Che cosa percorriamo esattamente, quando attraversiamo lo spazio del sacro? e perché così diverso ci appare da tutte le altre forme di architettura, anche se concettualmente hanno tutte il compito di trasformare “il luogo naturale” nella sua condizione più alta, culturale e dunque sacra.

Non dovrebbe esserci differenza, perché il fine ultimo del progettare è altro, è trovare quelle concezioni ontologiche che rendono l’”Essere” maggiore dell’”Io”.

Detta in questo modo potrebbe apparire troppo semplice ma di fatto neppure le condizioni legate alla contrazione delle pure funzioni metafisiche, spirituali, sono sufficienti a spiegare questa strada impervia che oggi vorremmo intraprendere, almeno per cercare qualche momento di maggiore luminosità.

Il tema  antichissimo ma sempre attuale del sacro attraversa e permea tutte le attività della creazione, dalla musica all’arte, ma negli ultimi secoli, forse nel XX, ha perso quel significato di comunione, di incontro.

Capela do Monte Architetto Alvaro Siza
Capela do Monte Architetto Alvaro Siza

Chiese, sinagoghe e moschee non si riverberano come nei secoli precedenti nello spazio urbano che le accoglie, sembra che non facciano parte del tessuto connettivo dello sviluppo dei luoghi dello spirito, sia per il singolo che per la comunità, ma rimangono semplicemente splendide memorie delle nostre consuetudini sociali e culturali

Vivono silenti nella solitudine della loro unicità monumentale.

Il tempo della riflessione  post-nietzschiana produce una sovrapposizione di dubbi, con la necessità di separare il luogo del silenzio e della trascendenza, dallo spazio della preghiera: un momento pubblico ed  uno intimo, grandezza dell’analisi personale e decadimento del rito collettivo.

Contraltare del semplice momento simbolico delle religioni monoteiste, dove l’uomo cerca se stesso rispetto alla sua evoluzione metafisica, dunque oltre l’ambito laico, oltre l’aspetto semplicistico dell’a-teismo, fino al cosiddetto “tempio unitario” dove l’espressione, la meditazione e il raccoglimento sono lasciati al singolo, senza la mediazione di una idea antica di spazio pubblico, condiviso, ma libero nella esclusiva delimitazione della propria coscienza.

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Noi architetti, ma in generale tutti i produttori di forme e simbologie culturali, entrando nella lettura dei bisogni indotti dell’antropologia recente, dobbiamo capire quale possa essere oggi il valore di un Requiem, di una Crocifissione, del suono semantico-simbolico della parola del muezzin, di un coro ebraico, e collocarlo dentro questo tempo s-fuggente, opaco, creatore di troppi “dei istantanei e transeunti”: incapace di collocare una forma nella sua corretta simbologia.

Da quando l’uomo si è fatto Dio, con la compilazione dell’elenco delle necessità metafisiche, l’innalzamento di templi e montagne artificiali di pietra (chiamatele pure cattedrali, convenzionalmente) ha sempre rappresentato la sfida ultima tra l’Artefice deificato e il Dio destinatario finale del Culto.

L’architettura o è metafisica o non è.

 Dobbiamo partire dal “segno originario” che vive costantemente immerso nel suo divenire, nella sua incapacità di fermare il tempo, di essere tempo, al contrario vuole e deve essere l’artefice finale di una confusa trasformazione, di un “essere nel tempo presente”: sempre passato e spesso futuro.

 E’ per questo che Sant’Ivo alla Sapienza, o la Moschea di Santa Sofia, non hanno un tempo, non sono luoghi, ma soltanto segni che si adeguano alla confusione dei secoli che hanno attraversato, e il sacro non è stato altro che l’approdo, un porto sicuro alla necessità non di salvezza ma di certezza.

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Tutto questo appartiene, come dicevamo innanzi, anche al silenzio di chi trova quel particolare spazio, dove la personale ricerca della trascendenza e l’espressione solitaria della metafisica si compiono.

E’ un percorso umano lungo e complesso che riporta l’arte del costruire in basso (come necessità) e in alto (come desiderio), nelle immense navate, tra colonnati infiniti, e templi e meraviglie, tracciati di nuovi e antichi stupori che avvolgono l’anima (qualunque credenza possa esprimere) in uno stato di beatitudine condivisa, ma sempre intima.

Capela do Monte
Architetto Alvaro Siza

Nel XX secolo e in questo squarcio dell’inizio del XXI, il luogo di culto sopravvive, contravvenendo a qualsiasi modalità liturgica e dunque appartiene al campionario delle funzioni indistinte, come un museo, forse meno, o se vogliamo a un “luogo di osservazione naturale” che costellano i nostri magnifici paesaggi, ma la sua essenza intrinseca, la sua unicità è perduta.

Dunque?

Bisogna tornare a considerare il sacro come uno dei punti più alti della pratica simbolica della cultura del progetto, come luogo senza funzioni che riassume al contempo un desiderio e una necessità, di solitudine nella moltitudine e di comunione nell’intimità, sia per le case dei culti monoteisti che per i luoghi di sosta per “ogni viandante che si perso nel cammino verso la verità”.

E’ tutto fuorché una questione di forma, di spazio ma è solo la nascita di un “luogo a-funzionale  nuovo” dove anche la contemporaneità di questi tempi possa trovare un momento di silenzio di dis-connessione, o se volete esagerare: di pace.

Molti sono gli esempi che oggi propongo in questa breve collezione, e quasi tutti non italiani, ma la rete(quando serve)può darvi tutte le istruzioni e gli approfondimenti che un tema così profondo può esprimere.

Tornare al sacro in architettura (e al Sacro nel particolare),significa ridare valenza e forza all’azione progettante per ritrovare una complessità estetica che accarezzi alcuni bisogni primordiali senza farsi scoprire fino in fondo, disegnando “quello che si vede” ma soprattutto “quello che si può sentire” nel “luogo del silenzio”.

Può diventare un esercizio per quella tolleranza etica ed estetica che tanto rimpiangiamo, all’interno della cultura del pensiero unico dominante, e naturalmente per ritrovare il piacere divino della dialettica, e andando oltre, verso la peripateia, potrebbe farci scoprire quei territori del Sacro che sono l’essenza e la luce dentro ognuno di noi.

Per coloro che credono e per quelli che non credono, per quelli che sentono e per quelli che non sentono.

“Camminare implica un movimento, una direzione. Anche se lo fai per caso , un ordine emergerà”

Cappella del nastro – progetto selezionato per 8° edizione “World
Architecture Festival”
Architetto Studio Hiroshi Nakamura & NAP

(Emanuel Dimas de Melo Pimenta.LIbertà.2022)

“Il senso del sacro nasce laddove il soggetto percepisce di trovarsi al cospetto di qualcosa di più grande di sé, laddove viene come avvolto dalla maestà dell’essere. La tesi appena formulata si può ri-esprimere dicendo che il sacro suppone la seguente esperienza: “Essere > Io”.

Ne viene di conseguenza che il contrario del sacro, la sua completa assenza, è esprimibile in quest’altro modo: “Io = Essere”, o anche peggio: “Io > Essere”. Laddove l’uomo non percepisce nulla di superiore a se stesso dal punto di vista del valore, nulla che valga più di se stesso, non ci sono le condizioni ontologiche per la nascita del senso del sacro. Il sacro infatti vive dell’equazione “Essere > Io”; o anche “Vita > Io”, o anche “Verità > Io”.

Le condizioni ontologiche del sacro sono descritte da ciò che Friedrich Schleiermacher (1768-1834) chiama “sentimento di dipendenza” facendone giustamente, a mio avviso, il fondamento originario, primordiale, sorgivo, del sacro, e quindi della dimensione religiosa. Perché una cosa deve essere chiara: senza sacro, nessuna religione. Se il soggetto non percepisce qualcosa di più importante di sé, non compirà mai il movimento della religio, cioè il volersi legare a qualcosa di più grande e di più importante di sé.”

(Vito Mancuso Teologo e Filosofo, 2016. Conferenza Trento)

“L’architettura è la lotta perenne tra l’uomo e la natura, la lotta per sopraffare la natura, per prenderne possesso. Il primo atto dell’architettura è quello di mettere una pietra sul terreno. Quell’atto trasforma uno stato naturale di natura in uno stato culturale; si tratta di un atto sacro.”

(Mario Botta, architetto)

“Il principio di fondo dei miei progetti – scrive Zermani – rimane, come da sempre è stato per gli architetti della cristianità occidentale, quello di rivelare, nell’edificio, la croce. La manifestazione della croce, gradualmente acquisita come elemento tipologico, è la cruna entro cui lo spazio sacro continua ad avverarsi”.

(Paolo Zermani, architetto)


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