di Peter Sloterdijk
In un periodo di archistar firmatari di progetti architettonici sempre più spettacolari, destinati a divenire veri e propri brand, poli di attrazione capaci di cambiare i destini di una città o addirittura di un intero paese, può essere interessante recuperare alcuni passaggi chiave tratti dalla monumentale trilogia delle “sfere” di Peter Sloterdijk – filosofo e saggista tedesco – sull’evoluzione umana in relazione agli spazi abitativi. La tripartizione si apre con il primo volume BOLLE dedicato allo studio delle relazioni “diadiche“, quelle definite per loro stessa natura intime, di vicinanza, date nella fase nogettuale ed intra-uterina all’interno della quale il feto vive una dimensione di dipendenza con l’ambiente placentare circostante.
Il secondo volume, GLOBI, esamina il meccanismo della “trasposizione” ed ampliamento della Casa al Mondo. L’attività che consenta di abitare il “fuori” superando, così, la relazione diadica conosciuta nella nostra prima fase di vita è quella che apre alla creazione dei mondi umani e degli ordini simbolici. In chiusura SCHIUME introduce il concettodi “unità minimale”; Bolle diadiche che si sostengono a vicenda senza, per questo, entrare i n connessione tra loro. Nasce l’immagine di società schiumosa composta di bolle abitative precarie.
“I nostri progenitori erano ben consapevoli che non ti puoi accampare fuori nella natura. I rifugi di oltre un milione di anni fa dei nostri antenati indicano che si stavano già distanziando dall’ambiente circostante”.
Peter Sloterdijk
Il quesito ontologico su “cosa sia l’uomo” viene qui sostituito dall’esigenza di conoscere il “dove dell’uomo” e questo potente significato richiede un orizzonte nuovo per designare il modo in cui l’uomo moderno abita i contenitori, siano essi sociali e architettonici.
Il dove degli uomini risiede nello spazio interno, la sfera è la rotondità dotata di un interno, dischiusa e condivisa, che gli
uomini abitano nella fase evolutiva che li porta ad essere uomini. I meccanismi antropo-genetici e ambientali che sottendo a questa esperienza immersiva di abitare il mondo deriva dal principio di “insulizzazione” tipico, ad esempio, delle comunità animali. Il branco crea intorno a sé delle pareti di protezione per meglio difendere le madri e i cuccioli.
La casa è in origine il gruppo umano impegnato a proteggere i piccoli dai pericoli esterni, una sorta di utero che crea rapporti di dipendenza nei confronti delle cure materne (definita neotenia). Di conseguenza le “sfere” o serre hanno la funzione di “insulizzazione” nei confronti dell’irruzione del mondo circostante. Per Sloterdijk è possibile vivere senza patria, ma non è concepibile la vita senza una casa. Viene riformulata l’identità di patria, non più identificata con il principio di permanenza (si può non avere una patria) mentre l’esistenza della casa, per quanto “temporanea”, è imprescindibile e riconduce ad un rapporto simbiotico con l’umanità (per un clochard parigino perfino il riparo offerto da un ponte finisce per assurgere alla dimensione interiore di casa).
L’evoluzione – che non è sinonimo di progresso – dalla casa neolitica agraria alla capanna high-tech scardina non solo il senso dello spazio ma anche quello del tempo. Le capanne high-tech, come le definisce il filosofo, sono il luogo all’interno del quale continuiamo ad attendere qualcosa – si tratta bensì di un’assenza vuota – nella speranza che la salvezza umana possa giungerci dall’esterno; da un Dio che possa salvarci. Le nostre case assomigliano sempre di più a navicelle di stazioni spaziali – all’interno della quali ci si rinchiude alla ricerca di protezione – e contemporaneamente rappresentano “snodi” di telecomunicazione, finendo per diventare dei luoghi digitali.
Sloterdijk affida, dunque, all’abitare il significato di costruire sfere; la dimensione si dilata dal piccolo al grande (microsfere o macrosfere) “gli uomini sono costruttori di sfere all’interno delle quali pongono in essere il loro mondo, il luogo del loro abitare, dove vivono il loro rapporto tra interno ed esterno”.
Le microsfere sono dunque la via, almeno una delle vie possibili, per comprendere l’essere umano in quanto abitatore dell’interno, strutturato da una sua spazialità originaria, che tenterà sempre di ricostruire una volta uscito dall’utero materno.
*Nel corso di una conferenza tenutasi alla Harvard Graduate School of Design, lo studioso individua una ragione – di ordine principalmente filosofico – per la quale non è più possibile mantenere la vecchia cosmologia propria dell’Europa antica basata su una sostanziale “equivalenza” tra casa, abitazione e mondo. Il Mondo dev’essere in sé interpretato come qualcosa avente la caratteristica di un’abitazione e le persone all’interno della cultura Occidentale vanno pensate non solo come mortali ma come “abitatori di una casa”. Il loro rapporto col Mondo nella sua interezza è pari a quello degli abitanti di un edificio affollato che noi chiamiamo “Cosmo”.
Un numero “accatastabile” di celle abitabili, struttura che amplifica il poliedrico alveare della “cella in-abitata” risponde all’imperativo sferologico applicabile a tutte le forme di vita umane senza per questo presupporre una totalità cosmica. E qui emerge la metafora della “schiuma”: l’accostamento di celle che vanno a formare un blocco di appartamenti, per esempio, non genera la classica entità casa-Mondo, bensì una “schiuma architettonica“, un sistema di camere molteplici costituito di mondi personali relativamente stabili. nella modernità è stato possibile conservare molta più complessità che sotto la precedente nozione classica di unità.
LEGGI ANCHE – E’ tutta colpa del design?
La struttura della schiuma, per sua natura plurale e caleidoscopica, risulta incompatibile con una forma mentis monosferica; l’intero non può più essere rappresentato come un tutto grande e rotondo.
Il filosofo tedesco ci racconta un aneddoto per illustrare la dimensione di questo cambiamento: Albert Speer annota, nelle sue memorie, che il colossale progetto della Reichskanzlei a Berlino contemplava la presenza di una svastica a incoronare la cupola, che doveva essere alta più di 290 metri. Poi, in un giorno d’estate del 1939 Hitler disse: “La corona del più grande edificio del mondo dev’essere l’aquila sul globo.”
Cade la ghigliottina e l’ordine categorico di Hitler restaura con un colpo secco il pensiero imperiale monocentrico – anche se solo per un momento il suo intervenuto sembra riportare in vita il fantasma della decadente metafisica classica.
Si è compiuto un salto concettuale che ha portato gli uomini dall’abitare uno spazio unico e condiviso (una gonfia bolla di sapone che ci contiene tutti) alla rivoluzione dell’universo “costituito piuttosto da milioni di bolle nettamente distinte che si sovrappongono e si intersecano ovunque.”
Un sublime architetto quale Le Corbusier si é ispirato alla metafora della bolla di sapone per penetrare l’essenza stessa del valore dell’architettura, ciò che rende buono un edificio: “la bolla di sapone assume una forma perfetta, se l’aria al suo interno è distribuita equamente e regolarmente. L’esterno è un prodotto dello spazio interno.”
Un’ affermazione paradigmatica della teoria sferologica: lo spazio vitale può essere spiegato solo nei termini di una priorità dello spazio interno.
La dimensione interiore dello spazio è quella lungamente ricercata e desiderata dagli esseri umani, tesi in uno sforzo costante di crearla a propria misura, la questione approda così sul terreno della modernità e del capitalismo nel XIX secolo, come si esprime questo bisogno di spazio interno?
Ci viene in soccorso la tecnologia più avanzata in veste di strumento in grado di dare risposta all’atavico bisogno esistenziale dell’uomo di “immunizzare l’esistenza attraverso la costruzione di isole protettive”. In questo senso, il Crystal Palace di Joseph Paxton, costruito a Londra nel 1851, rappresenta l’edificio archetipo per eccellenza.
Una struttura che incarna la perfetta espressione dell’idea spaziale del capitalismo psichedelico, prototipo di tutti i successivi interni dei parchi di divertimento e degli eventi d’architettura. E’ un inno all’esclusione del mondo esterno, costruito sulle macerie dei mercati all’aperto, le fa poi risorgere all’interno di un luogo: la sfera chiusa. Un’architettura ibridata che ricompone in sé le vestigia delle forme spaziali antagoniste del salone e del mercato.
Il cittadino del XIX secolo mira a espandere il suo soggiorno come un cosmo, imprimendo allo stesso tempo la forma dogmatica della stanza all’intero universo. Questo innesca una tendenza che si perfeziona nel design d’appartamenti del XX secolo, oltre che nel design del centro commerciale ( tra i non luoghi per eccellenza come ci ricorda Marc Augè) e dello stadio – in quanto essi sono i tre paradigmi della fabbricazione moderna: cioè la costruzione di micro – e macro – interni.
Non a caso, gli appartamenti moderni sono affollati di dispositivi tecnici tramite cui la vita si consuma al suo interno. Gli attuali utensili non hanno più le maniglie, perché le maniglie appartengono a una fase ormai obsoleta, lasciando il posto ai dispositivi digitali: siamo giunti nel mondo delle operazioni “touch”, che si attivano al solo tocco delle dita.
Il lavoro di Sloterdijk si concentra sul dinamismo spaziale del nostro essere-nel-mondo. Ci vuole mostrare come ogni forma di spazio prodotta implichi un problema di proiezione. Gli umani sono animali a cui piace muoversi, cambiano stanza, spazio e anche lo stesso elemento in cui vivono. Sono sempre in vita mentre sono in “movimento da A a B e indietro” e sono quello che sono perché portano con sé in ogni nuovo spazio la memoria di uno spazio differente in cui erano in precedenza.
In altre parole, non puoi creare uno spazio assolutamente neutrale, e non puoi creare uno spazio assolutamente nuovo; generi sempre spazi differenziali distinti da un vecchio spazio precedente.
Quindi se noi ci chiedessimo: quali spazi interni desidererebbero avere gli esseri viventi che portano con sé l’imprinting della nascita? La risposta sarà: opteranno senza dubbio per gli spazi interni che gli permetteranno di proiettare una traccia di quell’arcaico stato di protezione verso tutti gli involucri costruiti successivamente. che si trovano in mezzo tra la biologia e la filosofia.
“Potremmo dividere le persone in abitatori delle caverne e in abitatori degli alberi – per i primi quello che conta e l’amore per il guscio, per gli altri l’amore per la spaziosità”.
Peter Sloterdijk è un filosofo e saggista tedesco, professore di filosofia ed estetica alla Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, di cui è rettore dal 2001. Insegna anche all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Fonte
*Cartografie dell’attualità. Per una critica della ragion spaziale pag. 125-126 a cura di Carlo Galli
“Harvard Design Magazine”,
Philosophy Kitchen — Rivista di filosofia contemporanea
Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato: