«La sola differenza assegnabile tra le società animali e le nostre risiede nell’emergenza dell’oggetto»
Michel Serres
“l’oggetto dell’architettura ha perso il suo splendore”
Fèlix Guattari
Non sono un filosofo, naturalmente, e non sono neppure un architetto in senso tradizionale, dunque non potrei scrivere separatamente di una o altra disciplina ma sento che la vera essenza di questa affermazione sta nell’espressione dialettica e metafisica.
L’architettura ha bisogno della filosofia per dare senso alla sua capacità di essere, e la filosofia ha bisogno dell’architettura per riuscire a “leggere” e spiegare il mondo, la “natura artificiale” e “l’uomo che abita”.
Insieme, dunque, perché autonomamente i tracciati si perdono nelle differenti ontologie, eppure quel dialogo, quel sussurro che ha attraversato i secoli e soprattutto la bellezza terrificante del Ventesimo, si percepisce molto più intensamente oggi, che tutto sembrerebbe, vuoto, inutile, privo di materiali concettuali di base.
Non è un caso che le più lucide definizioni del costruire e del pensare lo spazio umano, siano state scritte da alcuni dei filosofi che oggi voglio ricordare alla luce di una contemporaneità che sembra aver perso la necessità primaria di raccontarsi, di ritrovare quel “senso” che racchiude l’estetica e l’etica dell’”adesso”.
Filosofi sono attratti dai processi, dalle prassi che producono gli spazi artificiali che gli architetti, giustificano, impongono come scena teatrale del pianeta, in grado di sostituire la natura, l’ambiente, cultura materiale che aspira a divenire immateriale.
Ben sappiamo che la decostruzione nasce come corrente filosofica per divenire architettonica, e spesso con interpretazioni spericolate e poco significative, ma il dialogo non si interrompe mai, si alimenta come un fiume carsico e trova sempre nuovi sbocchi verso il mare magnum della cultura zoppicante del progetto, nel progettare c’è tutta l’essenza e la giustificazione dello “stare al, e nel mondo”.
(Ho scelto alcuni paradigmi facili, facili solo per non complicarci la vita e per evitare le risposte altere di filosofi e architetti.)
(0.1) Nietzsche
“L’architettura è una specie di oratoria della potenza per mezzo della forma ”F.N.
In quattro parole N., esprime ogni possibile dinamica del progettare: oratoria, potenza, mezzo e forma.
Neppure Zevi avrebbe potuto sintetizzare meglio l’agire umano che si esprime come un flusso ininterrotto del progettare, sia nell’ambito accademico che nello slancio incoercibile di ogni avanguardia.
Dunque l’aforisma è una storia dell’architettura di ogni tempo, ma anticipa la cronaca, ne imposta le finalità, coccola l’azzardo, raggiunge l’obiettivo pur non condividendolo sempre, sia come suono, sia come luogo, sia come pensiero.
(0.2) Barthes
E ritroviamo qui la vecchia intuizione di Victor Hugo: la città è una scrittura; il viaggiatore in città, cioè l’utente della città, che siamo tutti noi, è una specie di lettore che, secondo i suoi compiti e spostamenti, preleva frammenti di enunciato per attualizzarli nell’intimo”. Roland Barthes
Per B. è tutto facile, ma nella semplicità si nasconde l’enigma della creazione artificiale del luogo, come segno e come linguaggio, senza respiro ci illustra le altezze del pensiero, dove anche il progetto può smarrirsi, e con questo creare l’angoscia del vivere, senza perdere il senso dell’abitare uno spazio umano.
Tutto torna, ogni progetto-oggetto è attratto dal linguaggio, dal segno primario da far cantare, il lavoro dell’architetto ha sempre l’obbligo di incatenarsi alla scrittura, B. non sapeva quasi nulla di architettura ed è forse per questo che è il più citato da tutti i creativi contemporanei.
(0.3) Foucault
«Le utopie consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi»
«Case chiuse e colonie sono due tipi estremi di eterotopia e se si pensa, dopotutto, che la nave è un frammento di spazio galleggiante, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si auto-delinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinità del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da una casa chiusa all’altra, si spinge fino alle colonie per cercare ciò che esse nascondono di più prezioso nei loro giardini, comprendete il motivo per cui la nave è stata per la nostra civiltà non solo il più grande strumento dello sviluppo economico, ma anche il più grande serbatoio d’immaginazione.
La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggio rimpiazza l’avventura, e la polizia i corsari.» Michel Foucault
Tra quanti si sono avventurati nel terreno dello spazio progettato, F. è un visionario tra i più originali, imprevedibili e inconciliabili con la natura stessa dell’architettura e della sua traballante ontologia, perché il grande eretico mette la disciplina di fronte ad uno specchio in cui ci si accorge che nessuna immagine vi è riflessa.
Niente come l’eteronomia, termine da lui coniato, esprime un punto di non ritorno e di ri-partenza in questo ambito, e progettare per sorvegliare e punire, per isolare e creare alienazioni non si addice al costruttore illuminato che impronta l’architettura sul principio di ben-essere, capace di migliorare perfino la natura, imitandola, mai sovrapponendola, in un continuum gioioso tra l’interno-intimo e l’esterno-pubblico.
Una circolarità socratica sempre ricercata e mai realizzata, un Eldorado infantile e concettuale, etico-estetico, dove ricostruire l’uomo purificato, dopo quella povera “cosa” che il Potere aveva la necessità di far abitare nel Panopticon socio-culturale, contaminato dove si sono sviluppati spesso, i tracciati dell’umanità.
(0.4) Adorno
«Un’ architettura degna dell’uomo ha degli uomini e della società un’opinione migliore di quella che corrisponde al loro stato reale» Theodor W. Adorno
La scienze sociali hanno bisogno di alcune certezze anche quando parlano di architettura e di noi, e nonostante la terrificante contemporaneità, di speranze che spesso sono più alte e fondanti più di ogni concreta visione della realtà.
Adorno non si dissocia da tutto questo (e noi neppure), vive il suo tempo come un permanente dopo-guerra, sempre alla ricerca di una pacificazione, se non una pace, ma in questo semplice aforisma traccia una linea di demarcazione da quello che potremmo essere e non saremo mai, e la cultura del progettare non potrà mai dimenticarsene, in ogni istante, in ogni luogo, e in qualsiasi condizione politica e antropologica
Il mondo ideale è solo lo specchio della nostra impossibilità di accettare l’identità tra le nostre reali incapacità etiche ed estetiche,perfetta proiezione del desiderio reificato.
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(0.5) Marcuse
“Ci sono varie definizioni tecniche della bellezza in estetica, più o meno soddisfacenti, ma sembra essercene soltanto una che serba il contenuto di esperienza della bellezza ed è perciò la definizione meno esatta: la bellezza come promessa di felicità. Essa coglie il riferimento ad una condizione di uomini e di cose, a una relazione tra uomini e cose che si manifesta momentaneamente mentre svanisce, che compare in tante forme differenti quanti sono gli individui e che, nello svanire, manifesta ciò che può essere.“ Herbert Marcuse
Perfino M., l’apostolo della rivoluzione teorica, ha momenti di tenerezza se e quando ci parla di bellezza, come di un sogno che non si avvera , e svanisce mentre cominciamo a percepirne l’importanza, come se l’Estetica potesse prendere forma e sostanza solo nell’esperienza politica potenziale mai realisticamente realizzata.
La buona architettura potremmo dire nasce all’interno di un buon governo del territorio che rappresenta, ma l’attualità rende ancora più potente questa affermazione , ne libera tutte le volontà inespresse.
La “contestazione” trova casa nell’impossibile vuoto che lascia nel pianeta che non riesce a cambiare, perché si limita ad osservarlo come fosse un “animale favoloso”, la creazione del luogo artificiale per far vivere l’uomo, rimane la possibilità per trasformare l’intimità in socialità.
La necessità di bellezza estetica del singolo realizzata , diventa la Bellezza Estetica del Mondo
(0.6) Wittgenstein
«la differenza fra un buon architetto e un cattivo architetto consiste oggi nel fatto che quest’ultimo soccombe a ogni tentazione, mentre l’altro le resiste» Ludwig Wittgestein
La tentazione di W., architetto e pensatore, attualizza un problema professionale che trascende la capacità del soggetto creatore di proteggersi dal formalismo di maniera e dalle scelte dettate dalla consuetudine, perché l’attività del produrre architettura, soprattutto “adesso” è legata ad una prassi di resistenza intellettuale.
Si potrebbe affermare che la “colonia resistente” rende al progetto quella dignità intellettuale e concettuale necessaria per combattere ogni prassi semplificativa, pronta alla resa probabile alla Tecnica.
Nessuna volontà di costituire classifiche e generi, perchè altezze e bassezze si compenetrano nell’era contemporanea, salutandosi, e spostando l’interesse altrove, dove l’intelligenza etica e il piacere estetico ,ansimano. Ma la resistenza non si fermerà sta solo aspettando il momento buono per colpire, un tempo migliore dove tornare a sorridere.
(0.7) Derrida
«l’architettura avrà perso il suo nome, la sua unità. Diventerà straniera a sé stessa. E questo sarà un bene o meglio sarà forse fatale»
«abitabilità, funzionalità, valori d’ uso e anche il valore estetico (che riconduce alla distinzione fra il sensibile e l’ intelligibile) sono valori con i quali bisogna sempre negoziare, quali che siano i progetti architettonici e la loro audacia. Se tutto ciò resta intatto allora la “rottura” di cui si scrive evidentemente non è una rottura» Jacques Derrida
Il linguista funambolo non usa metafore complesse, D. si limita ad avventurarsi nei territori più sconosciuti per trovare(o forse no) il centro del problema, il senso, ”dare senso”, costruire una sovrastruttura qualsiasi all’architettura che, teoricamente dovrebbe vivere producendo soltanto uno scopo, un fine definito e logico.
Come per una canzone, un’aria o una sinfonia, non serve troppo altro per valutarla perché nasce esclusivamente per essere ascoltata, e darci o meno piacere.
Se poi nella bellezza troviamo la nostra idea singolare di funzione , costruita nell’etica progettuale, allora “il gioco sapiente” è fatto.
ma questo non può bastare a D. per questo “dilettante” si diletta a provocare perfino l’unico filosofo-architetto esistente, Eisenmann , ben sapendo che “la filosofia del costruire” è tutto fuorchè trasformare un segno, in pro-getto, reale ,edificare è tutto quello che rende e tende a fare dell’architettura, altro da sé.
D. è il vero cannibale delle certezze residue, strutturalismo, decostruzione , post e ultra modernismo non sono solo parole ma desideri puri che pochissimi adepti avranno al fortuna di imporre al mondo, in una Chora-l che costringe ad accettare una rottura che non mai stata una rottura con l’intelletto polimorfo di pensatori e di trasformatori della Terra: filosofi e architetti
(0.8) Heidegger
Il disporre dello spazio che caratterizza l’uomo, l’essere affidato allo spazio, l’essere-nel-mondo, anche oggi non viene colto quasi per nulla. Così accade per l’esistenzialismo, quello ateo di Sartre come quello cristiano, che fraintende totalmente il fenomeno dell’essere-nel-mondo, nel loro modo di pensare questa espressione significa: l’uomo è nel mondo come la sedia è nella stanza e l’acqua è nel bicchiere.”Martin Heidegger
Heidegger, è l’autore più saccheggiato insieme a L. dagli architetti degli ultimi decenni, forse perché poco compreso o forse perché nelle frasi ”l’essere affidato allo spazio”, ”l’essere-nel-mondo” si riassume nella sintesi complessa, lo stadio generale dell’uomo mentre imposta il suo rapporto con l’essenza dell’architettura, e tante sono le indagini antropologiche e filosofiche che H. imposta sul tema dell’abitare, del costruire e del pro-gettare, ma non facciamoci ingannare.
Spesso ad una lettura superficiale ogni parola perde di potenza, in una già complessa articolazione linguistica, dunque possiamo affermare che l’attualità del filosofo risiede nella capacità propedeutica di porre gli interrogativi,regalando all’architetto una profonda indagine sul dubbio che attraversa tutta la sua attività, sia come uomo che come professionista.
Non serve dunque avventurarsi nella criptica capacità espressiva di H., ma comprendere soltanto le condizioni al contorno che pongono l’oggetto e il soggetto del progetto, su piani paralleli, plurimi, come una necessità che diventa possibilità per sorprendere, abbagliare , condizionare il mondo naturale che l’architettura tende inconsciamente (e consciamente) a colonizzare definitivamente.
(0.9) Lyotard
«“Postmoderna” [è] l’incredulità nei confronti delle meta-narrazioni»
«parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da una agonistica generale.»
(ibid.) Tutto il lavoro del sapere postmoderno si impernia sul “gioco linguistico”, anche il problema del legame sociale è un “gioco linguistico”: «per comprendere […] i rapporti sociali […] non basta una teoria della comunicazione, ci vuole una teoria dei giochi, che includa l’agonistica fra i suoi presupposti.»
«il discorso platonico che inaugura la scienza, e malgrado il suo intento sia quello di legittimarla, non è scientifico. Il sapere scientifico non può sapere e far sapere che è il vero sapere senza ricorrere all’altro sapere, il racconto, che è per lui il non-sapere, in assenza del quale è costretto ad auto-presupporsi incorrendo così in ciò che condanna, la petizione di principio, il pregiudizio.» Jean Francois Lyotard
Con L. entra in campo poderosamente oltre al tema delle meta-narrazioni, il racconto, e il passaggio dalla teoria della comunicazione alla teoria dei giochi,la condizione post-moderna gli offre territori vergini da conquistare, attraverso un uso funambolico del linguaggio che oltre a sorprendere, sgomenta, e l’architettura è il prezioso palazzo incantato dove custodire queste neo-certezze che segneranno un periodo importante per le avanguardie.
Molte star dell’architettura sono vittime di abbagli o di mistificazioni da parte di una squadra agguerritissima di giocatori di frodo o d’azzardo che segneranno il panorama del mondo culturale, prima di cominciare a capire, ma anche questo è , ancora oggi, il lavoro e il compito del filosofo.
Dopo qualche decennio la capacità di lettura, la lucentezza dei testi diventa migliore, ci consente di arrivare all’impossibile sintesi ma al traguardo tra vincitori e vinti, tra estetica ed etica dell’imbarazzo, non c’è una vera classifica condivisa.
Si odia e si ama tra le tifoserie contrapposte che oggi si sono moltiplicate esponenzialmente in assenza di nuovi stili , nuove tendenze, nuove intuizioni, ormai solo frutto di ri-elaborazioni di ri-elaborazioni.
D. avrebbe potuto essere il cantore della nuova contemporaneità se avesse avuto l’umanità e la complessità introspettiva di Beuys, e forse sarebbero stati una diarchia intellettuale degna dei grandi protagonisti del passato, ma ora è tardi sia per l’uno che per l’altro e gli uomini devono solo capire come fuggire dalla post-modernità, creandone un’altra, diversa: naturale nell’artificiale e artificiale nella naturalità.
L’etica e l’estetica di L. possono ancora dirci, o almeno sussurrarci qualche tipologia di luogo dove stare, dove vivere, dove giocare, almeno per un po’.
(10) Deleuze
“l’arte non comincia con la carne ma con la casa. Per questo l’architettura è la prima tra le arti.”
“è cornice in senso ampio , dell’arte. Incornicia l’arte” Gilles Deleuze
D. è il filosofo che ha scritto meno, tra i dieci che scelto, sull’architettura, ma in questo brevissimo aforisma troviamo due concetti casa e cornice , davvero stimolanti.
Per quanto riguarda la casa vediamo che all’inizio dell’arte è più importante della carne, come una contrapposizione concettuale tra materie e materiali , tra natura e artificio, dunque il valore sintetico e simbolico del costruire e del progettare il luogo, lo spazio umano, è la cornice di tutto e quello che incorpora e delimita il teatro umano, è l’attività che organizza il sacro e il profano, l’ etica e l’estetica.
Sulla valenza simbolica dell’architettura non ci sono mai stati dubbi a parte alcuni periodi oscurantisti, ma il lavoro di D. analizza ogni particella di questa attività senza doverla citare, come quinta, o meglio come “piega dell’universo antropizzato” all’infinito.
La cornice custodisce, e implementa l’essenza dell’arte, ne costituisce un elemento imprescindibile, di sottolineatura, racconta senza invadere il campo che delimita, senza particolari patemi d’animo ci parla del mondo che abitiamo, sia come “corpi umani” che, come “improbabili artisti”.
(All) Together (now).
Da molti anni avevo intenzione di scrivere un breve saggio sul rinnovato rapporto tra i pensieri filosofici e architettonici, in questo mutuo scambio contaminato che spesso ha segnato le svolte delle ultime avanguardie.
In principio, ovviamente c’era il linguaggio, con le sue sfaccettature disciplinari e le sue incerte etimologie, già nel concetto di “dire” si nasconde tutta l’ambiguità fonetica, semantica della parola che ci delimita e ci costringe a semplificare ogni azione.
Ho scelto alcune figure imponenti del ‘900 per cercare di rileggere le teorie più o meno recenti, vincenti, perdenti se non addirittura rimosse dal mare tempestoso delle idee. Insieme significa scegliere in simbiosi i modi di essere e le necessità del fare, oggi vediamo meglio quello che è accaduto ma non sappiamo se ci ha fatto bene tutto questo discutere, tutta questa confusione apparente: abbiamo per altro, scritto, disegnato e ideato tanto, troppo, senza un traguardo visibile e condiviso.
Ci siamo stati e ci siamo nutriti di queste migliaia di pagine e di migliaia di trappole intellettuali, per gioco, per narcisismo o per necessità.
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Oggi, soprattutto oggi, in questo duemilaventuno, quello che abbiamo letto ci appare necessario per delimitare il nostro agire troppo scomposto, ci aiuta a leggere la frantumazione del mondo e che fine hanno fatto i suoi pezzi, fuggiti verso altre certezze che servono ancora a rendere compatibile il nostro agire in questo presente permanente ed istantaneo, in cui la parola non sembra avere l’orgoglio semantico di un tempo.
Eppure la sfida va colta, questo senso di inadeguatezza che la teoria sopporta, che appare irreversibile sotto il dominio della Tecnica e dell’Economia ci invita a riprendere i discorsi interrotti, soprattutto ora che i concetti di tempo e quello di senso appaiono sfuocati, in balia di nuove dinamiche predatorie nelle scienze e nelle arti.
Oggi più che mai la resistenza ci appare un obbligo, il miglior mestiere praticabile per gli architetti che credono ancora in qualche forma di futuro degno di essere vissuto, da domani e per sempre.
“Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti (…) Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo”.
George Perec , Specie di Spazi
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