Chernobyl: un salto a ritroso nel tempo tra design e architettura, un viaggio nell’abisso delle nostre paure e angosce più cupe sui frammenti del film: The day after!
Ognuno di noi ricorda, molto probabilmente, dove si trovava nel momento in cui la televisione diede l’annuncio del disastro accorso in un paese – ignoto fino a quel momento – in qualche luogo scarsamente segnalato su una carta geografica dell’Ucraina (allora parte dell’Unione Sovietica).
Un team di architetti LOLA (LOst LAndscapes) landscape architects dall’Olanda, L+CC architects dalla Gran Bretagna e TALLER Architects , Colombiani, si sono interrogati sul futuro della centrale e delle aree circostanti per sottarlo al destino di un macabro entertainment park per turisti a caccia di emozioni forti.
Un campus estivo – rivolto a professori e studenti – ha provato ad immaginare diverse ipotesi per una rinascita rispettosa della sofferenza e della distruzione di cui quei non-luoghi saranno imperituri testimoni.
Nelle vicinanze ha già preso vita un parco fotovoltaico per l’energia rinnovabile; altre idee giacciono inerti sul tavolo dell’amministrazione locale riguardanti la costruzione di un luogo della memoria ed anche un possibile Museo dedicato al “fallimento del Comunismo”. Gli architetti hanno progettato una struttura di “zoo” al contrario, all’interno del quale saranno gli uomini/visitatori ad essere chiusi in gabbie di vetro rammentatrici dell’invisibile pericolo che li circonda e punto di osservazione della natura circostante che riconquista il suo spazio.
La serie già oggetto di culto della HBO, Chernobyl, ha rivelato al mondo misteri e segreti di quel terribile fatto attraverso l’occhio di una telecamera. Una ricostruzione struggente e particolareggiata; le interviste podcast ad attori e regista svelano il puntuale ed estenuante lavoro di ricerca storica sotteso al progetto.
Un disastro di dimensioni epocali, causato dall’errore umano intriso di arroganza e negazione, nell’orizzonte ideologico di un regime che ostacola la ricerca della verità e tenta una disperata riscrittura della realtà. Il prezzo altissimo pagato dalla società civile, i sacrifici umani causati, non solo dall’esplosione, ma da una fitta ragnatela di menzogne tessuta da un sistema politico opaco e distorto.
Un progetto così ambizioso che ha richiesto lo studio maniacale dei dettagli (anche i più insignificanti come le targhe automobilistiche dell’epoca, la fede all’anulare destro della moglie di uno dei pompieri accorsi per primi sulla scena del disastro).
Deus ex machina di questo mostruoso compito è il regista Johan Renck, che ha raccontato il suo stato d’animo nel girare le scene, mentre Luke Hull ha ricostruito le ambientazioni in un dialogo triadico tra moda, design e architettura, e il truccatore ha reso palpabili gli effetti delle radiazioni.
Luke Hull è il production designer a capo della complessa operazione di riedificazione della centrale di Chernobyl, che ha saputo muoversi agilmente su più piani narrativi- reale e cinematografico- a partire dall’indiscusso protagonista: un autentico reattore RMBK.
La ricostruzione delle varie scenografie avviene all’interno di uno studio cinematografico lituano, un pezzo di archeologia industriale dove si producevano tappeti.
Un lavoro di paziente riproduzione storica che gli è valsa la nomination agli Emmy Award. Durante un’intervista televisiva Luke Hull ripercorre il processo di progettazione della centrale e, leggendo la sceneggiatura, gli fu chiaro che la “parte cinematografica doveva stare nel design. Si trattava di spiegare l’entità del disastro, della centrale e dell’effetto sulle persone: “ci sono state discussioni tecniche su come poterci avvicinare e raggiungere quell’obiettivo”.
Tutta la ricerca ruotava intorno ad un “grande collage sul muro, una mappa mentale che aiutasse a ritrovare indizi sulle persone reali che erano state coinvolte”. Un lungo ed impegnativo lavoro di ricerca e fattibilità alla base della realizzazione di scenografie costruite grazie anche alle nuove tecnologie dei modelli 3D e filmati. Un’esplosione talmente potente da scagliare in aria il coperchio di cemento del reattore, come se fosse maldestramente sfuggito al controllo di una pentola a pressione. Dietro di sé la scia blu della “stella dell’assenzio”, ricreata dallo scenografo secondo un concetto di realismo “post-atomico”, che sembra prendere le mosse dalla “polverosa” macchina del cinema sovietica piuttosto che dalla caleidoscopica cinematografia Hollywoodiana.
Non è casuale che, tra le sorgenti visuali d’ispirazione ci sia il film presentato alla Biennale di Venezia nel 2017 Elem Klimov – Idi I Smotri (Va’ e Vedi) tratto dai racconti di Aleksandr Adamovič. La storia degli abitanti di un villaggio in Bielorussia durante la seconda guerra mondiale diventa paradigma della metamorfosi di un adolescente in vecchio dai capelli grigi a causa degli orrori a cui è stato costretto ad assistere.
Gli interni (sia residenziali che gli uffici ed altri luoghi di lavoro) sono spesso contraddistinti da forti toni chiaroscurali, indizio di grave cupezza, è forse un rimando simbolico: l’Unione Sovietica soffriva di mancanza di elettricità? I corpi illuminotecnici, in prevalenza lampade fluorescenti, spandono una luce cruda, fredda sull’ambiente e i protagonisti annullando quell’effetto di calore che la luce prova a trasmettere, così come la nostalgia.
Alcune scene di Chernobyl sono state realmente girate nei “palazzi del potere” ricreando atmosfere d’interni coerenti al codice semiotico utilizzato per la serie, potremmo definire post-realista, che non s’ispira agli anni ’80 quanto piuttosto ad una sorta di “bolla” che avvolgeva l’unione sovietica con specifici elementi di arredo: luci fredde, ambienti poco illuminati, utilizzo di tessuti e carta da parati con pattern geometrici e cromatici che virano al verde, tessuti, tende e carte da parati si accostano ai toni ocra, arancio, aragosta, arredi spigolosi che ci immergono in una realtà politica e sociale fortemente gerarchizzata.
Una sorta di effetto specchio riverbera il design nella moda; così il lavoro della costumista pone l’accento su come gli stessi tessuti: naturali e di qualità da un lato, sintetico e poliestere dall’altro, simbolizzino la dualità tra una ristretta oligarchia e la massa diffusa.
Luke Hull trae ispirazione dalle foto di Alexander Gronsky (ricordiamo il ciclo Pastoral che immortala la terra di mezzo assente, quella tra la capitale russa e la natura ormai definitivamente cancellata). Scatti di periferie sospese nel tempo: desolate, incolte, discariche a cielo aperto, terra di nessuno che attanaglia la metropoli.
Mette a fuoco volumi geometrici, architetture di confine, blocchi di case corrosi dal tempo (invece che dalle letali radiazioni) dalle facciate marcescenti e finestre come buchi neri. Rovine abbandonate dalla storia e mai demolite, a memoria dell’eterna sconfitta della modernità.
E la presenza, umana? Gli abitanti hanno preferito la fuga. Nelle vedute di Gronsky sia il momento del giorno che la fase storica sono indefiniti. La desolazione degli spazi marca questa indefinitezza.
Questa “sottrazione dell’umano”, l’evanescenza del soggetto, l’anonimia della visione sono legati alla scomparsa dell’“oggetto”, alla perdita di un orientamento intenzionale dello sguardo. E qui si trova il paradosso delle fotografie di Gronsky. Eliminando gli oggetti, la visione, spontaneamente e in modo eccezionalmente intenso, entra in relazione con il mondo in tutta la sua indefinitezza e pienezza.
Il racconto del fotografo tedesco Gerd Ludwig (di cui ricordiamo la mostra Chernobyl: l’ombra lunga) è un’incredibile testimonianza fotografica di scatti dall’esterno e all’interno della centrale nucleare nel 2005 (durante il suo secondo viaggio a Chernobyl, il primo lo fece nel 1993). Scende nelle sue viscere fino a raggiungere il reattore 4 ancora contaminato. Uno sguardo al limite del poetico che ci pone di fronte alla fragilità della vita umana e alle ripercussioni sull’ambiente in cui viviamo.
Anche se la natura intorno alla centrale, con il trascorrere del tempo, sembra aver superato lo shock e ha avviato il suo percorso di rigenerazione e ripopolamento di animali e specie vegetali.
Un’alta capacità di sintesi e superamento della negazione porta ad identificare il concept d’interior e il codice estetico degli arredi in voga nell’housing sociale in Ucraina e Lituania del periodo (frutto di ricerca sul campo, visite nelle case di anziani proprietari, scrutinio di foto e filmati dell’epoca, lettura di diari dei superstiti) oltre a filmati documentari sulla bonifica di Chernobyl.
Per riuscire nell’intento Hull è andato a caccia di “piccoli” ma preziosi pezzi decorativi e complementi sepolti nei mercatini delle pulci, in pellegrinaggio fisico tra Lituania e Ucraina o virtuale sui siti vintage online per scovare telefoni, oggettistica da cucina, indumenti in poliestere.
Vale la pena posare lo sguardo all’interno degli edifici ospedalieri per essere colpiti dall’iconografia di attrezzature e macchinari sanitari vetusti, più somiglianti all’epoca Vittoriana che agli anni ottanta del ‘900: ma era quella la realtà di molti villaggi dell’Unione Sovietica (una società analogica ostaggio di un sistema altamente burocratizzato).
Ricostruire la città “atom” di Pripyat, la terra di nessuno, confinante con lo stabilimento nucleare – costruita nel 1970 per ospitare gli operai della Centrale – ha rappresentato la grande sfida. Fino a quando venne scelto il reattore dismesso di Ignalina come luogo-surrogato per le riprese esterne, poi sottoposte ad ardita opera di post-produzione in studio. (Un quartiere di Vilnius assume i connotati del parco-giardino di Pripyat con i giochi per bambini). Mettendo a confronto alcune scene della serie Chernobyl con frammenti video ripresi sul luogo del disastro, in quel nefasto 26 aprile 1986, emerge lo zeitgeist in un continuum coerente di trasmutazione della materia attraverso il tempo e lo spazio. Lo sguardo attento ai particolari, anche quelli invisibili ad occhio nudo, proietta sulla serie un taglio documentaristico.
Non possiamo non ricordare, come fa Luke, il fotografo “eroe” Igor Kostin (Confessioni di un reporter) che fu il primo a testimoniare la catastrofe a rischio della propria vita.
Invece di lasciare il suo Paese, come avrebbe potuto fare, Kostin tornò sul campo più volte per dare un volto ai migliaia di martiri, lo sfollamento e il letterale seppellimento di interi villaggi, la disperazione di coloro che vedevano morire i propri cari e sotterrate le poche cose che possedevano.
L’ideatore e sceneggiatore Craig Mazin, ha lavorato a stretto contatto, in forma simbiotica, con lo scenografo Luke Hull e la costumista Odie Dicks-Mireaux: tesi nello sforzo comune di dare una seconda pelle di realismo ai fatti, alle persone, ai volti, ai luoghi.
La centrale nucleare e la città fantasma di Pripyat sono entrate a far parte di un circuito turistico dell’orrore con i suoi tour guidati e chioschi che spuntano come funghi. Da qui, il monito di Mazin:
“Se la visitate, per cortesia ricordatevi che una terribile tragedia è successa proprio lì. Comportatevi con rispetto di tutti coloro che hanno sofferto e che si sono sacrificati”.
Source: the space.com Inside ‘Chernobyl:’ how the TV show’s atmospheric sets were created-
From eerie industrial ruins to Cold War interiors
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