Appunti per una metodologia
In principio è stato il grande intervento all’Expo2015 (2013/2015, Maurizio de Caro Architects & Planners, a altri), perché in relazione ad un progetto di 20 edifici di funzioni diverse (i servizi, gli standard di una città, per capirci), abbiamo obbligato l’operatore ad abbandonare il calcestruzzo pre-compresso e ad usare, abete, semplice abete italiano, per 60.000mq di superfici.
Dopo cinque anni, dalla chiusura della grande Kermesse, le strutture sono perfette e utilizzabili all’interno del recinto post, intatte, un vero manifesto ad una nuova capacità di costruire usando materiali naturali, e applicando poche regole affinché l’architettura torni alla natura che comunque oltre ad ospitarla la genera, la ispira, e troppo spesso ha ricevuto una scarsa riconoscenza ideale, concettuale e soprattutto culturale.
La green mind attitude, vuole essere il conseguimento di una nuova specificità nell’affrontare un disegno, e cioè individuare il luogo, come Luogo che vivrà nella sovrapposizione delle sue strutture, quelle naturali e quelle artificiali, senza per questo dover divenire sovra-struttura o super-struttura.
L’architettura o sarà ambientale o non sarà, o produrrà economia sostenibile o scomparirà, ma partendo da principi originali, e non introducendo approssimazioni stilistiche, linguistiche o ancora peggio archeo-teoriche.
Non si tratta dunque di una specializzazione ma di un nuovo umanesimo non nostalgico, sereno ma non spento, con un carattere, forte, evidente ma mai minaccioso, mai ingombrante o addirittura estranea ai contesti, come certa architettura della fine del secolo scorso.
LEGGI ANCHE – Il legno in architettura: ponte tra oriente e occidente
Ora è tempo di nuove acquisizioni assiomatiche, di archetipi condivisi, di meraviglie essenziali, che per altro riprendono il cammino interrotto di quello che ha reso grande l’architettura di ogni tempo, rinunciando ad una “artificialità estremizzata” che aveva come compito quello di duplicare il mondo esistente, escludendolo, facendone intravedere una profonda inadeguatezza.
ASCOLTA IL PODCAST
Non è il caso di elencare centinaia di neo-luoghi che sono diventati no-luoghi, l’elenco è lungo e gli artefici sono ancora viventi, è stata una fase come il pop degli anni ’90, o il cine-panettone, che rappresentano una cartina di tornasole di un periodo piuttosto lungo della storia della società confusa, ma che difficilmente influenzerà i periodi successivi.
La natura ha saputo attendere, l’organicità ha saputo sopportare il lungo ostracismo.
“La Forma” si è ripresa la centralità nelle prassi progettuali, e diventa volume, spazio pensato, ricerca, dialettica contestuale, zeitgeist, almeno nella parte più alta del “pensiero progettante”.
Da “fuck the context” a “care the context”.
Verde, Green è tutto quello che ci appare come la cura concreta contro uno sviluppo febbrile, controverso e non sempre sensibile ai desideri, alle necessità primarie dell’ uomo, e il pensiero corre a Joseph Beuys e non un caso che il più grande artista europeo del secondo dopo-guerra, sia stato il fondatore e l’ispiratore dei Grunen.
Il lavoro che stiamo portando avanti per l’anno Beuysiano, nel centenario della nascita(1921-2021), comprende una serie di manifestazioni che vogliono coniugare la “naturalità del gesto artistico”, nel dialogo con l’architettura e il design dei materiali, anche auto-prodotti.
Sono in fase di realizzazione progetti di architettura museale, piazze urbane, saggi e mostre di cui parleremo in Arena e in anteprima, questo autunno, è il primo passo per la creazione della green mind attitude, un manifesto aperto, un workshop permanente inter-disciplinare.
La pandemia ha comunque accelerato alcuni processi di revisione delle prassi progettuali, ci ha spinto a rivedere l’ontologia stessa dell’architettura, la complessità necessaria rifugge da ogni complicazione estetizzante, narcisistica ed auto-referenziale, ha bisogno di un cuore capace di produrre emozioni, dopo tanto sgomento formalistico.
E’ tempo per una nuova produzione umanistica, letteraria, antropocentrica, quasi frugale nella sua chiarezza di obiettivi, a partire dalla eliminazione di ogni tautologia (ambientale, compatibile, sostenibile) di aggettivazioni che sono già materiale teorico circoscritto nella parola che tutte le contiene: Architettura.
L’aggiunta posticcia di un condizionamento linguistico, paradossalmente impoverisce il messaggio teorico, come se l’ambito della progettazione non fosse in grado di esprimere in sé un percorso compiuto, ecco perché abbiamo parlato di attitudine e non di prassi fisica, di azione, se la matrice originaria, archetipa nasce “verde”, non ha bisogno di essere raccontata.
Questo vale per le case, per i musei ma anche per la nuova “geografia degli oggetti” che dovranno nascere anche dagli scarti di produzione, dal recupero di plastiche esauste, da conglomerati materici oggi quasi sconosciuti, e non solo per una sequenza evidente di risparmi, ma per rendere esplicita una nuova condizione dello spirito che crede, deve credere, ad ogni forma di salvaguardia del pianeta e delle sue risorse.
Il progettista dovrà seguire questo insegnamento contemporaneo che contiene dentro di se la cultura arcaica contadina, dove ogni azione ha un senso evidente, ed ogni attività una funzione capace di aiutare l’Uomo e la Natura che l’ha generato.
Questo percorso tende a restringere il gesto artistico muscolare, l’azione spettacolare che pretende di ridisegnare il mondo, che vorrebbe dare al corso della storia un senso diverso, e in questo scardinare certezze secolari, l’architetto-stella ha prodotto un’imitazione della natura, fatta di tante città personali composte dalle proprie architetture, con la volontà di poterle confrontare col “piano naturale pre-esistente” che faceva sempre più fatica ad accoglierle.
Chi vincerà, alla fine, in questa battaglia tra sviluppi antitetici è chiaro.
La Natura, vincerà anche questa volta, ha superato ere glaciali e microplastiche, riscaldamento globale e produzione di CO2, anche perché i suoi tempi non sono quelli umani, e noi spesso ce ne siamo dimenticati.
Cosa può dunque fare l’architettura se non imparare, prendere spunto, agevolare queste soluzioni che esistono già, ma che inevitabilmente, e per l’immensa presunzione, l’Uomo Deificato ha voluto sfidare?
Abbiamo visto che i pianificatori della disattenzione ambientale sono corsi ai ripari e ci insegnano le soluzioni che conoscevamo già, come spesso accade, ma a questo punto, aver invertito la tendenza, e per sempre, ci pare un grande successo.
Una un’opportunità epocale da cogliere chi è in grado di coglierla, famosi o sconosciuti, vecchi o nuovi ma ci consegnino qualche progetto su cui poter sviluppare un discorso nuovo, un commento serio, perché anche il nostro povero cuore ha bisogno di manutenzione. Costante.
Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato: