italo rota

Pubblichiamo il testo letto da Manuel Orazi al funerale di Italo Rota, insieme con quelli del sindaco Giuseppe Sala, del presidente della Triennale Stefano Boeri, dell’architetto Carlo Ratti e dell’a.d. di Artemide Carlotta de Bevilacqua.

Italo Rota è stato un milanese ariùs, ovvero molto legato a un luogo dell’hinterland lombardo che si spinge ben oltre gli attuali confini regionali. Così come Carlo Cattaneo era legato a Casorate o Giuseppe Verdi a Busseto, Rota era legato una casa di famiglia oggi scomparsa sul lago d’Orta che è una località cruciale nell’architettura e urbanistica italiana del dopoguerra perché lì sono cresciuti Leonardo Benevolo, Vittorio Gregotti e Pierluigi Cerri.

Insieme a questi ultimi due e con l’altro Pierluigi, Nicolin, Rota ha mosso i primi passi nella disciplina sia a livello professionale sia nella ricerca attraverso la rivista “Lotus” che alla fine degli anni ’70 aveva la sede a fianco di quella di “Casabella” dove lavorava invece Mario Lupano. Insieme, Italo e Mario, si divertivano a impaginare e a creare i menabò come due giovani sarti, tagliando e cucendo immagini e testi. In seguito, con il trasferimento a Parigi, Rota ha progressivamente preso le distanze dalla linea rigorista gregottiana, quella che stava rivalutando l’opera dei razionalisti anteguerra come Figini e Pollini o Franco Albini, dove del resto Italo aveva lavorato come disegnatore in precedenza.

In molti hanno definito il lavoro maturo di Italo eclettico, ma a mio modo di vedere la sua evoluzione o meglio la sua presa di distanza non era dettata dalla smania postmoderna di rivalutare altri stili, ma da una sua peculiare cifra manierista che «presuppone la conoscenza di uno stile cui si crede di aderire e che invece si cerca inconsciamente di evitare» (Wilhelm Pinder).

Per questa sua svolta è stato anche molto avversato dalla critica anche perché, è bene ricordarlo, il manierismo è anche il nome di una malattia psichiatrica. Credo invece che oggi sia molto bello ritrovarci in questa chiesa manierista di Pellegrino Tibaldi che nella Cappella della Guastalla proprio qui a fianco alla sagrestia ha inserito due angeli scolpiti nell’atto di raddrizzare i fusti delle colonne, spostati cioè dalle loro basi, per sostenere la trabeazione. Una bizzarria in cui mi piace ritrovare tutta l’indole di Italo Rota, manierista lombardo e perciò autore indisciplinato specie sul piano editoriale.

Pellegrino Tibaldi, Cappella della Guastalla (1570-1579), Chiesa di San Fedele, Milano
Pellegrino Tibaldi, Cappella della Guastalla (1570-1579), Chiesa di San Fedele, Milano

Il nostro incontro fu causato però poco meno di vent’anni or sono dal suo interesse verso Gilles Clément, autore del Manifesto del Terzo paesaggio che ha avuto una notevole fortuna internazionale soprattutto attraverso l’edizione italiana. Fra l’altro vi si può leggere una definizione secondo la quale esso è «un territorio per le molte specie che non trovano spazio altrove».

Ecco io credo che Rota nella fase più matura della sua vita abbia voluto trovare albergo per le specie rare di idee e discipline come le culture orientali e le controculture occidentali di cui era appassionato. Non solo la sua eccezionale casa privata è stata funzionale per raccogliere tracce materiali di queste idee e culture, organizzate in una serie di preziose boîte à miracles, ma anche la NABA, la scuola di cui è stato a lungo direttore scientifico e che ha trovato una sistemazione adeguata a discipline senzatetto eppure così radicate in Italia come la scenografia insegnata da Margherita Palli o la fotografia, entrambe storicamente relegate ai margini se non all’infuori dei programmi universitari.

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Ovviamente Clément fu uno dei primi relatori invitati in quella scuola. Permettetemi però di ricordare in questo senso una mia esperienza personale, quando Italo appena diventato direttore alla Naba mi invitò a coordinare alcuni seminari, i più folli a cui io abbia mai preso parte. In uno di questi invitammo un economista e autore Adelphi a esporre la teoria e la pratica delle arti marziali, a fianco di una piccola esposizione di oggetti della collezione di Rota come le amate katane giapponesi ecc.

Italo riteneva che fosse stato il suo seminario didattico più riuscito, io allora ne dubitavo anche perché ero stato fatto cadere a terra in una dimostrazione proprio dal relatore, Geminello Alvi. Così mi ha scritto stamattina, ricordando Italo «una persona minuta e mite con molti e premeditati non detto che sapeva di non dover spiegare… ne ho un bel ricordo, una pura stravaganza, ma delicata».

Museo Del Novecento Italo Rota
Museo del Novecento, Italo Rota

Concludendo vorrei ricordare due citazioni, credo molto correlate. La prima proviene dalla quarta di copertina suo ultimo libro pubblicato da Scheiwiller, che oggi purtroppo suona come il suo epitaffio: «Sono una persona fortunata, che ha potuto fare il lavoro che aveva previsto e deciso in tante occasioni e su progetti diversissimi, dall’architettura a pezzi di città agli allestimenti, ma anche installazioni artistiche, giardini…  L’incontro con la natura è quello che ha cambialo un po’ la mia vita trent’anni fa, anche attraverso la conoscenza di Gilles Clément (anche lui è una persona che si diverte ancora molto, come me), e che mi fa sperare di risolvere alcuni problemi della nostra società attraverso la disciplina che ho scelto».

La seconda invece proviene da Cosmologia portatile, il libro pubblicato nel 2013 da Quodlibet a Macerata – dove ci sono due palazzi progettati da Tibaldi – e che, forse, descrive meglio l’eccentricità della parabola terrena di Italo Rota: «l’autentico mestiere dell’architetto risiede nel rivelare lo spazio della mente umana».

Manuel Orazi

Milano, chiesa di San Fedele, 10 aprile 2024


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