Con la parola Architettura intendiamo la produzione di spazio ben organizzato e ben formalizzato; uno spazio destinato alle persone e alle molteplici evenienze dall’abitare, nel suo inestricabile groviglio di materialità e spiritualità.

Ma la voce Architettura, in Italia, è scomparsa da quasi tutte le agende da almeno trent’anni. È scomparsa dall’agenda politica; è scomparsa dall’agenda normativa; è scomparsa dall’agenda delle pubbliche amministrazioni; è scomparsa dall’agenda dell’edilizia residenziale pubblica; è scomparsa dall’agenda degli imprenditori; è scomparsa dall’agenda culturale; ed è scomparsa dall’agenda della committenza privata.

Charles Eames, what is a house
Charles Eames, What is a house?

Una scomparsa pervasiva, dunque, che qualche eccezione, pur esistente, non ha la forza di smentire. Perché questa sparizione? Perché questa sparizione così generalizzata, capillare, totalizzante? Il perché lo si può rintracciare in una scomparsa più a monte: e cioè nella scomparsa dell’Architettura dalla pubblica opinione.

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Il problema dell’Architettura, in Italia, è che la pubblica opinione, quella espressa dai media, dai decisori politici, dai quadri amministrativi, dagli imprenditori e, soprattutto, dai semplici cittadini (insomma l’insieme dei soggetti che sono pure gli abitanti); la pubblica opinione, dicevamo, non ha la più pallida idea di cosa l’Architettura sia.

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Ma se la parola Architettura suona troppo roboante e rischia di spaventare qualcuno, facciamo un passo indietro e semplifichiamo ulteriormente il ragionamento: limitiamoci a parlare di spazio. La pubblica opinione, e cioè il senso comune, non possiede alcuna consapevolezza intorno alle qualità dello spazio. Quelle qualità che lo spazio abitato non ha e che, invece, potrebbe e dovrebbe avere. Ed è proprio questa generalizzata inconsapevolezza che ci autorizza a parlare di analfabetismo spaziale, come andiamo scrivendo da qualche anno. La gran parte delle persone non sa leggere lo spazio, né tantomeno scriverlo; non sa applicare l’immaginazione allo spazio, se non nelle forme più consuetudinarie.

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Viviamo immersi in ambienti squalificati e omologati, effetto e causa di comportamenti e stili di vita standardizzati e conformisti. Ambienti nei quali le occasioni di esperire spazi qualificati sono minime; e senza l’esperienza di spazio qualificato, si diffonde e si consolida l’analfabetismo spaziale, dal quale deriva l’incapacità delle persone, degli utenti, degli abitanti, di esigere un più significativo livello di organizzazione e formalizzazione dello spazio, tanto negli interni domestici quanto negli spazi tra gli edifici e tra questi e il contesto.

Specie di spazi

L’analfabetismo spaziale, infatti, è la causa principale della «distanza tra un corpo sociale e politico mediamente disinteressato al ruolo che l’architettura avrebbe potuto giocare nel definire strategie e modalità d’intervento»[1] e un qualunque risultato qualificato.

Ma anche la (presunta) cultura architettonica ci mette del suo. Infatti: perché i ragionamenti sull’architettura, sulla città e sul paesaggio partono sempre da questioni interne alla disciplina, dai capisaldi concettuali del dibattito disciplinare, invece di partire dalla valutazione dei fenomeni abitativi, e cioè dai risultati, dagli esiti dell’azione disciplinare?

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Sarebbe opportuno chiedersi: come si vive qui? Come ci si abita? Come vengono abitate le case, gli edifici pubblici, le strade, gli spazi urbani (e non), i giardini, le infrastrutture, il paesaggio? Questo prodotto architettonico, come e perché ha modificato una certa modalità dell’abitare? Perché le questioni relative al vivere, che sono il fine ultimo della disciplina ovvero la ragion d’essere dell’architettura come istituzione, sono considerate accessori inessenziali?

L’omologazione dello spazio

Deriva da tutte queste constatazioni una conclusione ineluttabile: il compito piú alto e importante che la cultura architettonica può e deve assumersi oggi (e già ieri e l’altro ieri), è la ricostruzione delle condizioni necessarie al poter fare. Accantonate o marginalizzate le discussioni specialistiche, spesso innegabilmente esoteriche e talvolta futili, occorre dedicarsi a una cosa sola: a far comprendere ai nostri concittadini cosa l’Architettura sia. E perché in uno spazio ben organizzato e ben formalizzato si viva meglio e si possa essere un poco più felici.

[1] Luca Molinari, Dismisura. La teoria e il progetto nell’architettura italiana, Skira, Milano 2019, p.12.


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