Due architetti, Valerio Paolo Mosco e Matteo Vercelloni, in due recenti libri raccontano la stramba vita e l’opera immortale di altri due architetti, insuperati maestri dell’Italia che fu prima fascista e solo poi, faticosamente, democratica: con conseguenze imprevedibili per entrambi.

MORETTI, Luigi Walter. Nacque a Roma il 2 gennaio 1907 da Maria Giuseppina, originaria di Gallo, piccola frazione del Comune di Tagliacozzo in provincia dell’Aquila, e da Luigi Rolland, un ingegnere e architetto di famiglia belga. Secondo alcune testimonianze dei familiari, Moretti nacque settimino il 22 novembre 1906, ma fu registrato soltanto il 2 gennaio (…). Il padre non poté dare il suo cognome al figlio, perché già sposato e padre di due figlie, con le quali Moretti mantenne per tutta la vita rapporti di solidarietà, ispirata alla profonda religiosità che lo pervase sempre, grazie ai solidi insegnamenti materni.

TERRAGNI, Giuseppe. Nacque a Meda, in provincia di Milano, il 18 aprile 1904, ultimo dei quattro figli di Michele, un affermato e stimato costruttore, titolare di un’impresa edile, e di Emilia Giamminola. Nel 1909 la famiglia si trasferì a Como, dove vivevano i parenti materni. Dei suoi fratelli, il maggiore, Attilio (1896-1958), ingegnere, podestà di Como nel periodo fascista dal 1934 al 1943, e senatore della Repubblica italiana per il partito monarchico dal 1953 al 1958, collaborò spesso con lui nell’attività progettuale; Alberto fu ragioniere; e Silvio morì giovane nel 1926 in un incidente automobilistico.

Se il destino delle persone è anche nella loro nascita, perché non iniziare questa doppia recensione di due piccoli ma preziosi libri da poco pubblicati su due grandi protagonisti dell’architettura moderna italiana, citando il “Dizionario Biografico degli Italiani” Treccani? Dopotutto anche l’architettura – come ogni arte – può essere biografia, anzi autobiografia: e forse davvero i segni del destino personale in qualche modo fluiscono nell’opera che per un architetto che con essa si identifica alla fine è quello che conta, almeno quanto l’esistenza. Intanto, per un singolare contrappasso, l’architetto romano (Mosco) scrive di un architetto lombardo – e anche molto milanese, viste le sue strepitose realizzazioni in città: mentre l’architetto milanese (Vercelloni) scrive di un architetto romano, che ha lasciato però opere importanti da Roma fino a molto lontano dall’Italia, fino al famigerato Watergate di Washington. Un’antinomia tra i due poli geo-culturali italiani che sta certo nell’ammirazione dei due autori per il diverso, il paradossale e l’imprevisto, nell’attrazione che possono esercitare vite e opere complesse fino alla contraddizione estrema: come nel caso di due massimi esponenti del razionalismo, identificati e che si identificarono in pieno con un feroce regime dittatoriale, caso unico nella storia dell’architettura moderna.

 Luigi Moretti, Casa del Balilla (poi GIL) in via Induno (Trastevere), Roma 1932

Entrambi provenienti da una borghesia ricca e colta – con la singolarità della nascita di Moretti figlio naturale, ma di un importante architetto (Rolland, eclettico autore tra l’altro del monumentale complesso per uffici di Piazza Dante, da qualche tempo riconvertito a Sede Unitaria dell’Intelligence, i servizi segreti italiani) – già giovanissimi i due intuiscono la potenzialità straordinaria del regime mussoliniano: che con una voce sbraita contro (e perseguita) i sostenitori della modernità, con l’altra – grazie anche al grande tessitore Marcello Piacentini – incoraggia e supporta gli architetti modernisti, finché l’Italia non precipita per sua stessa colpa nella tragedia della guerra. 

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Così Terragni – tra genio architettonico, volontà nietzschiana di affermazione e posizione sociale – già a 24 anni nel 1928, Anno VI Era Fascista, con la beffa del Novocomum (edificio d’ispirazione seccamente modernista, quasi costruttivista ma presentato in Comune per la licenza edilizia con disegni delle facciate truccati in stile neoclassico) si afferma come scanzonato eroe del Modernismo, letteralmente capace di tutto: grazie al suo talento di architetto e di “politico” che riuscirà con la Casa del Fascio di Como a realizzare il simbolo più forte del Fascismo stesso (la “casa di vetro”), anche se un “Fascismo immaginario”, cioè che solo lui immagina, secondo l’astuta definizione con cui Bruno Zevi, nel rivalutarne per primo il lavoro dopo l’oblio di decenni  – in pieno ’68! – tenterà anche di liberarlo dalla maledizione di aver aderito con pienezza e totale convinzione al regime mussoliniano.

Così anche Moretti, sebbene più giovane di Terragni, già nel 1933 a soli 27 anni, è nominato direttore dell’Ufficio Tecnico dell’ONB (Opera Nazionale Balilla), poi GIL (Gioventù Italiana del Littorio) per cui costruisce una delle sue opere migliori, la sede GIL in via Induno a Roma, a pochi passi dal Ministero dell’Istruzione: edificio memorabile per la sua integrità modernista – che per buona sorte, dopo decenni di abbandono è rinato recentemente come centro culturale, spazio per esposizioni e cinematografo. Da lì i successi di Moretti, specialmente in territorio romano, si moltiplicano, fino all’exploit del Foro Italico, con la Casa Sperimentale del Balilla (sic) e la Palestra del Duce. Poi arrivano gli anni terribili della guerra, Moretti risulta irreperibile per un paio d’anni, viene arrestato quando rientra a Milano nel 1945, finisce in prigione per i suoi trascorsi fascisti ma proprio lì troverà il suo secondo futuro come architetto e professionista.

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Certo, il registro dei due racconti sui due architetti non potrebbe essere più diverso. Vercelloni fa dell’evoluzione di Moretti (per alcuni come Bruno Zevi, un’involuzione) una ricostruzione meticolosa e ammirata, cosciente che il dopoguerra per lui, con lo straordinario edificio in Corso Italia già nel 1949, sarà più che nell’anteguerra la vera rivelazione di un talento visionario (diciamo la verità, il razionalismo, anche il suo, è un po’ noiosetto, col suo repertorio formale limitato, i contrasti ridotti al minimo, l’ansia sempre incombente per l’equilibrio delle geometrie e dei volumi…). Trasformato, sicuramente liberato dalla fine del Fascismo, Moretti inventa architetture che misteriosamente riescono a conciliare estremo astrattismo – in anni più recenti si sarebbe detto minimalismo – e monumentalità, sfuggono alle qualificazioni stilistiche per rimanere monolitiche e misteriose, eppure estremamente funzionali: dal palazzo quasi decostruttivista ante litteram di Corso Italia per Cofimprese alle residenze/albergo di cui l’attuale Hotel Ibis è un esempio realizzato e che, col supporto di Accorinvest, ha dato l’occasione a Vercelloni per la pubblicazione del suo prezioso libretto.

Luigi Moretti, Casa delle Armi/Accademia della Scherma (già Casa sperimentale del Balilla), Foro Italico, Roma 1936 (stato attuale)

Ventidue dovevano essere le case albergo di Moretti, pensate e congegnate come una seria risposta al fenomeno dell’immigrazione, dei pendolari e dei lavoratori temporanei. Proprio ciò che oggi – ironia della sorte – non trova spazio nei programmi pure magniloquenti dell’amministrazione pubblica milanese soi disant “verde” e post-socialista, che invece in campo architettonico e urbanistico lascia tutto all’iniziativa privata, rinunciando completamente a farsi portavoce operativa delle necessità e istanze dei suoi cittadini, permanenti o temporanei. Il che non fa che rendere ancora più grande e importante l’opera di Moretti, che per essere stato già fascista fascistissimo, con le case albergo concepisce e realizza un progetto molto democratico, a scala urbana e territoriale.

Nel libro di Mosco, sulla bellezza apollinea dell’opera di Terragni aleggia invece un senso di morte, un’idea del disordine finale di Thanatos che dovrà inevitabilmente succedere alla perfezione estatica di Eros, e l’autore è bravo a far trapelare nel suo scritto questo senso di angoscia, di fine imminente: che è solo ritardata – di poco, troppo poco – dal tentativo di Terragni di salvarsi lasciando l’inferno del fronte Russo dove si reca volontario, per tornare indietro distrutto nell’animo e minato nel fisico.

Dello stato confusionale dell’eroe modernista Mosco traccia un sentito ritratto, con note commoventi, come quando scrive del cappotto militare che, tornato da follia e orrore della ritirata dalla Russia, Terragni continua a indossare:

Quel cappotto è per lui il simbolo del reduce che è stato costretto a tornare. La sua funzione (…) è quella di rappresentare in pubblico il non aver tradito, il non essere un traditore. (…) Quando, nel luglio del 1943, Terragni morirà per le scale nella casa della sua fidanzata, nonostante l’estate inoltrata, indossa immancabilmente il suo cappotto. Nelle tasche verranno trovati dei fiori essiccati colti nella steppa russa.”

Giuseppe Terragni reduce dalla Campagna di Russia, Como 1943(archivio Terragni)

Certo Mosco ripercorre in parte vicende note, non ha assi nella manica, non menziona il vago dubbio insinuato da Gardella parlando della fine di Terragni:“(…) Il contraccolpo allo scontro durissimo che ebbe con la realtà dopo la campagna di Russia lo portò a una crisi molto profonda e forse alla morte volontaria”.

“Forse” perché non esiste il referto medico che chiarisca la verità – una volta per tutte – sulla sua caduta per le scale, o sulla sequenza esatta dei fatti che precedono la morte. Non si sa e forse non si saprà mai cosa sia esattamente successo quel 18 luglio, se ancora oggi il ricordo più preciso rimane quello dell’amico artista Mario Radice, che per la Casa del Fascio di Como aveva realizzato rilievi ed affreschi in stretto dialogo con Terragni:

“… Era in casa da solo e stava preparandosi la colazione, si è sentito male, ha telefonato alla fidanzata per avvertirla ed è uscito per andare da lei, che abitava a trecento metri di distanza, lasciando tutte le luci aperte e il gas acceso sotto un pentolino e le porte spalancate. La fidanzata che lo aspettava dal balcone, lo ha visto arrivare, gli è andata subito incontro per le scale e ha visto che cadeva battendo la testa. Terragni è caduto sul pianerottolo del primo piano ed è rimasto lì morto…”


L’architetto partì per la campagna di Russia armato di una macchina fotografica. La vicenda, che finì tragicamente, è ricostruita dal libro ‘Giuseppe Terragni: la guerra, la fine’ di Valerio Paolo Mosco, edito da Forma.

Eppure, Mosco inserisce un elemento di “giallo” inquietante nella sua originale ricostruzione della vicenda dei terribili elettroshock (“sette o otto”, ricordava Radice) cui viene sottoposto Terragni credendo di guarirlo dalla depressione, e che invece probabilmente contribuirono al danno cerebrale che lo uccise e sicuramente afflissero psiche e anima sue già malate: assurda “terapia” cui è costretto sembra proprio su sollecitazioni e insistenza del collega Piero Lingeri, con cui avevano firmato più di un importante progetto, non senza contrasti tra i due, considerata la personalità fortissima e dominante di Terragni.

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“Alcune voci di famiglia insistono sul fatto che colui il quale avesse consigliato la cura con l’elettroshock non fosse il fratello maggiore, bensì Piero Lingeri il quale conoscendo gli ambienti altolocati milanesi probabilmente conosceva Cerletti (il medico e professore di Pavia inventore dell’elettroshock, ndr) e le sue cure.(…) Per Lingeri quindi, almeno sulla carta, Terragni era una presenza scomoda e la sua messa fuori gioco sarebbe risultata un sollievo per un professionista non dotato ma attaccatissimo alla sua carriera.”  Mosco dice e non dice, ma alla fine dice. Scrive anche di una certa “scomodità” di Terragni sia a Milano – con Figini e Pollini si erano create fortissime frizioni per motivi di concorrenza e divergenze culturali – che a Roma, “in cui non pochi temevano che uno dei suoi probabili incarichi (come il Danteum, ndr) potesse giungere in porto minacciando così quella rete spartitoria degli appalti che nel tempo si era stabilizzata.”

Ma infine – al netto delle rivalità e meschinità e sgambetti che certo non mancavano, non mancano e non mancheranno anche tra architetti, come in ogni arte e professione – la domanda che viene da farsi davanti a questo scenario romanzesco, riguarda proprio i capricci del destino, di quello che è stato e non si può (non più) modificare.

Che ne sarebbe stato di Giuseppe Terragni se non avesse compiuto la scelta suicida di partire per il fronte russo? Quali altre opere straordinarie avrebbe prodotto, che importanza e influenza avrebbe potuto avere sull’architettura italiana, che dal dopo guerra in poi – con poche eccezioni, tra cui quella di Moretti – non ha esattamente brillato per invenzione e innovazione? E al contrario: se lo stesso Moretti non fosse stato recluso nel 1945 nel carcere di San Vittore per collaborazionismo (aveva aderito alla Repubblica di Salò, secondo l’architetto Giulio Ricci, figlio di Renato Ricci, squadrista della prima ora, presidente della GIL e fedelissimo del Duce, ma anche dei Nazisti) e non avesse conosciuto lì il conte Adolfo Fossataro – con cui sarebbe entrato in società nella Cofimprese e realizzato con essa i suoi più importanti edifici milanesi – quali possibilità avrebbe trovato per esprimere il suo talento e la sua spregiudicatezza rispetto alle noiose regole moderniste?

Domande senza risposta, come volersi chiedere se il Fascismo per gli architetti italiani sia stato più un male o un bene. E a proposito, chiusi i due libretti – di cui si vorrebbe continuare a leggere di più, ma le pagine sono finite – sullo sfondo delle figure ed esistenze dei due maestri se ne se staglia un’altra, pure tragica, quella di Giuseppe Pagano Pogatschnig: architetto propagandista costruttore prima camerata e poi partigiano, autore della prima Università Bocconi e direttore della rivista Casabella, tra i pochi che ebbe in tempo il coraggio di riconoscere l’errore di aver creduto il Fascismo – e soprattutto i fascisti – forze rivoluzionarie. Entra nella Resistenza per poi pagare (espiare?) tragicamente i suoi errori, prima con le torture alla Villa Triste – qui a Milano, a un centinaio di metri da dove scrivo – e poi con la morte per stenti, gelo e percosse dei guardiani nel lager della miniera di Melk, presso Mauthausen. Fine preannunciata nella lettera di addio a Giancarlo Palanti, architetto amico e caporedattore della sua Casabella, perché alla sua morte aiuti la moglie Paola Perego:

Occupati affinché Paola abbia qualche aiuto per questa esistenza. Ho dato la vita per il Partito e ne sono fierissimo. Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A voi continuare bene e meglio. Addio. Bepi

Eroe solitario e spesso dimenticato, Pagano meriterebbe almeno un nuovo libro che ne racconti ancora la vicenda umana nella drammaticità del conflitto tra ideologia e realtà dei fatti. Chissà che dalla curiosità, competenza e vena investigativa di Vercelloni e Mosco non arrivi un giorno la sorpresa di un testo che lo racconti in modo alternativo, come hanno saputo già fare ricordando talento e destini di Moretti e Terragni.


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