“La fonte dalla quale emana il mondo è una fonte acustica”*
L’architettura, come la musica, è nata per vincere la paura.
L’uomo primordiale, soddisfatte le sue necessità fondamentali (coprirsi con un tetto, riscaldarsi, mangiare), decorò e modificò la sua caverna perché nella bellezza sperava di trovare un antidoto alle sue fobie, persistenti nonostante quella prima soglia di benessere.
La mano che percuote con una bacchetta di legno, nel buio del Tempo, crea quel battito più o meno armonico che diventerà in qualche decina di migliaia di anni, musica, ed è la stessa che modificherà lo spazio naturale, dando al luogo quella trasformazione artificiale che farà scaturire l’idea primordiale di architettura.
Dalla necessità di ripararsi e allontanare la paura, all’estetica primordiale dell’Arte, nella sua più folgorante inutilità funzionale.
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Molto prima di templi e tombe monumentali e anche della semplice capanna di rami secchi, forse quella misteriosa casa di Adamo in Paradiso.
Dobbiamo suonare, dobbiamo produrre suoni, anche solo quelli che la grafite ci restituisce mentre traccia il segno sul foglio, ed è un principio che associa tutte le attività umane, perché il silenzio è l’unica esperienza umana che è impossibile vivere (in assenza di suono, in una camera anecoica, si può percepire l’attività dei campi magnetici che produciamo e lo scorrere del sangue, siamo vivi dunque perchè produttori di suoni).
Rumore della città, fascino del caos urbano che “rende liberi”, ma ci incatena alla violenza della velocità, dell’ansia e di una progressiva schiavitù estetica, ma terreno delle dialettiche e luogo della più imponente manifestazione sonora della storia, la Città è la più imponente ed eccitante s-composizione musicale della storia moderna.
Perfino la dialettica umana, corporea o chimica è la manifestazione classificabile di una precisa frequenza, e potremmo addirittura registrarla nel momento in cui moriamo, ci innamoriamo, oppure semplicemente ci facciamo prendere dalla malinconia, il suono cambia e noi “suoniamo in maniera diversa”.
Possiamo imparare ad ascoltare ogni manifestazione o variazione del suono, meccanico, sintetico, elettronico o sconosciuto come quello dei pianeti che non vogliono svelarci quello che si stanno raccontando da milioni di anni.
Lo scopo è capire e rubare l’architettura del suono, quella regale dell’ ”Adagio molto cantabile” dalla Nona di Beethoven, o felice delle campane tubolari della “Messe pour le temps presents” di Henry, o cupa dei cluster sonori (meglio dire grappoli di note) di “Lontano”di Ligeti, dietro ciascuno di questi brani, c’è un disegno mentale che dobbiamo imparare a riconoscere.
L’architettura produce il suono del suo spazio peculiare, difficile da ascoltare, difficile da trattenere, perché traccia fisicamente la frequenza delle sue proporzioni, dei suoi tracciati, dei suoi volumi, che cambiano continuamente nel ricordo che conserviamo, anche quando siamo noi ad averle prodotte.
La magia di questa manifestazione umana, primordiale e condivisa, contemporanea e lontana, nel mistero metafisico e nella semplicità del gesto quotidiano è: l’Arte, come già espresso da Nietzsche nella prefazione a Wagner della Nascita della Tragedia, l’arte e non la morale è l’autentica attività metafisica dell’uomo, e il suono è il recinto fisico dove tutto questo si può esprimere.
Possiamo dare un senso a questo “compagno di strada esistenziale” che ci avvolge sia come presenza rassicurante o come incubo ma pur sempre estensione delle nostre pulsioni emotive, senza sosta, in un assedio dolcissimo e terrificante al contempo, come nutrimento perpetuo.
Il suono ci osserva senza chiederci nulla, e attende che qualche intelletto illuminato ne sveli profondità e mistero, per condividerlo col mondo oppure semplicemente per nasconderlo tra le pieghe più profonde dei nostri desideri.
Io suono perché sono vivo, e se sono vivo è “perché suono”.
“La radice, la potenza e la forma di tutte le cose esistenti sono costituite dalla loro voce o dal nome che portano, perché tutti gli esseri umani non esistono se non in virtù del solo fatto di poter esser chiamati per nome”*
*Marius Schneider, La musica primitiva, 1960, Editions Gallimard, Paris
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