Dialoghi da remoto tra Maurizio de Caro e Alfonso Femia, Vincenzo Latina, Renato Rizzi,  Dante O. Benini, Gerardo Sannella e Federico Delrosso e

Ho chiesto ad alcuni amici, oltre che importanti professionisti, di raccontarmi la cura, le cure che stanno adottando in questo momento di sospensione forzata dalle attività reali.

Senza dare alla virtualità un ruolo che mai potrà avere, ciascuno di loro ha espresso le emozioni che il silenzio irreale dei luoghi ci spinge a rivivere, nell’assenza di sovrastrutture.

Persone, molto diverse tra loro per età, formazione, pensiero, confessano la loro quotidianità modificata, senza la rete della revisione culturale, e di fatto esprimono una condizione comune dell’uomo: la ricerca dell’ignoto e la necessaria persistenza dell’insoddisfazione culturale.

L’architettura, è il loro mestiere, portatrice di ansie, dolori e indicibili felicità, rimpianti e speranze, insomma tutto ritorna al cuore, che nonostante il rumore di fondo precedente, continuava a pulsare ed ora, e ancora per poco sentiamo meglio.

Campi magnetici liberi di creare energia e di assorbirne, raccontano una giornata, o una vita, un minuto o l’eternità del loro essere “costruttori di mondi”, e noi ci auguriamo che possano essere i migliori mondi possibili.

La trappola digitale che li costringe a lavorare da remoto, o dall’ignoto non li ha vinti, anzi è come se avessero ritrovato il sentiero che conduce fuori dalla foresta, e si capisce che hanno voglia di parlare, di parlare, di parlare.

E noi abbiamo voglia di ascoltare quelle parole che hanno un sapore nuovo, vero, un suono cristallino che parte dalle viscere dei loro contrastati e luminosi percorsi professionali e intellettuali e finalmente si esprime in libertà

In questo processo generalizzato di “auto-analisi”, ogni considerazione diventa un punto di partenza, di rinascita, un programma condiviso per un futuro ignoto, ma vivibile, e commuove la densità etica dei pensieri sparsi e incontrollati.

 Nuove voglie: di studiare, di fare, di rischiare, di condividere, come se avessero intuito la Trasformazione del Mondo, in corso, e non possono sottrarsi dal partecipare al Progetto dei Progetti, uomini prima che architetti.

Forse questa tragedia ha insegnato a guardare meglio verso l’esterno ma soprattutto verso le parti nascoste di ciascuno di noi, e chi ha la responsabilità grande di creare lo scenario della città del futuro, giovane o vecchio che sia, deve farlo senza alcuna forma solitaria di presunzione, sia essa formale, culturale o di altra natura.

Questi bravissimi architetti, Alfonso, Vincenzo, Dante e Renato e gli altri, fanno luce su alcuni “possibili futuri”, e tracciano percorsi che non possiamo non condividere, dalla ricerca culturale, al dimensione sociale della progettazione, dall’impegno funzionale, allo studio dei materiali naturali e “compatibili”.

Forse sta nascendo una nuova professione dalle antiche professionalità, e non è difficile immaginare che le menti illuminate abbiano sentito il richiamo di un passaggio epocale verso un’architettura centrata sul benessere dell’uomo e non avvitata su se stessa, prigioniera dello “specchio delle brame”

Un servizio sociale come un altro, ma imprescindibile per chiunque voglia curarsi le ferite che la contemporaneità liquida ha prodotto sui nostri corpi e nel profondo delle nostre coscienze.

Incanto e incantesimo (Renato Rizzi)

Renato Rizzi
Renato Rizzi

Sono ritornato pochi giorni fa da Venezia. Come ormai da anni, lungo la Valsugana. Poco meno di 2 ore per tornare a Trento.

Normalmente impieghi più di 3-3 e mezza.

La strada, invece, sembrava un tappeto che si srotolava magicamente davanti al muso della macchina.

“Sembrava” di essere in film muto mentre invece  era il mondo “vero” che ti inghiottiva. Se non fossimo nella tragedia nella quale siamo, sarebbe stata una favola.

Da oltre un mese però lo sappiamo. Siamo finiti tutti dalla cella del nostro cellulare (il cellulare è anche il furgone della polizia che ti porta in cella!!) alla cella delle nostre case. Ma tanti, purtroppo, sono finiti in un feretro.

Dal quale deriva quello che noi, architetti (e non solo) moderni e contemporanei, lascieremo in eredità: le periferie.

(Periferia deriva dalla parola greca, peripherein, portare in giro senza scopo.

Feretro, appunto, da phero porto per l’ultima volta).

Se poi esci…per la boccata d’aria….il tuo spazio massimo è quello delle tue braccia allargate! In segno di resa? Quale cultura nella storia dell’umanità ha mai costruito la prigione perfetta dalla quale non potrai mai fuggire (il mondo!!) facendoti credere invece che tu se colui che domina il mondo?

Questo storiella solo per due rapide considerazioni: sullo spazio e sul tempo.

Prima che succedesse il patatrac, non eravamo mai a casa, sempre in movimento. In una instancabile frenesia fisica e in una inarrestabile fibrillazione mentale. Mentre lo spazio attorno a noi si ingorgava sempre sempre di più, rimpicciolendosi. Frustrati e snervati sembrava che noi avessimo ingoiato lo spazio e il tempo. Era vero o è forse ancora un miraggio?

Domanda: siamo consapevoli che viviamo in un incantesimo culturale? Nella hybris della cultura tecnica-socio-scientifica del nostro tempo. Credevamo che lo spazio fosse infinito e illimitato, e che il tempo fosse una variabile dipendente della nostra volontà. Abbiamo voluto globalizzare il mondo? 

Certo, e il virus è globale! Volevamo adesso fosse solo locale? La follia era credere (da autentici  ingenui) che il virtuale (digitale) avesse sostituito il “reale”.

 È che il virtuale non puó esistere esterno al reale. È fatto di reale. Diamine! Quanti virus dei nostri computers pensavamo di neutralizzare acquistando delle semplici app: virus free, anti-virus!

Certi che noi umani (una minima parte comunque, e privilegiata tra l’altro) potessimo dominare questi fastidiosi virus. Invece è bastato che solo uno di loro decidesse di fuggire da un computer…..stufo di rimanere “recluso” in quel mondo ascetico e virtuale per tuffarsi in quello vivo e reale dell’umano (diventato nel frattempo, dis-umano). Dal quale peraltro deriva.

E così siamo noi adesso i veri “reclusi” in un minimo di spazio vitale, con i movimenti limitati a pochi passi solo per sopravvivere.

Stavamo danzando incantati dalla nostra stessa hybris sul bordo dell’apocalisse. E lei si è rilevata tale, dispiegandosi nel suo vero stato di tragedia. Perchè è una tragedia umana. L’impossibile che pretendiamo non può altro che manifestarsi in questo modo.

Ora giustamente siamo tutti allertati e allarmati dalla situazione sanitaria. Ma il pericolo maggiore, non sarà nemmeno quello poi della ripresa economica. Piuttosto sarà quello tragicamente “culturale”. Lì il cambiamento sarà traumatico, difficilissimo.

Da parte nostra (architetti), dovremmo ricominciare a riflettere non poco sul senso della nostra parola principe: architettura. 

Le sue due radici, arché e téchne, le possiamo sintetizzare in altri due termini: l’indominabile e il dominabile. Il progetto, l’opera, noi stessi, siamo nel mezzo di due termini contrapposti.

Dobbiamo essere consapevoli che la nostra cultura (come tutte le grandi culture) si avvale di questi due aspetti. Mentre il nostro tempo è totalmente fagocitato dall’ambito dei dominabili (le tecniche). Pura hybris, tracotanza.

È la forma dell’informe la prepotenza culturale del nostro. E l’informe della forma non è altro che il virus. Attenzione però: vir-vis-virus-virtus. Il virus sta tra la forza del uomo e la sua virtù. Se noi perdiamo questa polarità siamo persi.

Come siamo persi ora. Ma questa perdita non si risolve solo con la scienza (medica). Soprattutto richiede un cambiamento culturale verso quel grande sapere che sa tenere insieme l’indominabilità del mondo e la dominabilità delle necessità.

Tutto questo è da sempre presente nella nostra parola sacra: architettura.

Dobbiamo però uscire dall’incantesimo della téchne, e riaprirci all’incanto dell’arché.

 Del mondo.

Dovremmo superare il paradosso che il limite è molto più potente del’il-limite. Poichè il “limite” è una potenza più qualcosa d’altro: la grazia.

1.) Continua

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