“Padre fondatore” dell’architettura sostenibile, Emilio Ambasz traccia un percorso intellettuale e progettuale “verde” esemplare per pensieri, parole, opere e – più recentemente – in un’autointervista video, I ask Myself.

Oh Gerusalemme, Gerusalemme, città che uccide i Profeti e lapida quelli che vi sono mandati! (…)Vedi, ora la tua casa rimane deserta. Ti dico infatti che non mi vedrai più, finché non dirai: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”

Vangelo secondo Luca 13. 34-35

La questione della sostenibilità da qualche tempo è considerata fondamentale per lo sviluppo dell’architettura contemporanea. Non c’è architetto, designer, costruttore o produttore, che non dichiari di prendere un concreto impegno verso l’ambiente nella propria attività di progetto: ma può esistere un’immaginazione progettuale che consideri la sostenibilità, il rispetto per la salute della specie umana e della natura intera dentro un sistema di pensiero non semplicemente funzionale, ma allargato al sentimento e alla psicologia individuale?

02 EMILIO AMBASZ
Emilio Ambasz

La risposta più icastica data da Emilio Ambasz alle domande di sé stesso nella bella intervista/confessione video I ask Myself* – che ho avuto il piacere di presentare a fine aprile nella basilica di San Francesco a Perugia durante il festival SEED – recita testualmente:

 «Quanto a coloro che professano il mio credo architettonico, non mi interessa se coprono di insalata i loro edifici, ma se le loro opere riescono a suscitare emozioni. Francamente, se un edificio «verde» non parla al cuore, a che serve? È soltanto una costruzione, come tante.»

La sua affermazione disincantata, quasi sarcastica, racconta della sua natura di poeta e visionario, pioniere di molti importanti fondamenti della cultura del progetto contemporaneo: di cui la sostenibilità è solo uno, certamente oggi importantissimo ma solo perché – a parte alcuni insulsi negazionisti – l’emergenza drammatica del cambiamento climatico si fa sentire con terrificante potenza, e frequenza, anche in Italia, dalle siccità alle alluvioni.

Nato nel 1943 in Argentina, laureatosi giovanissimo a Princeton, la più sofisticata ed esclusiva delle facoltà di architettura americane, Ambasz arriva a soli 28 anni ad essere curatore del Museum of Modern Art di New York. Qui inventa e allestisce nel 1972 la prima – e la più importante – mostra mai dedicata al design italiano da un museo d’arte contemporanea: Italy The New Domestic Landscape. L’esposizione non solo è la prima e più grande rassegna dei prodotti/icona del design italiano mai organizzata in un museo d’arte negli Stati Uniti (e nel mondo) ma, come ricorda lo stesso Ambasz:

“Non poteva non rendere conto anche delle problematiche e delle posizioni critiche verso il sistema rappresentato dai perfetti oggetti delle industrie italiane”. *

Il curatore invita dunque, insieme alle aziende leader del design italiano con i loro prodotti, alcuni dei più famosi architetti/designer a realizzare installazioni di ambienti “futuribili” (tra gli altri, Ettore Sottsass, Marco Zanuso, Gae Aulenti, Alberto Rosselli) e autori e gruppi “radicali” per presentare le loro visioni progettuali (nella sezione Design as Commentary). Partecipano così alla mostra Gaetano Pesce, Ugo La Pietra, Archizoom, Superstudio, Gruppo Strum (che presenta dei “Fotoromanzi” a tema politico) ed Enzo Mari (che con determinazione tutta ideologica partecipa solo con un testo). Va così ascritto ad Ambasz, tra i tanti meriti, quello di rivelare al mondo l’esistenza tra i giovani architetti italiani di una decisa posizione politica alternativa, che mai più si ritroverà così precisamente negli anni successivi.

Programmaticamente inquieto e sempre pronto a nuove sfide culturali si dedica quindi dalla seconda metà degli anni 70 a creare un modello senza precedenti di design, dove il progettista (egli stesso) sviluppa interamente non solo il disegno di una sedia per ufficio – che diventerà poi la serie Vertebra prodotta da Anonima Castelli – ma anche tutta la attrezzatura necessaria a produrla. Un’altra esperienza pioneristica e pressoché unica, paragonabile forse solo a quello che Giorgetto Giugiaro con la sua Italdesign farà nel campo dell’automobile.

Emilio Ambasz con Giancarlo Piretti, poltrona per ufficio Vertebra, 1974/76

Segue poi per Ambasz un periodo di lungo impegno su molti fronti progettuali (sempre esercitando la sua passione per la scrittura, soprattutto di “favole”, apologhi fulminanti su senso e significato del costruire umano) dove risaltano le prime architetture “verdi”, a partire dal Lucille Halsen Conservatory di San Antonio, del 1982: un grande e singolare giardino botanico che invece delle tradizionali serre vetrate, inadatte al clima caldo e secco del Sud Texas, per ospitare e proteggere le piante le contiene sotto terra, al riparo dal sole, limitando le aree vetrate alle sole coperture.

Emilio Ambasz, progetto Lucille Halsen Conservatory, San Antonio, Texas (USA) 1982
Emilio Ambasz, Lucille Halsen Conservatory, San Antonio, Texas (USA) 1982

Concetto rivoluzionario che non solo diminuisce la necessità di sofisticati impianti per l’aerazione e la regolazione delle temperature interne (con una riduzione del 20% dei costi di costruzione), ma propone un nuovo tipo di architettura verde che protegge la natura e ne è protetta. Da allora suoi progetti e realizzazioni d’architettura environmental friendly si moltiplicano fino al completamento, nel 1990, del suo complesso forse più famoso: l’Acros Building, ovvero la Prefecture International Hall di Fukuoka, letteralmente una collina verde che sorge nell’ultima area disponibile nel territorio densissimo di costruzioni della città giapponese. La stessa storia del progetto è un apologo sulla possibilità per l’architetto di essere ancora il creativo mediatore tra le necessità delle istituzioni (pubbliche) e quelle della popolazione.

Quando alla fine degli anni Ottanta, in un’epoca di grande espansione economica ed apertura del Giappone all’intervento di architetti stranieri, la città di Fukuoka intende creare un nuovo edificio di forte rappresentanza per uffici governativi l’unico sito disponibile è un parco pubblico di due ettari nel centro della città. Quando si diffonde la notizia che la potenziale nuova struttura sarebbe stata costruita sull’ultima area verde rimasta in città, scoppia la protesta dei cittadini.  Ambasz si aggiudica l’incarico  di progetto trovando il modo di riconciliare gli opposti desideri delle due forze sociali, con un’architettura che mantiene le dimensioni originali del parco dando al contempo alla città di Fukuoka una potente struttura simbolica.

Il complesso si concretizza in una serie di terrazze-giardino piantumate con alberi, che si elevano lungo tutta la facciata dell’edificio destinato a contenere gli uffici della Prefettura e altri spazi per diverse funzioni, dalla cultura all’intrattenimento. Praticamente tutto il terreno che l’edificio avrebbe sottratto all’uso pubblico viene restituito ai cittadini, che approvano immediatamente il progetto: così che la costruzione può procedere velocemente, senza i possibili ostacoli dovuti al disagio della comunità. Passano però esattamente trent’anni perché gli alberi crescano all’altezza voluta, così che oggi la collina artificiale dell’Acros Building possa risaltare come un eccezionale unicum naturale nella densissima urbanizzazione di Fukuoka. La città e la sua prefettura diventano così il simbolo più famoso di quell’idea di Green on Gray, il Verde sopra il Grigio, di cui Ambasz ha fatto il motto della sua opera costruita.

Emilio Ambasz, Acros Building (Fukuoka Prefecture International Hall, Giappone), estate 2022.
Courtesy Emilio Ambasz & Associates 

Eppure l’edificio che Emilio ama di più nella sua vasta produzione è fondato su una dimensione tutta privata, psicologica e intimista fin nel titolo con cui è conosciuta: la Casa de Ritiro Espiritual vicino Siviglia, progettata a metà anni 70 e completata tra il 2002 e il 2004. Per accedere a questo luogo remoto, manifesto di una ricercat spiritualità in architettura, si compie un lungo percorso in auto, fino al sentiero ripido e tortuoso sulla collina dentro cui è costruita la parte abitabile, ipogea, della casa. È la voce amichevole ma lontana di Ambasz che mi ha accompagnato a suo tempo nel viaggio verso la costruzione, già vista in disegni, mostre e alcune fotografie, che non riuscivano però a rendere giustizia al sentimento scultoreo della costruzione.

Emilio Ambasz, Casa de Ritiro Espiritual, Siviglia 1975/2004

Oltre l’angolo che genera la cartesiana “facciata” dell’opera, la più aerea delle componenti, il cielo, inquadra l’edificio posto nel punto più alto di una delle colline della masseria (definita “parco pastorale”) dove si  trova circondato da un lago artificiale. L’azzurro skyline di Siviglia in lontananza fa da sfondo permanente a questa specie di tempio dedicato alle opposte divinità Artificio e Natura. Quell’azzurro è l’unico colore, così immenso da raccogliere la sfida di contrastare il bianco assoluto che Ambasz ha scelto per la casa, o meglio per quella che emerge dalla Terra dentro cui è immersa la parte realmente abitabile, in un estremo gesto di ritorno al grembo naturale originale.

Non sorprende dunque che il suo più recente, generosissimo atto da vero attivista ambientale sia stato donare al Museum of Modern Art di New York 10 milioni di dollari per creare l’ Emilio Ambasz Institute for the Joint Study of the Built and the Natural Environment, in una prospettiva utopica: attraverso studi, ricerche, progetti e discussioni riconciliare il peccato originale di superbia della specie umana – che si crede superiore a tutte le altre e scientificamente ha ricercato la distruzione del suo ambiente naturale – con la presa di coscienza di quanto remota è la possibilità per quell’ambiente di mantenere le condizioni necessarie per la sopravvivenza umana.

Quando Ambasz parla di questo dilemma, facendo magari a sé stesso nell’intervista I ask myself le domande più scomode (“cosa hai fatto di concreto in questi anni per migliorare la condizione dell’ambiente?”) non c’è nessun moralismo nelle sue parole: piuttosto la dolorosa presa d’atto che Tekné (τέχνη) non è stata (o non è più) sufficiente e che una nuova vocazione poetica – anzi mitopoietica – è necessaria anche nel quotidiano lavoro di costruttori e progettisti.   

Per questo non posso dimenticare le sue generose parole a commento del mio lavoro di designer, molti anni fa. Sono le parole di un poeta, come credo Emilio Ambasz vorrà essere soprattutto ricordato.

Is it the designer’s task to make Tools or Totems? This question has been the subject of long and artificial debates. The answer, I believe, is: when the creature moves the heart and engages the mind, it is both, Tool and Totem. Stefano rides with those who believe that an object’s true function is to seduce us. For him the object’s validity is in itself, radiant but hermetic, a quality we may feel we came close to, or even possessed, for a fleeting moment, when it caught us emotionally, but which we know is ungraspable.***

* il video I ask Myself è visibile su Youtube

** Da una conversazione di Emilio Ambasz con l’Autore, maggio 2023

*** ”Compito dei designer è produrre Strumenti o Totem? Domanda soggetto di lunghe e artificiose discussioni. La risposta credo sia: quando la cosa creata commuove il cuore e impegna la mente, è entrambi, Strumento e Totem. Stefano viaggia con quelli che pensano la vera funzione di un oggetto sia sedurci. Per lui la validità dell’oggetto sta nel suo stesso essere radioso ma ermetico; una qualità cui possiamo sentire di avvicinarci, o esserne posseduti per un attimo fuggevole, quando ci coinvolge emotivamente, ma che sappiamo essere inafferrabile.”

Emilio Ambasz, Tool or Totem, in, Stefano Casciani. Monuments: Oggetti e Soggetti 1979-2003, catalogo della mostra,  Fondazione Vodoz-Danese, Milano 2003


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