“Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”.
Blaise Pascal
C’è anche un’emergenza comportamentale, qui e ora, si esprime nel disagio che sfocia nell’ansia, pervade le fragili coscienze umane quando non si ha una soluzione certa scientifica, chiara pronta per essere usata e per rassicurarci che il male sarà vinto.
Un’angoscia che rimane, anche guardando la fragilità delle nostre strutture (fisiche e morali) e la loro incapacità di affrontare l’anomalia, perché “in stato di quiete” tutto sembra funzionare, ma è un’illusione che svanisce al primo sintomo, mentre la società vacilla, e il nostro modo di rapportarci ad essa deve modificarsi radicalmente.
Non è solo questione di etica progettuale o di nuove espressività estetiche compatibili con le alterazioni emergenziali, l’inadeguatezza dei sistemi si risolve dando vita a nuovi paradigmi concettuali, per ridare all’architettura il ruolo di contenitore esistenziale programmatico ad alto contenuto socio-antropologico e politico.
Progettare è un’esigenza connessa alla ricerca dello stato di ben-essere delle società di riferimento.
“La cura” è al centro dell’universo delle forme, una funzione polifonica che tutte le contiene perché è attraverso quell’attenzione che dobbiamo dare una “forma-senso” al vivere, al lavorare e a tutto ciò che ne consegue.
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La crisi pandemica ci ha posto drammaticamente di fronte alle nostre sopite responsabilità, velocizzando un processo in atto da molto tempo, che necessita soluzioni non procrastinabili.
E’ tempo di azioni stoiche ed è giunto il momento di prendere una posizione intellettuale incontrovertibile e chiara.
Forse abbiamo capito, possiamo riprenderci il segreto silenzioso delle nostre stanze, piene di memorie, di scritti interrotti, di obiettivi non raggiunti, occuparle con le nostre vocazioni, perché vivere è più importante che abitare, e il nostro luogo mentale, intimo è solo convenzionalmente un appartamento.
Il Luogo è sempre stato liquido molto prima che Bauman ne estendesse il concetto alla società intera, perché dovremo vivere in spazi che si modellano come all’ondeggiare dell’acqua che prende forma apparente, instabile, nel volume che la contiene sia esso loft, villa, palazzo o monolocale.
È nella tenera cura del corpo e nell’allenamento della mente che ogni “casa” diventa il condensatore delle emozioni, un vuoto sensoriale a tecnologia variabile, che serve quando serve e può scomparire quando dovrà farlo per lasciare spazio, alla sola pelle che ci condiziona.
Dopo un mese di isolamento solitario è scomparso il lavoro, tradizionalmente inteso e non solo perché ci si è auto-barricati nello schermo per parlare col mondo, ma soprattutto perché cominciamo a non avere nostalgia dell’Ufficio, dello Studio, perché le camere da letto e i tavoli della cucina trasformati in piattaforme digitali ci appaiono perfette per produrre la nostra dose quotidiana di sogni.
Ci incontreremo in salotto, o faremo i briefing nel tinello?
Non credo sia così folle da pensare, già pensare è stata la vera scoperta di questo periodo, secondo le diverse capacità di ciascuno, ma credo che sia stata una bella riscoperta per molti.
Lavorare senza l’obbligo di dover andare altrove per fare quello che possiamo tranquillamente svolgere senza alzarci dalle nostre alcove, a voler significare il valore simbolico dello spostarsi tutti i giorni verso il nostro ruolo pubblico, di appartenenza a categorie o classi.
Forse comincia anche una nuova stagione per i negozi di vicinato, le bottegucce, i pizzicagnoli che senza nessun cedimento nostalgico rappresentano un presidio emotivo, e non parlo delle rosticcerie/gioiellerie ma della filiera panettiere-salumiere-edicola e via discorrendo che stanno rifacendo capolino rispetto all’ipermercato-borgo dove annientare le nostre peculiarità e spendere il tempo senza qualità.
L’eliminazione repentina della dialettica fisica dello scambio, ha creato reazioni complesse, si studia in streaming, tornando alle solitudini dell’isolamento che la crescita culturale richiede.
La macchina digitale universale non riesce a sostituire i suoni veri dell’incontro, in fondo questa crisi ci sta educando e sta producendo l’insegnamento del silenzio nella nostra stanza-mondo, che da qualche settimana guardiamo con occhi diversi: vivere, lavorare e studiare non sono luoghi ma attitudini mentali.
L’architettura deve quindi esplorare l’emergenza come sollecitazione sociologica e fare scelte anche visionarie, ma finalmente più ancorate alla soluzione dei problemi che alla rappresentazione sacra dell’estetica, perché la condizione temporanea in cui viviamo cambierà comportamenti e funzioni, anche dopo l’uscita dallo stato di contaminazione universale.
Lo spazio di relazione e la prossemica dovranno adeguarsi a questi pericoli che puntualmente si ripresenteranno e dunque l’aspetto scientifico della progettazione dovrà prendere il sopravvento rispetto alle beatitudini della bellezza, anche se si tratta di creare una nuova concezione di casa di riposo per anziani, o un ospedale, un ristorante o un negozio.
Il fulcro tipologico rimane il percorso, i percorsi-flussi da ri-disegnare in relazione alle potenziali contaminazioni, con vari gradi di problematicità, con una visione d’insieme che di fatto costruirà una nuova funzionalità generale, un paesaggio architettonico diverso, capace di raggiungere il prodigio dell’estetica partendo dai vincoli etici.
Non credo che questo nuovo paradigma possa limitare le capacità espressive, anzi potrebbe eliminare l’inutilità di prove artistiche troppo spesso penalizzanti per la scientificità della vera ricerca architettonica che vive solo se riesce a migliorare il nostro contesto urbanizzato, tutto il resto è semplicemente un puro gesto formale.
Da questo punto di vista una nuova metodologia creativa potrebbe esprimersi attraverso forme di attenzione ad ogni ipotesi di emergenza, per la sensibilità con cui si dovranno affrontare i problemi della complessa quotidianità.
Una nuova cultura del progetto che oltre all’utilità dovrà indagare sulla sua propria necessità.
I giorni della crisi hanno esposto le strutture di assistenza e cura a sollecitazioni estreme, non prevedibili ma non necessariamente irripetibili, dunque da questa aggressione sintomatica ogni nuova architettura dovrà essere in grado di reggere funzionalmente all’imprevisto.
Dovrà produrre soluzioni attraverso la perfetta razionalizzazione degli spazi, dei percorsi, dei luoghi di scambio, e di contatto, e dimensioni compatibili con la contemporaneità, attraverso un’efficace riflessione culturale.
La bigness di cui si elogiava l’incoercibile capacità di costruire mondi controllati, in ogni ambito progettuale, è praticamente in grande difficoltà, non solo perché le dinamiche sociali sono cambiate, ma anche perché dopo questa tempesta si scopriranno nuove necessità più vicine a noi e riconoscibili, condivisibili.
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Nell’immensa spersonalizzazione degli spazi di servizio, si sono penalizzati i rapporti tra persone, estranee tra estranei, e costrette ad assembramenti a-sociali che vorrebbero assomigliare ad un borgo ed invece sono semplici parcheggi temporali.
Il tema dell’assistenza ha tali e tante variabili che affrontarlo dal solo punto di vista progettuale non è concepibile, ma ritengo corretto che l’architettura tracci nuovi momenti di visione in grado di sostenere scelte di natura pubblica, politica, anche rendendo palesi gli errori del passato.
Penso al rapporto col privato, per la compressione del numero di ospedali e la delega quasi definitiva alla creazione di spazi per gli anziani.
La riflessione teorica interviene su tutto il sistema delle sociologie urbane e dell’antropologia culturale, con una profonda attenzione all’identità delle realtà locali, anche se questo provocherà un’ulteriore frattura con gli elementi semplificativi della deificazione globalista, o peggio glocalista.
Slogan efficaci e comunicativi ma oggi molto fragili, e probabilmente bisognosi di una profonda revisione teorica, dopo le problematiche applicazioni pratiche, se noi siamo l’architettura che esprimiamo, dobbiamo avere il coraggio di essere frutto concettuale del nostro territorio, perché la nostra storia nonostante i tentativi costanti di rimozione collettiva, riemerge con sempre maggiore forza.
E’ una strada, o una piazza? Un negozio, l’ospedale, i servizi pubblici, o una scuola? Dobbiamo riconoscere la semantica identitaria dei nostri Luoghi.
E’ sempre stato il nostro pensare-architettura, lo sforzo per affrontare le sfide, e creare luoghi, in cui ci siamo riconosciuti per qualche migliaio di anni, ed oggi ci sembrano periferie di Shanghai, o mall di Singapore, o complessi per uffici nel centro di Londra, e per qualcuno, o per tanti, tutto questo rappresentava il nostro biglietto per il futuro.
Abbiamo pensato all’Europa e al Mondo come nessuna categoria di creatori di forme, ma lo sforzo delle grandi scuole italiane è sempre stato quello di urlare la nostra differenza, la nostra peculiarità ontologica, ciò che ci ha reso, nel bene o nel male, quello che siamo: architetti, designer, intellettuali o semplicemente cittadini di questa meravigliosa parte del pianeta.
La ricerca dell’originalità programmatica e concettuale è l’imperativo per la rinascita post-virale, l’evidente inadeguatezza del pensiero progettuale recente ci porta a compiere scelte meno spettacolari ma più salutari, meno autoreferenziali ma più appaganti nella risoluzione dei problemi pratici del singolo e delle comunità.
In questa direzione il mestiere dell’architettura diventa, o torna ad essere, un impegno civile, una fatica intellettuale da mettere al servizio dei variegati contesti sociali, e progettare una sala cinematografica, una macelleria, una RSA, un museo o un’agenzia bancaria potranno dirsi parti interagenti, complesse e funzionali, non solo di una città, ma di una Civiltà.
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