Una visione cinematografica della realtà architettonica così simile al mondo che inconsapevolmente attraversiamo.
“Perché non c’è niente di buono o di cattivo, ma è il pensiero che lo rende così”
Amleto, W. Shakespeare. atto II, scena 2.
E’ una metafora della simmetria, trasformata nello sviluppo criminale della lotta di classe al suo grado più alto, una commedia comica e/o un dramma shakespeariano, vissuta nello spazio domestico, speculare: povertà/ricchezza, bellezza/bruttezza, felicità/orrore.
Niente sembra più reale di quello che si vuol far credere come artificiale.
Una famiglia, due famiglie, riscatto sociale e conservazione dei privilegi fanno da movente al più grande dei delitti: l’inadeguatezza.
Tutto in Parasite è inadeguato, tutto sembra dover diventare altro per poter esistere, ma niente appare come dovrebbe essere davvero.
La famiglia Pack vive in una scenografia artificiale creata per la macchina da presa che deve sempre indagare lo sguardo del protagonista di turno e quello nascosto della finzione che, alligna maligna in ogni perfetto fotogramma.
L’eleganza della ricchezza è ad uno stadio tale da sembrare insopportabile, come l’orrore della povertà, vissuta con scampoli non accettabili di dignità.
Il mondo in cui si muovono gli attori coreani, non riesce a mettere in contatto, e come potrebbe la parte alta con la parte sotterranea dei suoi luoghi esistenziali.
Ma in fondo per la prima parte del film la rivalsa sociale, la rappresentazione della rivoluzione sembrerebbe poter avere successo.
Sembrerebbe, ma accade che il fato o “l’assenza di un piano” porterà tutto all’esplosione delle certezze residue, delle convenzioni, come in un minuetto, tutto sembra non avere possibilità di sfuggire all’universo simmetrico, delle forme, delle coscienze e delle frustrazioni. e invece?
Mamma, papà, figlia, figlio mangiano, ridono, sognano e tramano, nel sottosuolo delle nostre città, incapaci della pur minima produzione economica, neppure nel confezionare scatole per le pizze da asporto, ma il colpo di teatro può arrivare all’improvviso e naturalmente ai tavolini di un baretto.
Ora non ci interessa più di tanto analizzare la scrittura scenica, scenografica e il soggetto di questo meraviglioso lavoro di Bong Joon Ho, ma la trasposizione nello spazio della ricerca dell’architettura e del design, della luce, e dell’arte dei giardini.
Un trattato visivo, una conferenza per fotogrammi, una lezione di critica rivolta a chi fa un po’ di fatica a trovare spunti per analizzare il reale attraverso la finzione e viceversa.
Il film è un concerto raffinatissimo di architettura, nell’ intersezione di linee verticali ed orizzontali si sviluppano le trame, nell’assoluta asetticità fredda della Villa/teatro/mondo o nel sottoscala putrido e maleodorante, che esprime la reclusione volontaria o involontaria delle classi, e l’insistenza incomparabile di appartenere a flussi paralleli di luoghi/spazi, gestiti in maniera asettica dal regista che non deve e non può prendere una posizione perché tutti sono innocenti e ignari ma al contempo colpevoli e pavidi.
Non se ne esce da questi muri di cemento che nascondono meraviglie e orrori, profumi ed afrori che non riusciamo a toglierci di dosso, ed è quello l’indizio ambientale che ci punisce, ma guardando la vetrata specchio/schermo della bellissima villa-finta, il paesaggio cambia poco, se non per l’incapacità di ”tutti” i “parassiti” di goderne a pieno la bellezza.
Non è un’educazione semplice quella che ci conduce per mano verso l’affermazione dei punti alti dell’estetica del mondo progettato, anche la natura fa parte di questo progetto cristallizzata nel parco della villa, ma nessuno degli usurpatori è in grado di goderne a pieno.
Ecco dunque che Parasite può essere letto come “Para-Site, semi-luogo, quasi-luogo, sembra-luogo” etc, perché oltre a nascondere la truffa in atto, nasconde memorie dal sottosuolo, e Shakespeare ritorna dando un calcio a Dostoevskij.
Possibile che esista anche una simmetria tra il sottoscala della famiglia Kim e la villa dei Park, esiste ed è identica, e contiene figure simili, parassiti cresciuti all’ombra di una ricchezza che non hanno neppure il coraggio di usurpare, condannati alla bruttezza della “para-vita”, nella” para-stanza”, per un” para-tempo”.
La normalità delle differenze, l’incapacità quasi pirandelliana o bunūeliana di uscire dalla recita, rende i personaggi, gli abitatori degli spazi, metonimia della società e del mondo, non c’è in fondo volontà salvifica in nessuno, come probabilmente accade nella realtà, e d’altronde questo è semplicemente un film. O forse una teoria dell’architettura capace di mettere in scena ogni tipo di pulsione oppure ogni assenza di sentimento, proprio come nella vita, ma bastano due ore per raccontare a cosa serve il para-site, il semi-luogo? Nel senso di posto delle finzioni esistenziali?
Dobbiamo ringraziare Bong Joon Ho per averci fatto riflettere sui due poli catalizzatori tra cui si dibatte l’architettura: la finzione estetica e l’impossibile identità-omologia tra abitante e spazio artificiale.
Nell’architettura l’uomo si comporta come un attore e cerca di colonizzare un luogo che tale non diventerà mai, al punto che i veri proprietari sembrano gli ospiti e gli altri godono dei nuovi privilegi con una fisicità sguaiata, sconosciuta ai padroni.
Non è un fallimento della dimensione fisica della cultura progettuale ma solo l’anelito dell’ignoto progettista che invoca il ritorno alla caverna, tecnologica e minimalista ma che sia cavernicola.
Nell’astrattezza culturale dell’architettura si consuma il dramma che solo il cinema aveva la possibilità di mettere in scena, l’inadeguatezza dei personaggi è la nostra, rispetto a qualsiasi tipo di stereometria che non sarà mai capace di rappresentarci fino in fondo, perché una villa o il sottoscala non saranno mai la tana dell’animale primordiale che eravamo, ma solo la quinta bellissima o bruttissima delle nostre esasperate esistenze.
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Sotto il livello della strada e della decenza brulica un’esistenza portata al suo livello più estremo che è lo stesso del campo profughi o del centro d’accoglienza, ma basta spostare lo sguardo per rimuoverlo, e nella guerra tra poveri non vince nessuno perché tutti sono condannati alla probabile tragedia finale.
Si fa finta di vivere , di gioire, di studiare e forse d’amare nello spazio “para-site”, e se si deve morire bisogna farlo nel modo più teatrale possibile, trasformando l’eleganza formale dell’assenza in palcoscenico splatter dove la vendetta colpisce a caso, e mai in maniera lucida.
Poveri e ricchi, architettura e racconto cinematografico cercano di evitarsi, ma sono costretti a convivere verso un finale imprevedibile e non scontato, che esiste solo prima dei titoli di coda.
La contrapposizione continua in altre forme e piange i suoi caduti, ma presto tutto tornerà come prima dopo un veloce cambio di casacca e dopo sobrie cerimonie di commiato.
L’architettura della villa o del sottoscala, sopravvive ai suoi attori mutevoli e transeunti, ma non può essere capace di dare senso agli otto personaggi, più comparse, due famiglie, auto, feste e spese al supermarket, sangue, omicidi e una semplice flebile speranza.
Come nel segnale morse, luminoso che arriva dagli inferi della villa, infestati ancora una volta dai parassiti, allo spiraglio del cancello elettrico socchiuso, Parasite è diventato para-site, ma in questo caso lo spettacolo deve ancora cominciare.
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