Green Table, il forum internazionale e permanente su architettura e design per il futuro, non lascia spazio inerte a certezze epistemiche, universali ed inamovibili.
A poche ore dall’ultimo saluto sul palco della maestosa cornice architettonica di San Francesco al Prato, mi concedo il privilegio di guardare indietro senza il timore d’incontrare lo sguardo pietrificante di Medusa. Il lascito posato con grazia sul tavolo verde – disegnato da Michele De Lucchi – è un’analisi lucida e ragionata che erge il dubbio a strumento di studio, ricerca e approfondimento sfuggendo ad ogni tentazione di trionfalismo.
L’obiettivo del forum non è certo quello di confezionare soluzioni uniche a problemi complessi, quanto piuttosto nutrire il pensiero, per quanto “debole”, così definito da Andrea Margaritelli, Presidente dell’Istituto Nazionale di Architettura (e io ne ho colto un rimando a Gianni Vattimo).
Inteso nella direzione di un pensiero capace di articolarsi, e dunque di ragionare nella “mezza luce”. Il pensiero debole è una metafora e un paradosso, provvisorio e anche contraddittorio, che indica un senso di percorrenza. Un pensiero che invita a sperimentare ed un tentativo di tracciare analisi e di muoversi sul campo. Come non citare Hegel per il quale pensare significa “innalzarsi all’altezza dei tempi”.
Green Table valorizza un’idea complessa di comunità, struttura a più dimensioni, policentrica – coagulata nella piattaforma digitale WYTH- con diversi giunti autonomi benché interconnessi dotati di rapporti causali (non casuali) e non lineari, piuttosto rizomatici. Il modello di orizzontalità rizomatica di Deleuze e Guattari è giocata simbolicamente contro l’immagine filosofica di una conoscenza “verticale” (l’albero della conoscenza, dalla Bibbia a Descartes).
Un pensiero in movimento, animato da molteplici intelligenze naturali – ce lo ha ricordato Stefano Mancuso, scienziato e neurobiologo vegetale, gli uomini sono accomunati ad altre specie animali proprio dal movimento, dallo slancio che permette loro di fuggire dai pericoli. Al contrario di piante e alberi che, per loro struttura, sono fissi ed immobili – almeno apparentemente – mentre i loro semi volano e migrano anche molto lontano. Dal mondo vegetale Green Table mutua un tipo di intelligenza diffusa, distribuita e capace di far rete intrecciando le radici dei molti partecipanti. Una struttura rizomatica espansiva e responsiva tesa ad abbracciare ed includere poli di creatività sparsi sulla superficie dell’intero pianeta.
Sul palco sale, in un glorioso sabato di ottobre, l’architetto “umanista” Ico Migliore, una rivelazione. Ci parla di sostenibilità della cultura, attinge ad una frase del compositore Gustav Mahler invitando a “conservare il fuoco, non adorare le ceneri” e di conseguenza a trattare gli estinti come fossero viventi (si percepisce la presenza del loro maestro Achille Castiglioni tra di noi), Ico sottolinea l’importanza del giunto nella fase di concepimento di un oggetto, lo insegna ai suoi studenti, elemento di congiunzione fondamentale rispetto a forma e colore. (Stefano Casciani animatore del tavolo cita Enzo Mari secondo cui il progetto si sviluppa attorno alla definizione del giunto).
LEGGI ANCHE – Enzo Mari: ogni oggetto è un manifesto _ 1
Fili sottili di memoria che unisco il presente al passato, sempre attuale. Sì, Green Table sta tentando una grande operazione di giunzione e rilegatura tra una pluralità di forze di pensiero e azione. L’anima bionda e aristocratica di Mara Servetto apre ad un orizzonte di Musei fronte strada – trasparenti e penetrabili dallo sguardo del passeggero che viaggia in tram – non più torri d’avorio avviluppate in sé stesse: ne è esempio l’Adi Design Museum con le sue grandi vetrate sulla città. Ma anche bookshops in piazza e biglietti museali che permettano di tornare a visitare le mostre più di una volta, perché no? Accompagnati da nuovi amici. Mai più musei muti e polverosi, spiega Ico, bensì luoghi d’ incontro e di bellezza partecipata dal basso, transgenerazionali.
E già, bisogna rivolgerci ad un pubblico multigenerazionale ed eterogeneo, il raffinato intervento di Alfonso Femia fa il punto. Ci ricorda che siamo nati analogici – molti di noi – e moriremo digitali. Non è necessariamente un bene ma in fondo neanche un male. Siamo tenuti a leggere i nuovi rapporti che legano umanità, natura e tecnica alla luce di un attore centrale di dimensione cosmogonica, che sta modificando irreversibilmente i rapporti tra viventi e macchine, sempre più sofisticate e per questo dipendenti dall’umano. E’ bene prenderne consapevolezza ed assumersene la piena responsabilità. Non siamo schiavi della tecnica – visione in contraddizione a quanto Heidegger nei primi decenni del novecento sbandierava come causa di spaesamento e oblio dell’essere. Né tantomeno siamo padroni della Natura, il pianeta può benissimo salvarsi da solo e perdurare in assenza della periferica presenza dei sapiens.
LEGGI ANCHE – Botanica, uno spettacolo di scienza in musica con Stefano Mancuso
Ce lo assicura un uomo di scienza come Stefano Mancuso e gli fa eco il filosofo Maurizio Ferraris. Il professore ci ricorda, con un filo di ontologica brutalità, che è la morte l’unico orizzonte certo per l’uomo; ciò che possiamo tentare d’intraprendere è un’esistenza vissuta all’insegna dell’autenticità e, per quanto possibile, di agire secondo competenza. Ma le competenze (per quanto tecniche e squisitamente tecnologiche) cosa rappresentano se non si muovono sul terreno della conoscenza? L’architetto deve tornare ad essere un “umanista”, che sa di arte, psicologia, sociologia, antropologia e perché no artigianato. “L’architecte doit être un homme un peu cultivé” cita magistralmente Maurizio De caro strizzando l’occhio a Jean Vigo.
Cosa succede se la tecnologia corre veloce, troppo veloce, sui binari della fibra ottica mentre i nostri apparati burocratici imbrigliano i progettisti all’interno di una griglia normativa che, quando va bene, risale al dopoguerra – o giù di lì – e risulta comprensibilmente inadeguata a rispondere alle esigenze di un mondo in divenire, alla ricerca di nuovi nomi e forme al nostro essere al mondo.
LEGGI ANCHE – Perché l’architettura ha ancora bisogno della musica, oggi
Sul paradosso di Achille e la tartaruga del vecchio Zenone, s’interroga anche Patricia Viel (Studio Citterio-Viel) – architettrice di respiro mondiale – che chiede a gran voce, unendosi ad un grido corale – un nuovo innesto alla radice della pubblica amministrazione: nuovi strumenti di lavoro, basta dighe di sbarramento e percorsi ad ostacoli multipli.
Uno sguardo panottico è ciò che controlla finendo per renderci ciechi. Il tema della sostenibilità ambientale non può e non deve sottrarsi al dialogo con quella economica e sociale; da profit a benefit entra nel circolo venoso di Marco Morganti alla Direzione Impact Intesa Sanpaolo. Il tavolo affronta questioni cogenti di accesso al credito con senso di responsabilità estraneo al tradizionale comparto bancario. Servirà un cambio pelle per ricomporre un rapporto assiologico tra economia ed etica d’impresa.
Sofisticate e perfettissime tecnologie digitali, insondabili sistemi di algoritmi e SPEEDBIM pronti a sostituirsi all’imperfezione umana non estinguono il desiderio, l’anelito verso un’autentica sapienza artigianale – sempre a rischio estinzione – incarnata nella visione del progetto Earth Stations Many Hands concepito da Michele De Lucchi e Amdl Circle, apeiron di un’architettura immaginifica e futuribile (non utopica) che si plasma a specifiche condizioni climatiche del nostro pianeta.
Sei monumenti all’umanità, creazioni ipoteticamente realizzabili grazie alle sapienti mani di molte persone. Una nuova semantica dell’artigianato come valore che unisce culture, ne favorisce l’interscambio e diventa così mezzo d’inclusione sociale. Perché la sostenibilità sociale viene prima di quella ambientale e – provoca l’architetto De Lucchi ambasciatore del design italiano in Messico – i muri dividono ma possono essere costruiti anche per unire.
LEGGI ANCHE – Architettura futurista: le visionarie sculture Earth Stations di Michele De Lucchi
Il metodo di lavoro inclusivo, processo partecipativo di co-creazione dal basso, inscritto nel codice genetico di molti paesi del nord-Europa, non ultima l’Olanda, prevede l’apertura alla cittadinanza invitandola a sperimentare oggetti e servizi orientati dall’ux design in field lab di comunità. Un modello ancora troppo lontano dalla visione apicale che ci caratterizza? Forse è ora di alzare lo sguardo a nuovi orizzonti di possibilità e ribaltare alcuni paradigmi concettuali. L’esplorazione non riguarda solo lo spazio – la terra è solo il terzo pianeta del sistema solare – siamo già immersi in una sfida epocale, trascendente tanto che il nostro sistema nervoso non riesce a comprenderlo. Ce lo spiega il filosofo più acclamato della sua generazione, mi torna così in mente il libro Iperoggetti, Timothy Morton:
“L’iperoggetto per eccellenza è proprio il riscaldamento globale, la cui caratteristica principale è quella di esistere su dimensioni spazio-temporali troppo grandi perché possa essere visto o percepito in maniera diretta”. Anche il Professor Mancuso afferma che è questo il tema centrale, una sorta di Atlantico titano dai contorni indefiniti che sfugge alla presa.
Il mio tentativo di restituzione è sicuramente lacunoso, defettibile ed asimmetrico; segue i contorni dei segni impressi nella carne viva da pensiero e parole di un piccolo esercito di donne e uomini che hanno marciato in questi quattro giorni di Forum.
Dicevamo che gli alberi sono giganti immobili, a volte fragili, coi piedi di argilla come la maestosa quercia delle Checche a Pienza (attore impassibile del docufilm Alberi), si fa forte della sua amputazione– testimoni viventi di resilienza e, a questo proposito, l’architetto Cino Zucchi ci ha insegnato che alcune parole ripetute all’infinito – tipo mantra – finiscono per diventare gusci vuoti. Apprendo, così, che “resilienza”, ben al di là dall’essere un astratto termine vagamente di moda, è una proprietà meccanica che viene misurata in laboratorio tramite la “prova di Charpy”, un pendolo attraverso il quale si determina l’energia necessaria a rompere un provino mediante un urto.
Gli alberi sopravvivono grazie alla rete di solidarietà sotterranea e di “mutuo soccorso” che sanno costruire, da sempre, per questo sono un un modello virtuoso. Ci vogliono più foreste al centro delle città e corridoi verdi che uniscano entità urbane e campagna come ha dichiarato Alessandra Stefani – direttore generale del Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali – città da progettare ispirandosi ai boschi nella loro bidimensionalità verticale e orizzontale. Ci auguriamo, dunque, che i loro semi possano fertilizzare anche il più volte citato PNRR (acronimo impronunciabile) per generare nuova vita e nuovi luoghi. Sarà questo l’humus del prossimo Green Table “Generating the life of a place” curato da Aldo Cibic.
Vi invitiamo ad unirvi a noi forum.greentable.it
Fonti:
Documanità di Maurizio Ferraris
Il pensiero debole di G. Vattimo e P.A Rovatti
Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato: