progettati durante l’era di Olmstead nascevano dall’esigenza di preservare lo spazio per ogni individuo, al fine di connettersi con la natura. Ora questi stessi parchi, sono equalizzatori sociali oltre ad essere biologicamente e spiritualmente essenziali.

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Uno sguardo più attento alla distribuzione interna dei casi COVID-19 a New York City dimostra che non è Manhattan – o nemmeno Brooklyn- a registrare la maggior parte dei casi di contagio, ma i quartieri molto meno densamente popolati di Queens e Staten Island, con quest’ultima comunità che registra il più alto tasso di infezione nell’intera area metropolitana.

La pandemia urbana quindi non ha a che fare con un problema di densità, ma piuttosto con una questione di progettazione.

In altre parole, dovremmo costruire più – e migliori- spazi pubblici, sia per ridurre il rischio acuto di trasmissione del virus, sia per migliorare la salute pubblica complessiva e la qualità della vita.

Dal punto di vista sociale ed economico le città sono sorprendentemente ben posizionate per resistere allo scoppio di COVID-19 in termini endemici.

Secondo l’economista Robert Lucas, vincitore del premio Nobel, le interazioni facilitate da densi ambienti urbani favoriscono la condivisione di idee e innovazione. In altre parole, la geografia conta ancora. Perfino i lavori tecnologici, che si basano sull’infrastruttura delle reti, sono diventati sempre più concentrati in alcuni hub selezionati (Silicon Valley).

Quindici anni dopo che l’influente libro di Thomas Friedman The World is Flat sosteneva che l’economia globale si sarebbe dispersa geograficamente nell’era di Internet, l’occupazione nella cosiddetta “economia della conoscenza” è sempre più dominata dalle città.

Sembra quindi che l’urbanesimo non si arresterà neppure di fronte al Coronavirus.

D’altronde le pandemie hanno causato alcuni dei maggiori cambiamenti nel modo in cui progettiamo le città: “Senza una serie di devastanti epidemie globali di colera nel 19 ° secolo non sarebbe emersa la necessità di un nuovo e moderno sistema fognario“, ha scritto qualche giorno fa’ Jack Shenker sul The Guardian.

Una volta che la crisi COVID-19 si sarà placata, sarà indispensabile mantenere la salute pubblica al centro della pianificazione urbana, della progettazione e delle politiche pubbliche.

La pandemia non durerà per sempre, ma la nostra risposta ad essa modellerà le nostre città – e la nostra società – per i decenni a venire.

E l’InArch può in questo contesto giocare un ruolo decisivo.


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