Labics. Structures. Park Books publishers
LABICS INTERVISTA
Maria Claudia Clemente
Francesco Isidori
Stefano Casciani
(L’intervista è stata rieditata per la pubblicazione su One; per gentile concessione degli autori e dell’editore Park Books)
Stefano Perché il vostro studio si chiama Labics?
Francesco. È un acronimo di Lab e I C S*. Ci piaceva perché il nome non rimandava direttamente ai tre soci fondatori, ma ad una idea di ricerca, un laboratorio composto da diverse persone dove non è importante il singolo, ma la condivisione di un progetto comune.
Claudia Questo implica che nei confronti dello studio abbiamo un rapporto di distacco, come se fosse un’entità con una sua identità altra, un’alterità: il che lo rende più stimolante come condizione di lavoro, ci fa sentire in qualche modo più responsabili nei confronti di una direzione di ricerca, a costruirla, a darle una propria identità, come se essa esistesse fuori da noi.
Stefano In Italia si costruisce poco il contemporaneo, perlomeno non come e quanto vorrebbero i progettisti. Cosa comporta allora per voi – dal punto di vista intellettuale, esistenziale- voler essere architetti che costruiscono realmente?
Claudia Diciamo intanto che facciamo parte di una generazione cresciuta nel clima dell’Architettura Disegnata, in pieno postmodern, o meglio, più precisamente nella fase in cui il postmodern stava già declinando: così anche per reazione a questo clima è stato forte per noi il desiderio di progettare e fare veramente architettura costruita. Certi disegni erano molto belli, spesso bellissimi: ma quando venivano costruiti – tranne alcuni casi, penso ad esempio al cimitero di Modena di Aldo Rossi – si presentava sempre una scissione tra pensiero, progetto e costruzione. Questa dicotomia negli anni Ottanta è diventata chiarissima.
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Era come se i disegni non fossero stati pensati per essere costruiti, ma fossero una produzione del tutto autonoma. A noi questa scissione sembrava sbagliata, sembrava sbagliata l’idea che il progetto fosse pensato per rimanere sulla carta. Avevamo una idea dell’architettura come una possibilità per cambiare e migliorare la vita delle persone; è questo quello che ci ha spinto a voler costruire, l’idea che stessimo costruendo spazi per gli altri. Quindi, dal giorno in cui abbiamo aperto lo studio, è stato vitale, per sostenere il nostro sforzo, cercare di risolvere questa contraddizione ideale: e mettere in pratica sul cantiere, tutte le volte che è possibile, le visioni che abbiamo avuto.
** Isidori, Clemente, Sardella, i fondatori iniziali di Labics
Francesco Due precisazioni. La prima è politica, e cioè: l’architettura non può pretendere di cambiare radicalmente la vita delle persone; la può migliorare, migliorando decisamente il contesto in cui le persone vivono, ma sicuramente non deve pretendere di cambiarla. Per tutto il Novecento il Modernismo ha pensato all’architetto come una figura che proponeva modelli sociali radicalmente alternativi. Non credo sia giusto che l’architettura debba spingersi fino a questo punto. Deve aprire delle possibilità, certo, ma non configurare degli scenari dell’abitare già chiusi e definiti. Seconda precisazione: nel mestiere dell’architetto la costruzione è un fatto imprescindibile. Quando Leon Battista Alberti scrive il suo Trattato, non lo scrive solo per enunciare come deve essere progettata l’architettura ma per spiegare anche come deve essere costruita. Credo quindi ci sia una verità nel progettare per costruire che è connaturata all’architettura. L’architettura è un mestiere, non è solo un’attività intellettuale ma anche tecnica.
(…)
Stefano. Cos’è invece che secondo voi non ha funzionato nell’architettura italiana degli ultimi anni, in cosa pensate di distinguervi e cosa pensate sia la cosa giusta da fare per uscire da questa sua impasse?
Francesco. Mi sembra che la difficoltà dell’architettura italiana da qualche tempo sia più culturale che altro. Anche se stiamo vivendo una stagione segnata dalla presenza di grandi professionisti, soprattutto nell’ambito milanese, e ci sono più occasioni importanti di lavoro rispetto al recente passato, si è forse persa quella dimensione altra di un’architettura che cerca di tracciare un percorso di ricerca per giungere a un obiettivo – sociale, politico – di includere i progetti in una forma di interesse pubblico, condiviso. La “cosa giusta” in questo senso è cercare di fare opere che creano dei sistemi di interrelazione tra le cose, tra le persone, tra l’architettura e la città, tra l’architettura e il contesto.
Stefano. In che cosa vi sentite “romani” come studio e come atteggiamento progettuale?
Claudia. Per molti aspetti, siamo e ci sentiamo architetti romani. Faccio un piccolo esempio. Recentemente siamo stati invitati a un concorso dove si trattava sostanzialmente di progettare delle “facciate”. Mi sono detta: “Tra gli invitati ci sono degli studi milanesi, probabilmente lo perderemo!” perché l’architettura milanese è prevalentemente una architettura di facciata – penso a Caccia Dominioni – mentre l’architettura della tradizione moderna – e non solo moderna – a Roma è fatta per lo più di volumi. Quindi nel progettare facciate gli architetti milanesi sono più bravi, perché la facciata appartiene alla loro storia, più di quanto non appartenga alla nostra.
Stefano. Non a caso, a Milano, una delle architetture meno di facciata, che anzi la rifiuta per sostituirla coi volumi articolati e disassati dal profilo stradale, è il complesso in Corso Italia di Luigi Moretti, romano…
Francesco. Certamente. Vedi, siamo comunque dei Romani atipici. Amiamo l’architettura rinascimentale, geometrica, rigorosa: quindi non siamo e non potremmo definirci barocchi. Eppure se osservi il complesso della Città del Sole che abbiamo costruito nel quartiere Tiburtino puoi riconoscere una forma di composizione urbana che nasce o si rifà alla tradizione barocca, dove spazio e volumi si compenetrano per costruire delle ambientazioni pubbliche. Questa capacità scenografica dell’architettura è una dimensione importante, che va in qualche modo conservata anche nel lavoro che facciamo oggi.
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Claudia. A Roma l’architettura è estroversa, è una architettura inclusiva nei confronti della città, con la quale ha un rapporto molto forte. A Roma i giardini dei palazzi sono fuori, a Milano sono spesso racchiusi negli interni. Quindi certamente in questo senso siamo “Romani”: non sul piano strettamente formale, dove invece siamo al contrario rigorosi e strutturati, ma perchè ci interessa il rapporto che il barocco crea con lo spazio urbano. Soprattutto non c’interessa l’edificio/oggetto, isolato, autonomo come una scultura, come succede di vedere sempre più spesso sia in Italia che in Europa. Costruiamo sempre strutture (da qui il titolo di questo libro) di relazione, urbane, per un’architettura aperta e pubblica. Uno dei saggi che abbiamo scritto riguarda proprio le strutture per lo spazio pubblico. Pensa al Mast, con le rampe che invitano ad entrare nell’edificio e il percorso interno, continuo, aperto, pubblico: la stessa logica la adottiamo a tutte le scale del progetto, vale anche per le abitazioni, per gli interni ovviamente per i grandi progetti urbani.
Francesco. L’altra cosa che caratterizza la nostra identità di architetti, diciamo pure “romani”, è una certa attenzione per la topografia: anche quando questa non è presente come dimensione naturale, ne creiamo una artificiale, vedi ancora il caso del MAST oppure nella Città del Sole – dove si sale, si scende, si percorre lo spazio pubblico che attraversa gli edifici sopra, ma anche sotto, su più livelli: per cui c’è un continuo costruire un’ossatura di spazi comuni che tiene insieme tutte le parti dell’architettura.
Stefano. A proposito di topografie e della necessità di favorire attraverso esse l’uso dei percorsi e degli spazi pubblici, qui nasce secondo me l’identità comune a molti vostri progetti. In fondo sono tutti dei ponti, mettono in comunicazione diverse parti dell’architettura – o della città – con strutture che ne collegano i vari elementi.
Francesco. Hai citato due punti che per noi sono fondamentali: uno appunto è questa idea del ponte, che distanzia e allo stesso tempo collega: come la rampa, un dispositivo che ti porta da un luogo all’altro. L’altro è l’idea di costruire relazioni, di connettere, collegare. A questo abbiamo dedicato un capitolo del libro, un capitolo incentrato sulle strutture della circolazione: spazi che non servono solo per spostarsi da una parte all’altra, ma a creare luoghi nevralgici dove si concentra la vita all’interno degli edifici. Luoghi dove ci si incontra, dove si creano le connessioni tra le parti e tra le persone che le vivono. Questo, per me, è uno degli elementi essenziali dell’architettura. Quindi, quando chiedi “Cos’è la cosa giusta?” secondo me è ancora questa: costruire, amplificare relazioni, aumentare le possibilità. Se riesci a creare dei dispositivi in grado di fare questo, aumentare le possibilità d’uso, d’interpretazione, allora avrai costruito delle opportunità per chi dovrà usare gli edifici – al di là del fatto che siano dritti o inclinati, di un colore o di un altro.
Claudia. E questo vale anche per la città: quando si progetta la città, un pezzo di città, la cosa importante è il sistema del vuoto. Se lo spazio vuoto è stato progettato per funzionare come spazio pubblico, come sistema aperto, di connessione, non è poi così importante, diciamo, se gli edifici sono un po’ più o un po’ meno interessanti. L’importante è la quota che viviamo, lo spazio vuoto che percorriamo, la qualità dello spazio urbano e delle funzioni che vi si affacciano: se è buona la qualità dei servizi che la città così ti offre, ti senti bene, la città ti fa sentire bene.
Stefano Trovo interessante come siete capaci di trattare il materiale dell’architettura, con una qualità che in certi momenti si avvicina a quella artistica. Anche con tutte le difficoltà del cantiere, mi sembrate seguire sempre un concetto, un’idea alla base della vostra ricerca, che ricorda il lavoro dell’artista sulla composizione dell’opera. In che cosa vi sentite vicini all’arte?
Claudia. L’arte è diversa dall’architettura: l’architettura non è arte, questo è importante ribadirlo. Forse quello che intravedi nel nostro lavoro, e che in qualche misura è assimilabile all’arte, è la ricerca di un’immagine, quasi sempre una struttura astratta, che poi una volta definita guida il progetto fino alla fine del processo, fino al più piccolo dettaglio: una immagine che non è autonoma, indipendente, chiusa in se stessa ma, al contrario, è capace di assorbire e farsi portatrice di tutti i dati e significati del e per il progetto, dal luogo, al programma, alle persone. Così, forse anche in modo inconsapevole, abbiamo sedimentato una modalità del mondo dell’arte, che appartiene al nostro orizzonte di riferimento, a volte anche più dell’architettura stessa.
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Francesco. Gli artisti sono quelli che svincolati dai problemi funzionali, riescono a raggiungere la massima chiarezza espressiva tra senso e significato. Penso ad alcuni disegni di Paul Klee dove il rapporto tra astrazione geometrica e figurazione appare e scompare, con la capacità – che trovo straordinaria – di un artista che è al contempo astratto e insieme raffigura dei significati. Su questo abbiamo anche lavorato moltissimo: cercando di comporre delle simbologie che danno la riconoscibilità del luogo, dove il rischio è invece la banalità della forma. Sempre a proposito di connessioni con l’arte, mi viene in mente un bellissimo testo di Rosalind Krauss, dove parla dei Minimalisti americani che decidono di “azzerare” la forma delle loro opere per immetterle nello spazio pubblico: quindi per farle appartenere a un luogo che non è più quello introspettivo dell’artista chiuso nel suo studio e in sé stesso e nel proprio dramma interiore. Si opera così quel distacco tra opera e artista che è tipico anche del nostro mondo disciplinare. D’altronde l’architettura è senz’altro un’arte pubblica, dove tu metti a disposizione di tutti un pensiero per immetterlo in un circuito che è fuori da te, perché è fruito dagli altri: quindi, se vogliamo portare degli esempi, è a quegli artisti che cerchiamo di guardare, al modo con cui hanno lavorato sul distacco tra autore e opera.
Claudia. Sì, siamo lontani dall’idea dell’architetto artista che chiuso nel suo studio produce un disegno, autoreferenziale, lo sigla e poi lo passa – come un’opera d’arte – agli esecutori per farlo diventare progetto. Anzi, parlando del distacco dal proprio lavoro, fondamentale per acquisire quella dimensione pubblica di cui parla Rosalind Krauss, negli anni ci è stata molto utile la dialettica tra due persone simili, ma comunque diverse, come siamo noi. La dialettica ci tiene lontani, o almeno più lontani, dall’Ego e costituisce la base per quel processo di condivisione che porterà a un’architettura immaginata e costruita per tutti, un’architettura pubblica.
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