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Andrea Margaritelli: Amici ascoltatori ben ritrovati a tutti su One Architettura & Design, il podcast di Listone Giordano dedicato alla cultura del progetto. Sono Andrea Margaritelli e ho il piacere di dare il benvenuto nel nostro spazio Arena – oggi a distanza in versione digitale. Abbiamo due ospiti illustri, ma anche due cari amici. Stefano Casciani Direttore di Disegno, la nuova cultura industriale, che oggi intervisterà Piero Lissoni, architetto e designer internazionale talmente noto al nostro pubblico da rendere superflua ogni altra presentazione.  Grazie davvero Stefano per essere ancora una volta qui con noi e grazie a te, Piero, per aver accettato il nostro invito. Oggi parleremo di architettura, ma ci concentreremo in modo particolare sull’organizzazione di uno studio di progettazione così importante e articolato come lo Studio Lissoni, nell’attraversamento di una fase di emergenza del tutto inaspettata come quella che stiamo vivendo oggi a livello planetario.

Stefano Casciani: Qualche giorno fa ci siamo sentiti con Piero per parlare di certi progetti su cui stiamo lavorando da un po’ di tempo e il suo racconto della situazione attuale, e delle condizioni che tutti sappiamo, mi è sembrato molto interessante. Tanto che è venuta l’idea di fare questo primo colloquio per capire un po’ cosa significa oggi lavorare – si parla molto di smart working – ma secondo me c’è qualcosa di più. Piero sicuramente che ha uno studio a New York e uno a Milano e da tempo fa la spola fra i due continenti ha affrontato questo problema delle connessioni già da molto tempo. Quindi la domanda un po’ giornalistica è: quando hai pensato alla ristrutturazione dello studio, ormai diversi mesi fa, e avete impostato buona parte di questa collaborazione con i mezzi che stiamo utilizzando oggi; è stata una intuizione, una premonizione o fa parte di un nuovo modo di lavorare oggi? Come progettisti di tutti i livelli, perché, poi con lo studio lavorate molto nell’industrial design, molto nell’architettura e nella comunicazione.

Piero Lissoni

Piero Lissoni: Intanto buongiorno, buongiorno a tutti.  Grazie Andrea, grazie Stefano. Mettiamola così: è stato un colpo di fortuna, è stato un colpo di fortuna assolutamente non voluto. Lo studio vive queste due realtà, è come se avessimo delle finestre aperte in giro per il mondo o come se, noi, aprissimo e chiudessimo delle porte quotidianamente. I cantieri sono seminati ovunque. per nostra fortuna, i clienti sono più o meno in giro per il mondo e abbiamo la fortuna di avere due studi uno a Milano e il secondo a New York; quindi già da tempo ci si era posto il problema dei livelli di apertura e chiusura di queste porte. Molto spesso sono porte virtuali, sembra sempre di essere dentro una fiaba di Walt Disney; quindi tu apri e ti sposti da un luogo all’altro, o se preferisci, sei in un film di fantascienza. Bene, ragionando in questi termini, ci siamo resi conto che il nostro modello tecnologico – che fino a qualche tempo fa ha funzionato benissimo – stava cominciando ad arrancare e, per fortuna, a settembre abbiamo deciso di cambiare in maniera radicale tutto, diciamo, l’hardware dello studio per poter lavorare non tanto in smart working ma per permetterci di lavorare correttamente in giro per il mondo e da lì è partito il progetto. In realtà il progetto era già partito all’inizio del 2019 ed è stato finalizzato nel settembre del 2019. Sono arrivati nuovi server, tutti i nuovi sistemi di connessione fibra ottica a go go; il famoso ultimo miglio è stato, credo, la cosa più difficile che abbiamo dovuto implementare perché, come tu sai, viviamo in un paese misterioso, capace di fare delle cose talmente da science fiction e contemporaneamente da trogloditi totali. E’ andata che, alla fine, i dettagli secondo me assolutamente secondari sono diventati dettagli primari. A parte questo noi ci siamo messi, di fatto, nella condizione di poter lavorare distanti uno dall’altro già da settembre e poi siamo arrivati alla fine di febbraio con quello che abbiamo visto; quindi devo dire che è stato un colpo di fortuna per noi esserci adattati in precedenza. Abbiamo scelto di fare il cambiamento in virtù di una previsione, semplicemente volevamo lavorare meglio perché, già da prima, ci eravamo resi conto che ci mancavano degli elementi consistenti per poter lavorare in giro per il mondo ed eccoci qua.

Stefano Casciani: Beh, è stata comunque una scelta centrata e a questo punto anche lungimirante. Vuoi parlare un po’ di questa modalità diversa di comunicazione? Perché voi in studio siete un numero abbastanza alto.

Piero Lissoni: Siamo tanti! La cosa buffa, in tutto questa serie di movimenti, che i più realisti del resto sono stati gli architetti che, come tu ben sai, non sono delle aquile a meno che non siano dei nerd elettronici; ma non siamo proprio delle aquile elettroniche, siamo stati noi ad immaginarci un mondo. Erano anni che facevamo troppa fatica, con troppi spostamenti, troppi aerei, troppa gente che doveva spostarsi magari a 12 ore di distanza. Prendere un volo aereo per andare a fare una riunione di 4 ore, riprendere un aereo e tornare indietro. Ci siam detti “ma non è possibile, dobbiamo trovare un altro modo.” E’ vero che, quando lavori face to face, hai comunque un altro modello però non possiamo bruciarci la vita su delle cose magari non sostanziali, quindi dobbiamo trovare un sistema alternativo. Poi noi siamo tanti, a Milano sono più di 70 persone, a New York sono 15; quindi mettili tutti assieme a lavorare come se fosse un unico studio! Ecco, il vero problema è sempre stato quando noi muoviamo dei solenoidi di progettazione in giro per il mondo, che sia Pechino, che sia Mosca, che sia Tel Aviv o che sia New York, io in qualche maniera ho un pezzo dello studio che è spostato da un’altra parte. E quel pezzo dello studio è come se fosse a Milano. Deve ragionare alla stessa velocità e deve essere connesso con la stessa qualità, come se fosse in studio a Milano. E da lì nasce tutto quanto.

Stefano Casciani. Per te, personalmente, questo significa conoscendoti, tutto workaholic, questa situazione, pianificata da un lato e così costretta dall’altro, per te implica più lavoro o meno lavoro? Detto meglio, più tempo per la riflessione o no? Questo mi interessa molto.

Piero Lissoni: Bella domanda! Ti devo dire che rivoglio lo studio. Lo rivoglio, rivoglio l’organizzazione, rivoglio il mio mondo. Nel bene o nel male lo rivoglio. Perché adesso sono prigioniero. Con questo giochetto dello smart working, io sono prigioniero. Comincio magari un po’ più tardi la mattina, è inutile darsi dei tempi troppo stretti. La mattina comincio a lavorare alle 10 ma non finisco mai, cioè sono perennemente in connessione con qualcuno, perennemente disegno. Ci sono altri che dialogano con me, eccoci qui insomma. Questo è quello che mi sta succedendo e sto lavorando di più. Lo smart working – se è questa roba – sarà anche smart…

Stefano Casciani: Posso fare una battuta? Secondo me, lo smart working è smart soprattutto per chi fornisce queste tecnologie.

Andrea Margaritelli: Probabilmente, quello che stiamo vivendo, da un lato ci porterà anche ad emergenza finita a ripensare il nostro modo di lavorare. Avrà influenza sul nostro modo di lavorare, ma sicuramente porta a riflettere se tutto quello che facevamo prima, effettivamente, era tutto così necessario. Se gli spostamenti fisici fossero indispensabili.

Piero Lissoni: Forse si forse no. Io non sono sicuro di quello che accadrà domani, perché ogni giorno è un giorno nuovo; ecco la cosa che mi ha insegnato questo accadimento, questa tragedia, per alcuni versi, perché poi è una tragedia. Insomma, leggiamo un numero di persone ammalate e un numero di morti pesantissimo. Però, oltre a quello, ci ha insegnato forse qualcosa. Ci ha insegnato ad esempio che ci sono spostamenti che si possono diminuire, ma non si possono cancellare. C’è tutta questa smania, adesso, di rimanere a casa. Anche in futuro, di essere più smart, è secondo me un pochino montata; non mi voglio far fregare dall’emozione, io voglio ritornare ad avere gli incontri con le mie persone, con gli ingegneri, con le fabbriche, con i luoghi dove vengono costruite le cose – che siano essi oggetti o che siano essi edifici.

Diminuiremo una serie di viaggi, riusciremo forse. Adesso stiamo imparando a usare l’elettronica, a usare questa serie di strumenti che ci permette di essere lì in maniera più intelligente, ma non sarà la soluzione, come se fossimo in un romanzo di fantascienza. Noi continueremo, e spero che continueremo a viaggiare, spero di continuare, comunque, a vedere le persone de visu. Quindi, fisicamente scambiarci una stretta di mano e semplicemente discutere su un progetto su tutto una serie di dettagli. Diminuiremo sicuramente tutti quelli che, in passato, in maniera se vuoi un pochino generosa gli impegni venivano presi con molta, molta più generosità rispetto a quello che succederà in futuro. Quindi, diciamo che è l’occasione per rivedere i rapporti personali e una occasione per lavorare in modo più sostenibile, perché appunto sappiamo benissimo cosa implicano tutti questi viaggi intercontinentali: non solo lo stesse delle persone, ma il problema delle risorse ecc.

Stefano Casciani: Quindi tu non pensi che ci sia un modello ideale, come qualcuno, non da poco, cerca di vendere in cui il progettista non importa dove, non importa come, elabora, per cui c’è tutto un processo automatico. Metti dentro l’idea ed esce fuori, da un lato, la sedia o la lampada o l’architettura?

Piero Lissoni: Se sei un frescone si. Se sei uno frescone puoi anche crederci. Sai, negli ultimi anni sono uscite tutte una serie di deviazioni parallele, le chiamerei così, di gente che ha cominciato a farloccare sulla possibilità di auto prodursi, auto disegnarsi, auto vendersi, auto incensarsi, auto pubblicarsi; cioè voglio dire il rapporto diretto con l’industria, non mi interessa che sia grande o piccola, ma per me l’industria vale. Anche l’artigiano con l’industria è un interscambio formidabile, ma è un interscambio intellettuale e, nello stesso tempo, un interscambio sofisticato; io discuto con una controparte, una mia controparte, che dialoga con me e arriviamo a fare una cosa. Tutto questo mondo dell’auto convincimento, con rispetto parlando, un filino onanista non mi interessa tanto, un po’ come il sesso virtuale, se proprio non ne puoi fare a meno fallo. Però vogliamo mettere con quello vero? Bene. Tutto questo mondo dello smart working: fallo a casa, producici le tue cose, ma dov’è il punto di critica, dov’è il punto di interazione tra me e chi veramente poi, con una forza inaudita, si mette sul mercato? D’accordo, salti una serie di passaggi, però vuol dire carta bianca per tutte le peggiori scelleratezze. Perchè nell’attimo stesso in cui non c’è questa specie di feedback, di dialogo, di palleggio tra me e un altro, non ne veniamo più fuori vivi. Sai, qui si apre una specie di uovo e gallina, da anni sento discutere della potenza, della forza degli architetti, designer, creativi, ma noi non siamo assolutamente nulla se non abbiamo una controparte netta, che è la vera controparte e uso il termine controparte. Noi, senza gli industriali, grandi o piccoli che essi siano, non valiamo niente. Se non c’è la visione dall’altra parte noi possiamo portare una parte della visione, ma non siamo noi i visionari o, quando noi siamo i visionari, abbiamo bisogno di avere un visionario più visionario di noi che si applica e che rischia. Tutto questo mondo “famolo strano” non mi intessa, è una roba – con rispetto parlando – un pochino distante per quanto mi riguarda, forse sono antico. Ma in futuro, anche dopo il coronavirus e d’intorni, io ho bisogno di prototipi, ho bisogno di andare in cantiere a ragionare con gli ingegneri, ho bisogno – anche se nei progetti ad esempio di architettura – prototipiamo dai modelli ai disegni ai prototipi in scala a 1:1 prima di cominciare a costruire un edificio, per essere sicuri di quello che stiamo facendo. Poi, una volta che cominci non arrivi in cantiere e butti giù e ricominci, ma una volta che parti, parti e finisci. Però tutto il modello classico della progettazione, legata a questo interscambio strutturalmente fondamentale tra il progettista e chi fa le cose, è fondamentale. E guai a noi se lo dovessimo dimenticar per strada! Non dimenticarti che Brunelleschi, secondo la geografica classica, costruisce un modello della cupola, la mette dentro a un sacco e per non svelare quello che c’è sotto, la fa palpare dai suoi clienti, diciamoli così. E gli fa immaginare quello che ci sarà su. Questo è un aneddoto, sicuramente, ma la bellezza è che lui, su una cupola architettonica di quel livello, costruisce un numero impressionante di modelli.

Stefano Casciani: Esiste una differenza in questo momento tra progettare oggetti di disegno industriale e architetture? So che è una domanda un po’ leggera, però mi domando se ci sono delle differenze sostanziali tra i due ambiti rispetto a queste nuove tecnologie.

Piero Lissoni: Mah, ci sono delle differenze fondamentali, cioè l’errore è quello di pensare che i due mondi siano da trattare con lo stesso tipo di matrice, posso dirti che però io rimango legatissimo al modello di Rogers; quando lui parla della capacità di gestire la città, prima di lui ne parla la Bauhaus e prima ancora ne parla la scuola di Francoforte, quindi è possibile cambiare scala. Il cambio di scala è fondamentale, secondo me, per un architetto, per una capacità dell’architetto di pensare col cambio di scala. E’ cruciale altrimenti parliamo d’altro. Però, le responsabilità del cambio di scala sono completamente differenti. Ti faccio un esempio: se disegno una macchina del caffè o disegno un edificio, tecnicamente parlando, c’è sempre di mezzo una misura umana, ricordati Vitruvio, l’uomo ecc ecc. Le proporzioni classiche. C’è un essere umano che tocca una caffettiera, c’è lo stesso essere umano che vive nell’edificio. Disegna una caffettiera o, dall’altra parte, con una controparte che è la parte industriale con la quale dialogo, siamo i due a portare avanti un progetto. Entra sul mercato: se la mia caffettiera è una schifezza, oltre a fare il caffè schifoso è anche brutta da vedere, siamo in due ad aver corso un rischio. Ho una responsabilità nei confronti dell’industria, una responsabilità nei confronti delle persone che lavorano nell’industria e già lì sono preciso. Ma quando costruisco architettura, ho una responsabilità molto più ampia, c’è n’è uno che è contento della mia architettura perché me la paga, almeno lo spero, e c’è il 99% che la subisce nel bene e nel male. Poi, non entro nemmeno nel campo della razionalità del progetto perché questo, secondo me, almeno per quanto mi riguarda, insito nel modus vivendi; quindi cerco di essere razionale o irrazionale a seconda di quello che sto facendo.

Andrea Margaritelli: Un grazie di cuore Piero per il tempo che ci hai dedicato, soprattutto per l’atmosfera domestica, intima con cui ci hai accolto in casa tua in questo momento definito di tempo sospeso, grazie davvero.

Piero Lissoni: Sono a casa della mia fidanzata, che mi ha raccolto da Milano il 2 di marzo, per fortuna, perché se no sarei stato nella mia casa milanese prigioniero. Invece sono qui, sono al mare, per altro lo posso solo vedere dal terrazzo perché non possiamo nemmeno andare in spiaggia, figurati! Quindi hai la visione e la nostalgia del mare.

Stefano Casciani: Voglio solo aggiungere una cosa, mi sembra di aver fatto una buona scelta d’iniziare questa conversazione con Piero Lissoni perché, al di là di una conoscenza e di una stima che dura da moltissimi anni, penso che questo suo fondo di umanità sia molto importante e ci dice molte cose sul perché, forse, architetti e designer italiani, scusate se lo ricordo, possano fare quelle cose molto interessanti e profonde soprattutto che riescono a fare.

Piero Lissoni: Lo spero Stefano, io però ti posso aggiungere come chiusura finale: tutto il modello di smart working è fantastico, ma io voglio ritornare ad avere degli spazi umani. Quindi, se vado in spiaggia voglio starmene in spiaggia e al massimo il tablet lo uso per leggere i quotidiani o i libri, ma se sono in studio voglio starmene in studio e fare le cose che mi piace fare. Non credo a questa idea scellerata “stattene dove sei, lavora in qualche maniera, l’economia va avanti”. Secondo me è giusto che ci siano anche i luoghi dedicati a, magari li useremo un pochino meno, però voglio tornare ad avere i luoghi dedicati. Questa specie modello un pochino liturgico, anche del lavoro, lo rivoglio. E’ un mio diritto riaverlo.

Stefano Casciani: Grazie davvero, di nuovo, di cuore Piero per questa riflessione intima.

Andrea Margaritelli: Grazie a voi per averla condivisa con noi. Grazie a Stefano Casciani per averla animata e grazie agli amici ascoltatori di One Architettura & Design per essere stati con noi. Appuntamento alla prossima 


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