Lucrezia De Domizio Durini. Recentemente lei ha creato un logo: Inter/communication Project. Un tempo era lo scrittore affermato e omaggiato che coniava un neologismo. Il pensiero corre a Gabriele D’Annunzio, incaricato di inventare nuovi termini per l’inedita macchina volante: velivolo, fusoliera etc.

    Oggi a creare nuove voci sono spesso ambiti non letterari (e può essere un elemento salutare); è la società dei consumi: il giornalista, il politico, lo scienziato. È insomma chi coltiva l’affascinante idea di cercare una new avenue.

    Chiaramente, dare vita a una nuova parola è un fatto da intendere più come punto di partenza per nuove ricerche, che non come punto d’arrivo. Quindi l’impressione primaria si basa sul cambiamento e su nuovi eventi.

    La recente propensione sociale verso l’effimero, i fragili confini delle mode e dei consumi culturali, la registrazione fantasmagorica degli usi dei mass-media pongono molti interrogativi sul logo INTER/COMMUNICATION PROJECT.

     Vorrebbe darci concretamente delle delucidazioni rivolte sia ad una realtà comunicativa che ad un pragmatismo costruttivo? Ci spieghi in maniera comprensibile qual è la sua idea progettuale in merito e quali gli intenti culturali rivolti alla società contemporanea.

     Maurizio De Caro. Non è un caso che siano personaggi di campi espressivi diversi rispetto a quelli letterari, ad avere la responsabilità di creare il lessico della contemporaneità

     INTER/COMMUNICATION PROJECT  non è ovviamente solo un logo ma prioritariamente: un lemma, nell’accezione originaria di “argomento, tema”.

     Una diversa utilizzazione del termine PROGETTO, più ampia come vuole la tradizione anglosassone, programma di sviluppo delle interrelazioni.

     INTER/COMMUNICATION PROJECT verifica le potenzialità intermediali emergenti, cercando di tradurre l’infinita serie di segnali confusi, in sistema teorico-concettuale.

     Una rete di aiuti tra le discipline della comunicazione, senza dimenticare la naturale tendenza ad una più attenta lettura della socialità, che impone nuovi modelli comportamentali, esempio una NUOVA SOBRIETÀ, frutto di un’utilizzazione più rigorosa delle NUOVE TECNOLOGIE applicate al prodotto progettuale.

     LDD. L’atto creativo è una forza libera e indipendente, inerente solo ad una persona, a una personalità. Soltanto qualcosa che scaturisce dalla sostanza originaria, che possiede il potere di accrescere l’energia del mondo può essere creatività pura…

     La fede intellettuale dell’uomo creativo, nella sua ricerca – qualunque essa sia: scientifica, tecnica, artistica – , sfida costantemente il mondo e, mettendo a dura prova le capacità umane, agisce sempre in modo libero e con creatività determinata.

 In questo senso, lei ritiene che in una simile verità possa verificarsi una vigorosa produttività inventiva atta a combinarsi con le esigenze delle realtà quotidiane?

     MDC. Credo  che qualsiasi forma di organizzazione sociale definita abbia la necessità etica di investire in creatività.

     Ogni civiltà intesa come società nella sua espressione più alta, riceve un sostegno virtuale e programmatico da ogni forma di creazione culturale.

     Partendo da questo presupposto, certo non assiomatico, l’atto creativo diviene il contributo principale per la creazione di nuovi modelli di società.

    Ora non riusciamo ad ipotizzare un evento legato all’espressività che, di fatto, non faccia riferimento, sia pure idealmente, ad una visione politica, spesso appena evocata ma indissolubilmente amalgamata a ciascuno dei segni/segnali potenziali.

     LDD. In una società, gli uomini intellettualmente capaci e creativi servono a vivificare e sostenere l’autorità sociale.

     Questo è il compito dell’uomo di cultura, ingegnere, architetto, artista o medico che sia.

     In questo preciso momento storico si sente nell’aria un desiderio di mutamento. Quali ritiene siano gli strumenti per l’attuazione di un progetto di cambiamento sociopolitico e culturale?

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     MDC. In prima lettura bisogna tentare di recuperare quelle che ho definito spesso: emergenze nelle diverse discipline della ricerca e assemblarle in un progetto globale. Uno dei compiti più difficili.

     La definizione di questo progetto globale è stata spesso ostacolata dalla velata censura che si determina attraverso la prassi delle scelte. La vera inter-medialità teorica dovrebbe essere scevra, ma il concetto è chiaramente utopico, dall’intervento critico, per divenire pura registrazione di segnali. Tutto ciò è impraticabile in ambito reale e, soprattutto, antitetico a qualsivoglia forma di sistematizzazione.

     Dicevo prima che gli strumenti del creare sono i soli atti capaci di indicare il cambiamento, poiché difficile è scindere all’interno dei processi antropologici le valenze culturali da quelle sociali.

     Creare è un atto terapeutico prima di essere un progetto propedeutico, l’irrinunciabile nutrimento di ogni configurazione politica.

     LDD. Il crimine organizzato, i compromessi delle tangentopoli, l’industrializzazione della pornografia, il degrado dei principi morali e del buon gusto, hanno distrutto la natura e la società umana.

     L’uomo odierno ha smarrito la propria identità. L’Avere ha preso il sopravvento sull’Essere. Il mondo è dedito all’adorazione esclusiva  del Dio Denaro: questo cancro malefico ha invaso con le sue putride metastasi l’intero pianeta terra.

     Un uomo è morto, ha dedicato tutta la sua vita a ricordare all’uomo di essere uomo. Le sue parole mi rimbombano spesso nelle orecchie… “L’uomo e la natura, con l’anima riunita, possono costruire un mondo nuovo”. Quest’uomo, che io definisco “Architetto Universale”, era anche un artista, Joseph Beuys, uno tra i più affascinanti, emblematici e avvincenti personaggi della storia mondiale nel secondo dopoguerra.

     Lei nella sua ultima intervista lei parla di un interessante argomento che riguarda l’interrelazione tra arte e architettura.

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     Vorrei cortesemente che lei chiarisse il suo concetto di questa futuribile avventura, di cui lei si assume, con sensibile progettualità, la responsabilità? In quali termini attendibili intende interagire sulla scorta dei vincoli istituzionali e burocratici imposti alle realtà sociali?

      MDC. Credo che quella che stiamo vivendo sia l’unica epoca in cui sono venute a mancare due”paradigmi fondamentali”.

     In tempi recenti, ma questa è cronaca, è venuta a mancare la politica, intesa come governo della città, come sistema di produzione ideologica, ma anche come prassi dialettica.

     Si sono svuotate definitivamente le scatole dei partiti, la società quindi si è trovata senza referenti reali e questa assenza è stata razionalizzata.

     Sul versante più strettamente culturale, abbiamo potuto verificare la perdita di qualsivoglia relazione tra le diverse arti.

     Senza tornare alla classicità, o addirittura alla nascita delle avanguardie storiche, mi pare che i rapporti tra le diverse produzioni siano totalmente inesistenti.

     Questo diviene ancora più sconcertante nel momento in cui l’arte vive esclusivamente di in interpretazioni, viceversa l’architettura, priva com’è di teoria, esiste esclusivamente come mera rappresentazione.

     La difficoltà di schematizzare il processo progettuale in un alveo teorico è evidente, fino al punto di rendere inutile, paradossalmente, ogni tentativo di allontanare l’architettura dalla sua semplicistica configurazione edilizia.

     LDD. In questi ultimi tempi si sta sviluppando un tipo di persona “underground”, sotterranea, nel senso dostoevskijano del termine: un uomo che, secondo appunto le parole di Dostoevskij “preferirebbe che la mano gli si seccasse piuttosto che portare una sola pietra alla costruzione del palazzo di cristallo”.

     E il palazzo di cristallo è il mondo che la scienza e la tecnologia moderna, insieme al collettivismo di Stato, hanno costruito. Quindi occorrerebbero veramente ricerche approfondite.

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     Comunque io ritengo che se la funzione dell’uomo è quella di costruire macchine e congegni che pensino e siano virtualmente incorruttibili o positivamente utili al progresso, il ruolo dell’intellettuale è di elevare la vista congelata dal razionalismo oggettivo, per fabbricare “l’edificio intelligente” ove ogni individuo, animale o vegetale, possa convivere in una reciproca comunicazione degna di rispetto e di amore universale.

     In questo senso “l’homo faber” è il sapiente architetto che riesce a far confluire il concetto globale delle esigenze umane in un rapporto di equilibrio tra progresso urbano e organicità delle risorse naturali, tra edificio esterno e arredo interno, tra funzionalità ed estetica.

     Questo concetto, per quanto io ne sappia, non è ritrovabile nei big men dell’architettura contemporanea, pubblicizzati costantemente dalla massmediologia burocratica. Sono uomini che erigono monumenti del loro status quo, disinteressandosi totalmente delle esigenze esistenziali e funzionali dell’uomo e della natura che lo circonda.

     Io credo nelle voci nuove, credo che sia arrivato il tempo del cambio della guardia. Può darci la sua opinione in merito?

     MDC. È inevitabile che le grandi star dell’architettura sentano la necessità di “conservarsi in salute”, e che la produzione iniziale che ha consentito loro di divenire tali possa risultare più interessante.

     Questo processo di sclerotizzazione non risparmia neppure i grandi artisti.

     Credo che l’aspetto più drammatico di questo problema risieda in una complessiva perdita di sensibilità, una tangibile indifferenza, mascherata da tutti gli artifici dell’estetica.

     L’architettura “grandi firme” galleggia su un piano sospeso rispetto al contesto sociale.

     Tutto questo ha origine nel concetto stesso che è alla base della disciplina: il PRINCIPIO ORDINATORE, che rappresenta il “peccato originale”, il vizio di forma, in questa ricerca dell’ordine si annida l’impossibile progetto per la contemporaneità.

     La congestione e la convulsione delle città mal si relazionano con qualsiasi principio aprioristico di normalizzazione ordinaria. Tornando alla scarsa sensibilità dei protagonisti, è evidente che la “loro” storia è un susseguirsi di monumenti protervi alla smisurata vanità, che alimenta una fama spesso frutto di buone relazione. Ma capire una società, leggerla attraverso un’analisi attenta alle emergenze, per poi poter creare le condizioni per un mutamento, è una prassi troppo umile per essere presa in considerazione.

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     In questo preciso istante non sono in grado di affermare se le nuove generazioni saranno in grado di riconsiderare questi elementi basilari della progettazione. Certamente non è più concepibile mantenere questa discrepanza tra produzione architettonica e società reale, poiché sarebbe snaturata definitivamente la funzione dell’architetto.

     L’architettura non potrà mai essere considerata merce, prodotto industriale, maschera posticcia di un qualsiasi sistema economico.

     Il ruolo dei grandi non aiuta, purtroppo, questo processo di ripristino delle competenze peculiari della progettazione, anche se da un punto di vista formale il loro contributo al nutrimento dell’estetica è straordinario e assolutamente godibile.

     LDD. Vengono in mente le indicazioni del grande Dieter Rams “Dieci Principi per un buon design”. Nel complesso, sembrano proposte volonterose, ma poi l’impostazione è in realtà rivolta a una sistematica generazionale che non è cresciuta coi tempi. Vorrei un suo parere sull’argomento.

 MDC. Ho letto anch’io questo breve saggio di Dieter Rams, padre del BUON DESIGN tedesco, nume tutelare della scuola di Ulm, anche se, stranamente, non ha mai avuto contatti diretti con quella importante istituzione.

     Il nome di Rams è soprattutto Braun.

     Ho trovato questa intervista emblematica, poiché dimostra la totale indifferenza a qualsiasi segnale di cambiamento, non a caso analizza ironicamente fenomeni di importanza storica , ribadendo la centralità della progettazione neo-classica, che può divertirsi sulle simpatiche divagazioni di alcuni estrosi progettisti, senza perdere mai di vista la serietà degli obiettivi industriali.

     L’atteggiamento è pericoloso ed irrispettoso, poiché liquida un fenomeno teoricamente rilevante e si autoalimenta nella logica ferrea della produzione.

     Sui dieci punti proposti, c’è poco da discutere, perché sono facilmente riconoscibili nella maggior parte dei prodotti di design esistenti al mondo, quindi non ho capito fino in fondo la provocazione.

     Niente di nuovo.

     LDD. Ho letto alcune interviste rivolte ai protagonisti della cultura architettonica, che esplorano l’universo della casa. A dire il vero, sono deludenti, mentre sono d’accordo che  da quelle interviste “è derivata non certo una filosofia dell’abitare, ma semplicemente che ha parlato della propria casa…” . E allora, architetto De Caro, qual è in realtà il concetto che i colleghi della sua generazione attribuiscono all’abitare come simbolo della vita contemporanea? Lei pensa che l’INTER/COMMUNICATION PROJECT possa assumere uno spirito di sensibilità pratica e teorica e in quali termini oggi è possibile progettare il futuro dell’uomo in rapporto al brutto che ci circonda?

     MDC. Ricordo sempre la mostra del 1972(quasi cinquanta anni fa) al MoMa di New York, sul design italiano, già per altro in crisi e quindi pronto per la beatificazione. La proposta più intelligente fu quella  di ARCHIZOOM: una stanza vuota con un megafono che riproduceva la voce di una bambina mentre descriveva la stanza dei suoi desideri. Forse questo episodio non va oltre il senso della boutade, l’arte concettuale ci ha educato a ben altri tipi di performance.

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     Collegando questo episodio alle interviste  non mi sembra particolarmente sbalorditivo il fatto che questi grandi personaggi dell’architettura parlino della “loro” casa come metafora dell’architettura, poiché qualsiasi loro opera è soltanto la proiezione reiterata dei loro desideri. Questo, da un punto di vista metodologico, prima che antropologico, è insopportabile: la casa è di altri.

Torniamo al discorso precedentemente intrapreso: se non conosco o non riesco a capire i desideri degli altri, è naturale che, egoisticamente, io debba disegnare i miei, o spesso il mio, l’unico all’infinito.

 È un problema di comodità e di sopravvivenza.

     INTER/COMMUNICATION PROJECT tenta di recuperare, di imparare a leggere i desideri degli altri, senza demagogie maieutiche, come vera condizione di partenza della scienza del progetto.

     Se serve ancora a qualcuno l’architettura, è indubbio che la creazione di questa CASA DEI DESIDERI è il primo passo verso la sua ricostruzione (o meglio decomposizione).

     INTER/COMMUNICATION PROJECT, se riuscirà a creare una rete di comunicazioni tra gli impulsi soggettivi, ed un sistema capace di definire le relazioni oggettive, avrà raggiunto uno scopo, minimo forse, ma culturalmente onesto. Ci sembra un buon inizio.

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