Superato lo choc della notizia, elaborati dolore e indignazione per non poter dare l’ultimo saluto a un amico e una grandissima personalità della cultura internazionale (per leggi assurde che governano l’Italia in questi giorni), la scomparsa di Germano Celant – il 29 aprile scorso, a Milano – lascia un grande vuoto e un interrogativo solo in apparenza banale: chi potrebbe prendere il suo posto oggi nel mondo dell’arte e della critica, o anche solo essere paragonato al suo ruolo?  

Nessuno, perché Celant è insostituibile: perché le stesse condizioni attuali del mercato (parola non bella ma appropriata) dell’arte e della cultura più in generale, non lasciano più spazio a figure “eroiche” come la sua, e neppure semi-eroiche.

Germano Celant
 Ritratto di Germano Celant, durante l’allestimento della grande mostra “Arts and Foods” per Expo 2015, Triennale di Milano

E perché il suo percorso di sei decenni di carriera intensissima sarebbe impossibile da ricreare per chiunque, avvenuto com’è tra due secoli in cui si è completamente rivoluzionata l’idea di cultura di massa: quel fiume in piena che, rotti gli argini con le avanguardie politiche e artistiche dei primi del 900, teorizzato e scorso impetuosamente negli anni delle rivolte anni ‘60 (quando Celant inizia a operare), ritornato dagli anni ‘80 nell’alveo del generale riflusso politico ed etico, da decenni ormai oscilla in un limbo infinito e opaco, dove distinguere tra talento, business, persuasione mediatica, meccanismi economici, ego e super ego degli attori di una grande commedia, è diventato sempre più difficile.

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”  Un giorno con tutti gli artisti dell’Arte Povera riuniti, oltre al sottoscritto, arrivò da Genova Germano Celant, tutto di nero vestito. Al centro del conclave, prese la parola e rivolto agli artisti: “Tra noi dobbiamo stabilire un rapporto da regime militare. Nessuno di voi potrà realizzare una mostra senza il consenso di tutti gli altri, nessuno potrà decidere di esporre in un museo o galleria se non avallato da tutti. Nessuno potrà vendere un’opera se non saremo tutti d’accordo”. (…)Tutti gli artisti presenti aderirono alle proposte di Germano Celant ubbidendo. ”  

Giancarlo Politi, Un ricordo privato e “combattente”. In memoria di Germano Celant, Flashart.it, 30.4.2020
 L’artista Giulio Paolini con Celant, anni 70

Sulla lunghezza e tenuta di una carriera tanto eccezionale, vengono in mente le battute di un film del cinema popolare di Hollywood che certamente a Germano sarà piaciuto, “Raiders of the Lost Ark” (I predatori dell’Arca perduta), quando Karen Allen/Marion Ravenwood dice a Indiana Jones/ Harrison Ford: “Non sei più l’uomo che ho conosciuto dieci anni fa” e Jones/Ford risponde: “Non sono gli anni, amore, sono i chilometri.”

Alighiero Boetti, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 (cemento a presa rapida e farfalla cavolaia); Archivio Alighiero Boetti

Certo, ancora a 80 anni Celant sembrava aver attraversato quasi indenne una vita lunga e intensa. Perfino nell’aspetto esteriore non aveva mai abbandonato un certo stile di derivazione esistenzialista: capelli spesso lunghi, vestito sempre rigorosamente in nero, una presenza fisica robusta ma agile, accompagnata a un’estrema gentilezza e familiarità nel dialogo sul lavoro, come ricordo dalla collaborazione alla mostra su Gio Ponti. 1Espressioni di Gio Ponti, a cura di Germano Celant; 6.5/24.7 2011, Triennale di Milano del 2011 per la Triennale di Milano.

Germano Celant con altri giovani critici (da sin. Tommaso Trini, Achille Bonito Oliva, Celant, Filiberto Menna, Marcello Rumma, incontro per la mostra “Arte povera più azioni povere”, Amalfi, Ottobre 1968. Courtesy Fondazione Menna, Salerno

Ma sicuramente pesavano su di lui i “chilometri” metaforici e geografici percorsi: da misurare lungo gli spostamenti di anni, prima in Italia alla scoperta di tendenze come l’Arte Povera e movimenti come l’Architettura Radicale, poi per l’Europa per le grandi mostre internazionali e poi ancora tra Italia e il Guggenheim Museum di New York di cui è stato a lungo curatore: infine, per l’incarico di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli per assemblare e curare la loro enorme collezione d’arte internazionale e poi per creare il miglior museo d’arte moderna e contemporanea di Milano e d’Italia, la Fondazione Prada

La prima ricercatissima edizione del libro di Celant “Arte Povera”, editore Mazzotta, 1969

Eppure le centinaia di migliaia di chilometri percorsi da Celant non gli saranno pesati quanto lo sforzo di costruire un’identità dell’arte con un occhio all’avanguardia – storica e contemporanea – e l’altro alla cultura di massa, intesa sia come cultura espressa dalle piccole o grandi “situazioni” (per dirla alla Guy Debord) artistiche e progettuali, sia come la cultura popolare in cui queste stesse manifestazioni prima o poi convergono. Soprattutto è stato impegnativo lo sforzo di rifondare l’idea di arte sull’equazione culturale che Celant è tra i primi a riscoprire e lanciare: quando avverte già nei primi anni 60 la necessità di collegare l’espressione dell’artista e della sua opera a un progetto politico e ambientale di società, a volte forse utopica, ma inevitabilmente destinata a sopraggiungere o a manifestarsi in alcuni aspetti della realtà.

Copertina della rivista Casabella n. 367, col titolo “Radical Design”, definizione secondo Branzi trovata da Celant per le avanguardie d’architettura italiane

Non a caso il suo primo scritto sull’ Arte Povera, quello che lo ha lanciato – insieme agli autori da lui promossi – sulla scena internazionale dell’arte, è sottotitolato Appunti per una guerriglia 2Germano Celant, Arte povera. Appunti per una guerriglia, in, Flash Art, no. 5 Novembre-Dicembre 1967, p- 5: e altrettanto non casualmente il nome che propone per i nuovi movimenti e autori alternativi nella cultura italiana del progetto (da Sottsass ad Archizoom, riuniti intorno alla rivista Casabella) è proprio Architettura Radicale 3Si veda la fantasiosa ricostruzione fatta dal critico Giacinto di Pietrantonio nel volume Design in Italia: “Genova 1969, Germano Celant: “Pronto! Sono Germano, parlo con Andrea Branzi?” Firenze, Andrea Branzi: “Sì, ciao Germano”. Genova, Germano Celant: “Ho un nome da proporti per i vari nuovi movimenti di architettura: Architettura Radicale”. La ricostruzione seppur immaginata di questa conversazione telefonica si fonda su dati di realtà, in quanto mi è stata riferita da Andrea Branzi (…) “, in, Stefano Casciani, a cura di, Design in Italia 1950-1990, Giancarlo Politi Editore, Milano 1991, pag. 55. Molto legato alla cultura americana, Celant mutua così una definizione politica riferita, soprattutto nel mondo anglosassone, a movimenti e persone poco inclini al compromesso, proiettate in una visione sociale utopica ma non necessariamente progressista, che punta e induce al dubbio e alla riflessione, prima ancora della proposta progettuale.

Germano Celant con Luciano Fabro e Paolo De Grandis, alla mostra, The Knot Arte Povera, PS One, New York 1985. Foto di Maria Mulas

E così anche una sua mostra curata per la Biennale di Venezia nel 1976, Ambiente/arte. Dal futurismo alla body art è non solo un’affascinante ricostruzione critica e al vero dei più importanti ambienti creati dagli artisti delle avanguardie storiche: ma anche “la madre di tutte le mostre” che da allora in poi sono state ideate e realizzate sul legame tra l’opera , lo spazio e il suo tempo, tra “scoperta” fatta dall’artista ed esperienza reale dell’ambiente, offerta al visitatore dell’esposizione dal pensiero dell’autore e del “curatore come artista” Celant.

Claes Oldenburg,acquerello per “Il Corso del Coltello”, performance per la Biennale di Venezia, con Coosje van Bruggen, Germano Celant, Frank Gehry; 1984/5

Impossibile riassumere la lunghissima serie delle sue mostre e progetti, che richiederebbe almeno un intero libro per essere raccontata. Ma un corpus di opere così ricco merita sicuramente un ricordo, di cui queste note improvvise e anche un po’ commosse sono un accenno. A fare da fil rouge qui possono stare utilmente brani di una lunga intervista 4Germano Celant: Un Sogno Insieme. Dall’operare ’caldo’ con gli artisti all’esporre ‘freddo’ con gli architetti. Intervista di Stefano Casciani, in,domus n. 940, ottobre 2010, pp. 92/98. L’intervista è stata da me rieditata e corretta per una migliore comprensione. che facemmo per Domus nel settembre 2010, ai tempi della mia vice direzione della rivista: forse il riassunto più lucido delle sue utopie, idee, visioni. Parlammo a lungo, da vecchie conoscenze e ne è risultata un’auto-ricostruzione del suo lavoro, sollecitata e ottenuta con fatica ma poi espressa con sincerità: come un flusso libero di autocoscienza, che porta anche il lettore meno esperto a capire la complessità e anche la felicità (nel senso della riuscita) di un percorso tanto lungo e articolato.

Claes Oldenburg, “Il Pittore” per  la performance “Il Corso del Coltello” (Gehry era “L’Architetto” (fig. 10) e Celant “Il Biliardo”)

Anche nella sua maturità e nel grandissimo successo personale, Celant non ha mai dimenticato di essere “nato” con artisti più poveri della loro arte, che gli sono rimasti idealmente accanto in tutto il suo percorso, e che gli hanno dato lo spunto per parlare di opere che sia lui che gli artisti definiscono proprio “oggetti”: a partire dagli Oggetti in meno di Michelangelo Pistoletto del 1966/67, che costituiscono un vero e proprio ambiente, inizialmente lo studio stesso di Pistoletto, una tipografia dismessa a Torino. A descrivere questa mutazione dell’opera da categoria definita (pittura, scultura, architettura) a continuum concettuale e fisico, contribuisce il suo approccio paradossalmente metodico, che così raccontava nella nostra intervista.

Claes Oldenburg, costume “L’Architetto” per Frank Gehry

“ Il mio training di storico dell’arte è inevitabilmente riflesso nel mio operare, per cui ho sempre trattato qualsiasi soggetto d’indagine seguendo una rigorosa metodologia e una specifica filologia, così da uscire da una critica creativa e giornalistica che non lascia alcun contributo scientifico e analitico(…). Inoltre mi spinge la coscienza di un impegno nel ‘territorio’, trovando sintonie in un gruppo di artisti – da Mario Merz a Jannis Kounellis, da Luciano Fabro a Giulio Paolini, da Giovanni Anselmo ad Alighiero Boetti, da Giuseppe Penone a Gilberto Zorio – per operare su una dimensione fluida e mobile dell’arte, quella non irrigidita e statica di una pittura e di una scultura tradizionali.”

E ancora, a proposito dell’approccio unitario alle arti:

“Il mio percorso è segnato da un’impostazione storica, inculcatami all’università da Eugenio Battisti, per cui l’attenzione analitica poteva riversarsi su qualsiasi soggetto artistico, dagli orologi alle streghe, dagli automi a Brunelleschi. Pertanto ho subito impostato il mio fare su un’indagine a 360 gradi che poteva spaziare dall’arte al design, fino all’architettura. Questa visione paritetica è anche conseguenza dell’essere stato, per diversi anni, il segretario di redazione della rivista Marcatrè, nata nel 1963 a Genova (fondata da Battisti, ndr) e poi trasferita a Milano, in cui venivano accostati i diversi linguaggi dell’architettura, dell’arte, del design, della musica, della letteratura… sotto le direzioni di Portoghesi, Battisti, Carpitella, Calvesi, Eco e Gelmetti, Sanguineti. L’interesse per la cross-pollination tra le arti nasce allora. “

Frank Gehry, Guggenheim Museum di Bilbao, 1993/97; commissionato a Gehry da Thomas Krens, direttore del Guggenheim New York su esortazione di Celant, allora curatore del Guggenheim NY . A sinistra, scultura “Maman” (Mamma), di Louise Bourgeois

Nato a Genova, Celant infatti inizia prestissimo a muoversi tra la sua città, Torino, Milano e poi gli Stati Uniti, prima a Los Angeles e poi a New York: ma mantiene saldamente le radici in Italia, dove in un momento storico eccezionale trova le condizioni ideali per condurre sul campo la sua ricerca e sperimentazione sull’arte d’avanguardia “diffusa” nelle diverse aree di lavoro.

 Gae Aulenti, disegno di studio per l’allestimento della mostra The Italian Metamorphosis, 1943–1968, a cura di Germano Celant, Guggenheim Museum New York, 1994/95 (collezione Casati Gallery, New York)

“ Quindi la stesura nel 1968 della prima monografia su Marcello Nizzoli – prima artista, poi architetto e designer – risponde esattamente ai miei interessi di una creatività che spazia su tutto il reale. Da lì nasce il rapporto con lo Studio Nizzoli e Alessandro Mendini, che mi chiama a collaborare a Casabella, dove per forza contestuale (essendo una rivista di architettura) mi pongo il problema di trovare un’osmosi tra ricerca visuale e progettazione architettonica. I miei interessi si intrecciano e il mio lavoro, sia da storico che da teorico, si concentra dal 1969 sulla fusione e la confusione delle arti, dall’Architettura radicale (…), alle analisi tematiche con le mostre (come “Ambiente/Arte” del 1976, “Arte & Moda” del 1996, “Arte & Architettura” del 2004), fino a una lettura storica, allargata e democratica tra le arti come “Identité Italienne” al Centre Pompidou di Parigi nel 1981, “European Iceberg” all’Art Gallery of Ontario di Toronto nel 1984 e a “Italian Metamorphosis” al Guggenheim Museum di New York nel 1994. “

Rem Koolhaas/OMA, primo modello (2008/9) per il nuovo complesso Fondazione Prada a Milano, fondata da Patrizio Bertelli e Miuccia Prada con la direzione di Germano Celant

Nella lucida strategia di Celant per ridefinire il rapporto tra oggetto e ambiente, opera e spazio, arte e architettura è inevitabile sopraggiunga il momento in cui  le due dimensioni si incontrano nella figura di uno stesso autore: è Frank Gehry, l’architetto/scultore partito da una sperimentazione molto vicina all’Arte Povera con la sua casa a Santa Monica fatta di materiali “ready made” (dalla lamiera ondulata al compensato grezzo) e arrivato ad essere un grande protagonista dell’architettura postmoderna internazionale, grazie anche alla promozione del suo lavoro fatta da Celant.

Rem Koolhaas/OMA, Fondazione Prada a Milano, prospetto del complesso con la torre/ristorante (2015/18)

Tra loro s’instaura un’amicizia e una collaborazione durata anni, che ha come momento più spettacolare la rappresentazione Pop/Surreale de “Il Corso del Coltello” inscenata a Venezia, con Claes Oldenburg e sua moglie Coosje van Bruggen: ma che porterà anche a realizzazioni epocali come il Guggenheim Museum di Bilbao, su sollecitazione di Celant all’allora direttore Thomas Krens, che affida a Gehry il progetto dell’edificio simbolo di un nuovo corso dell’architettura come scultura urbana.

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La loro stessa collaborazione servirà poi a Celant per lanciare il suo progetto integrato forse più importante, la collaborazione con Prada e gli architetti Herzog & De Meuron e Rem Koolhaas, quest’ultimo poi incaricato dell’ideazione e della costruzione della Fondazione Prada a Milano.

Rem Koolhaas/OMA, primo modello (2008/9) per il nuovo complesso Fondazione Prada a Milano, fondata da Patrizio Bertelli e Miuccia Prada con la direzione di Germano Celant. Courtesy Fondazione Prada

“Partito da Nizzoli e dall’Arte Povera, la mia percezione di fare estetico esteso a tutti i campi (…) mi ha portato a essere ‘aperto’ a tutte le soluzioni plastiche, funzionali o meno, come a tutti gli ‘strappi’ linguistici. Per tale ragione il mio muovermi è marcato da personalità come Robert Mapplethorpe e Piero Manzoni, Joel-Peter Witkin e John Wesley, Michael Heizer e Miuccia Prada, Joseph Beuys e Frank O. Gehry, Emilio Vedova e Louise Bourgeois, e da giovani come Tobias Rehberger e Nathalie Djurberg, Thomas Demand, Tom Friedman, Francesco Vezzoli, Andreas Slominski e Carsten Höller. È sempre stato un intreccio tra linguaggi e ricerche molteplici. Non può meravigliare quindi che negli anni Settanta, vivendo a Los Angeles, mi sia interessato di Frank Gehry, per cui ho introdotto e redatto, con Rizzoli International, la prima monografia. In Italia ho curato al Museo del Castello di Rivoli la sua prima antologica, ho collaborato alla realizzazione, insieme a Oldenburg e van Bruggen, de Il Corso del Coltello: e a New York l’ho introdotto presso Thomas Krens, con cui è nata la progettazione del Guggenheim Bilbao. Frank rappresenta proprio quella cross-pollination delle forme e delle funzioni, dei materiali e degli spazi, che si può considerare l’attitudine fluida con cui si apre il XXI secolo, ma che ha anche orientato il mio viaggio di storico e di teorico, con la soddisfazione di aver percorso insieme un viaggio, sul piano dell’amicizia e della storia. La familiarità con Gehry e la sua maniera di ‘creare’, in sintonia con gli artisti – da Donald Judd a Richard Serra a Claes Oldenburg – e di rispondere alle necessità museali (…) mi ha aiutato a entrare in dialogo prima con Renzo Piano per la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova a Venezia, e ora (settembre 2010 n.d.r.) con Rem Koolhaas per la progettazione dei nuovi edifici della Fondazione Prada, in largo Isarco a Milano.“

Frank Gehry procede poi sulla sua strada, fino a diventare l’architetto americano che costruisce (e non solo disegna) più famoso della storia recente, ma anche cedendo negli anni alle necessità del mercato immobiliare, come nume tutelare di uno studio sempre più grande, che deve confrontarsi con gli standard di incredibile produttività delle enormi compagini multinazionali che creano lo skyline delle città del mondo, spesso indistinguibili l’una dall’altra.

Mario Merz, Igloo del pane, 1989; nella mostra “Arts and Foods” per Expo 2015, Triennale di Milano. Courtesy Fondazione Prada

Celant e le sue mostre si salvano invece dall’omologazione inevitabile creata dalla globalizzazione della produzione e del mercato, proprio per quella “cifra” di un’attenzione meticolosa a definire nelle esposizioni – storiche o di ricerca – il rapporto tra opera e ambiente (fisico, sociale, culturale) che le fa diventare a loro volta altrettante opere, sia per l’esperienza fisica di intrattenimento (perché no?) del visitatore, sia per la memoria, individuale o storica, che lasciano anche una volta concluse 4*. Così ne riassumeva il senso progettuale nella nostra intervista.

“ Mettendo in pratica quanto avevo appreso studiando Nizzoli e lavorando a Casabella, inizio a capire che il critico o lo storico d’arte (…) non sanno ‘leggere’, né ‘gestire’ linguisticamente gli ambienti e le metodologie espositive: procedono per frammenti di attenzione agli oggetti singoli. Comincio allora a collaborare con architetti, designer e grafici, per avere un dialogo-controllo sul “total display” dell’arte. Nel 1976, invitato come curatore da Pontus Hulten e da Vittorio Gregotti alla Biennale di Venezia, insieme a Gino Valle e Pierluigi Cerri realizzo “Ambiente/Arte”. Parto dalle ambientazioni dei futuristi italiani e russi, da Balla a Tatlin e sviluppo il racconto ambientale con gli esempi più spettacolari: da El Lissitzky a Mondrian, da Kandinsky a Duchamp, da Van Doesburg a Schlemmer per arrivare agli anni Sessanta con Fontana, Arman, Warhol e Pistoletto. Accanto al percorso storico invito artisti contemporanei come Nauman, Irwin, Merz, Kounellis, Acconci, Buren, Asher, Wheeler, Nordman, Beuys e Palermo a realizzare un’opera in situ. Da qui dò inizio al mio procedere espositivo “in collaborazione con” Gae Aulenti, Jean Nouvel, Achille Castiglioni, Rem Koolhaas, Massimo Vignelli, Frank Gehry, Pierluigi Cerri e Renzo Piano: un passaggio dall’operare ‘caldo’ insieme agli artisti a un esporre ‘freddo’ insieme agli architetti.  (…) Da qui nasce anche il mio contributo sul linguaggio di esposizioni e mostre: non un piatto display di oggetti, ma un racconto per immagini in un determinato luogo e tempo. “

Rem Koolhaas/OMA, Fondazione Prada a Milano (esterni e interno della torre), 2008/18. Courtesy Fondazione Prada.
Rem Koolhaas/OMA, Fondazione Prada a Milano (esterni e interno della torre), 2008/18. Courtesy Fondazione Prada.

Certamente nei numerosi ruoli importanti e decisionali rivestiti lungo la sua carriera, questa stretta vicinanza personale e culturale con i progettisti coinvolti nell’attività espositiva – architetti, designer, allestitori, grafici – è stata utile a Celant: curatore del Guggenheim Museum di New York, direttore per arte e architettura della Triennale di Milano (2009/11) e dal 1995 curatore e poi direttore scientifico della Fondazione Prada ha dovuto però conciliare la sua familiarità col mondo del progetto con le necessità economiche, diciamo pure imprenditoriali, di istituzioni così importanti. Com’è riuscito ad avere successo in entrambe queste due personalità? Oltre a concepire il “disegno” dei contenuti, quali strutture organizzative la sua figura di intellettuale/manager culturale ha saputo/dovuto progettare-finalizzare-utilizzare? E chi sono oggi gli interlocutori, i “committenti” più importanti, per questa nuova figura che lui stesso ha contribuito a creare?


“Proprio dal procedere operativo degli studi di architettura o di design ho imparato che il lavoro va svolto in team, che ogni progetto va impostato e condiviso con una sua specifica struttura creativa, curatoriale e produttiva. L’architetto stabilisce le linee generali del progetto e lo coordina, controllando il metodo di lavoro quanto la sua attuazione secondo la sua visione: lascia al gruppo di collaboratori il compito di portare avanti il progetto (con verifiche sistematiche che comportano a volte sconvolgimenti dell’idea iniziale) fino alla sua stesura definitiva e alla sua concretizzazione. L’esperienza del Guggenheim Museum, con Tom Krens, è stata determinante perché mi ha insegnato un allargamento progettuale e culturale dell’istituzione museale. Non esiste oggi museo al mondo che riesca a coprire degnamente la storia dell’arte contemporanea dal 1968 a oggi. Il salto di scala, l’entrata in deserti e paesaggi esterni rendono sempre più necessario pensare a un allargamento del territorio museale, così da includere tanto le sculture minimal che richiedono ognuna una sala e le installazioni ambientali. (…)

Interni della Torre (2018) nella Fondazione Prada (progetto Atlas, a cura di G.Celant)
con opere di Michael Heizer e Pino Pascali (in primo piano). Courtesy Fondazione Prada.

Su un altro piano ugualmente importante, all’esplosione individualista dell’arte e degli artisti, corrisponde oggi una pari esaltazione della personalità del collezionista. Se prima chi raccoglieva opere d’arte aspirava a collocarle in uno o più musei – come Rockefeller, Guggenheim (in parte), Panza di Biumo – ora gli stessi collezionisti si costruiscono un museo: che, come Eli Broad e Dakis Joannou, Pinault e Arnault, Boros e Rubell, gestiscono con decisioni in prima persona per esaltare le proprie idee e le proprie scelte (…).

Il caso della Fondazione Prada è stato per me un lavoro a mani e sguardi incrociati, che comprendono gli input fondamentali di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, dove le soluzioni vengono da uno scambio sulle reciproche esigenze linguistiche: che sono le opere degli artisti, la logica della collezione, la metodologia espositiva, le risposte progettuali, le necessità volumetriche e funzionali, la veicolazione dell’immagine, il contenimento dei costi, l’innovazione comunicativa e tutti gli altri elementi che compongono un risultato museale, per quanto sperimentale.

Esposizione “Post Zang Tumb Tuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, 18.2/25.6/2018, Fondazione Prada;
Filippo Tommaso Marinetti che istruisce una cuoca sulla “Cucina Futurista”: sul fondo un’opera di Umberto Boccioni

Ancora una volta il team funziona, perché si basa su un’apertura reciproca ai singoli suggerimenti e alle specifiche esigenze, per disegnare un sogno insieme.”

Potrà sembrare strano, per un intellettuale (stavo per scrivere artista) così cool e disincantato parlare di “un sogno”, ma Celant era così. Ha affrontato il suo progetto di vita e di lavoro con la lucidità di chi sa che “produrre” artisti, ricercare, collezionare ed esporre arte è certamente un’impresa economica. Ma lo ha fatto anche con lo sguardo del fanciullo eccitato dalla possibilità di scoprire sempre nuove fantasie, rese realtà dalla sua intelligenza e dall’incontro con l’altro: l’editore/direttore di riviste, il collezionista piccolo o grande, il direttore di museo, l’industriale/mecenate compagno di strada, altrettanti ufficiali della guerra per affermare ancora – nel bene e nel male – la centralità dell’arte nella cultura contemporanea.

Mi mancherà, ci mancherà moltissimo l’ultimo generale di questa guerra, il curatore/artista Germano Celant.

Germano Celant, col suo consueto abbigliamento, nel cortile della Fondazione Prada, 2018; foto Pietro D’Aprano per Fondazione Prada

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