Paolo Portoghesi è stato l’ultimo architetto del neo-barocco del ventesimo secolo, nel senso che lui con la modernità non ha mai avuto a che fare, tanto profonda e antica era la sua parabola creativa, culturale e  se mi permettete esistenziale.

Un uomo d’altri tempi, coevo di ogni forma di trasgressione al classicismo fin dai tempi appunto di Borromini, figura che come nessuno ha cercato di imitare, senza volerlo, di reincarnalo senza imitarlo.

In questa caldissima giornata di maggio ci vengono in mente tre episodi per me, architetto e poi collega e amico.

Paolo insegnava a Milano, durante la contestazione e dopo, ed era stato nominato Preside, lui romanissimo, perché era semplicemente il più giovane Ordinario e dunque passibile di felicità progettuale e anti-accademica, il candidato perfetto a ventisette anni.

L’esame di Storia I fu semplicemente una partita a scacchi, tra trabocchetti, doppi sensi e calembour, e non vi dico come fini, anzi si, 29/30, nonostante lo scontro su Adolf Loos che lui mi ricordava sempre.

Poi lo avevo frequentato per scambi professionali negli anni ottanta, prima che esplodesse il suo capolavoro letterario, musicale, estetico e architettonico della “ Novissima”, prima mostra della Biennale a restare nel corso delle diciassette cronache successive, un pezzo di storia e un pezzo di Venezia.

Perchè Portoghesi scriveva direttamente nella storia, centinaia di testi straordinari, mostre, allestimenti e poi un catalogo fantasmagorico di “architetture della meraviglia”.

Moschee prima di tutti in Europa, anzi a Roma, e case spettacolari, quinte perfette per film (“dramma della Gelosia, è uno di questi).

Ma ora che è morto a 92 anni vorrei parlare esclusivamente della sua ossessione per Borromini ed è per questo che cito il capolavoro di Salvatore Sciarrino (1988) che trascrive le parole che il sommo artista verga nel sangue mentre attende il medico, e successivamente la morte, e ho la certezza che questo tipo di orazione auto-dettata sarebbe piaciuta al nostro “spirto borrominiano”.

 Guardate ad esempio dove viveva (il borgo di Calcata, vicino Roma), e quanto lontano fosse quel luogo scelto dalla contemporaneità che forse per lui rappresentava una mediocrità istantanea lontanissima dalla densità della storia, della natura del contesto dove le nostre radici si sovrappongono ai nostri avi, e ai nostri alberi.

Paolo era uno storico straordinario, e di cultura enciclopedica e trasversale, densa e mai banale.

Viveva sopra le righe come un principe siciliano, e mi piace paragonarlo all’esteta decadente inarrivabile, quel Fabrizio Salina: solido nella storia aristocratica ma proiettato definitivamente verso lo spazio fisico del mondo e del futuro.

Il paragone con Zevi è impossibile come i loro incontri/scontri, visioni logiche, poetiche e culturali antinomiche e inconciliabili, ma così potenti da aver caratterizzato  profondamente e per motivi diversi gli ultimi decenni.

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Come sarà stata dunque questa notte così diversa dalla febbrile attesa suicida di Borromini, e la tua che immaginiamo, serena e piena di immagini, di suggestioni, di altre idee da appuntare sul taccuino?

Dunque Paolo ti sarebbe piaciuto finire come Francesco, nella rabbia, nella disperazione, nell’invidia per un uomo solo, grande grandissimo e invulnerabile come Bernini? Non ho avuto tempo per chiedertelo, e mai nessuno lo saprà, così.

L’ultimo episodio è il più impegnativo per quanto mi riguarda una riedizione e una collaborazione alla (Nova) Novissima che voleva allestire con la nostra collaborazione in un bellissimo spazio milanese, ne conservo gelosamente lettera autografa in cui chiede questa intensissima collaborazione.

E’ morto forse l’ultimo dei moderni, forse con lui finisce una volta per tutte, il ventesimo secolo dopo tutto questo infinito dopo-guerra, la guerra che ci siamo fatti tra tutte le fazioni è definitivamente scomparsa e con questo Signore elegante, come dicevo prima anche noi “fummo gattopardi”, e che parlava sempre con voce pacata, profonda e lontana dalle camarille inadeguate delle “scuole e scuolette” del secolo breve.

Ora Paolo potrai ascoltarla con attenzione, e l’opera di Sciarrino che conosci, quei venti, ventisette minuti indicibili dove il genio si racconta nell’ora estrema, cancellando qualsiasi volontà di esserci, di esistere, di competere, di confrontarsi, perché il talento non sopporta la confusione sterile del paragonarsi, proprio perché nasce per diventare unico, irripetibile.

Ecco Maestro  se mi ascolti, mentre ascolti Sciarrino sappi che sei stato capace di rendere la nostra epoca, (lunghi e lunghi decenni infiniti, confusi e controversi) intrisa di quella ricerca di bellezza che con la sua fragilità non vuole e non può confrontarsi con nessun altro argomento.

Questo è il segno indelebile che hai lasciato in tutti noi architetti, che è più profondo della ferita inflittasi da Borromini la notte di qualche secolo fa.

Morte di Borromini (1988). Salvatore Sciarrino

per orchestra con lettore

« Io mi ritrovo così ferito da questa mattina dall’otto ore e mezzo in qua in circa sul modo che dirò a Vostra Signoria et è che ritrovandomi io ammalato dal giorno della Maddalena in qua; che non sono più uscito eccetto lo sabato e domenica che andai a San Giovanni a pigliar il Giubileo, stante detta mia indisposizione, ier sera mi venne in pensiero di far testamento e scriverlo di mia propria mano, e lo cominciai a scriverlo che mi ci trattenni da un’ora incirca dopo che ebbi cenato e trattenendomi così scrivendo col toccalapis sino alle tre ore di notte in circa.

Maestro Francesco Massari, che è un giovane che mi serve in casa et è capomastro della fabbrica di Santo Giovanni de’ Fiorentini, della quale io sono architetto, che se ne stava a dormire in questa altra stanza per mia custodia, che già si era andato a letto, sentendo che io ancora stava scrivendo et avendo veduto che io non avevo smorzato lo lume, mi chiamò con dire: “Signor Cavaliere: è meglio che Vostra Signoria smorzi il lume e se riposi perché è tardi e il medico vuole che Vostra Signoria riposi”. Io gli risposi come io avrei fatto a riaccendere il lume per quando mi fussi svegliato et esso me replicò: “Lei lo smorze, perché io l’accenderò quando Vostra Signoria si sarà risvegliato”, e così cessai di scrivere; mesi da parte la carta scritta un poco et il toccalapis col quale scriveva; smorzai il lume e mi mesi a riposare.

Verso le cinque in sei ore incirca, essendomi risvegliato, ho chiamato il suddetto Francesco e gli ho detto: “È ora di riaccendere il lume”, et mi ha risposto: “Signor no”. Et io avendo sentita la risposta mi è entrata addosso l’impazienza subito ho cominciato a pensare se come potevo fare a farmi alla mia persona qualche male, stante che il detto Francesco mi aveva negato di accendermi il lume et in questa opinione sono stato sino all’otto ore e mezzo incirca, finalmente essendomi ricordato che avevo la spada qui in camera a capo al letto et appesa a queste candele benedette, essendomi anche accresciuta l’impazienza di non avere il lume, disperato ho preso la detta spada, quale avendola sfoderata, il manico di essa l’ho appuntato nel letto e la punta nel mio fianco e poi mi sono buttato sopra di essa spada dalla quale con la forza che ho fatta acciò che entrasse nel mio corpo sono stato passato da una parte all’altra e nel buttarmi sopra la spada sono caduto con essa spada col corpo quaggiù nel mattonato e feritomi come sopra ho cominciato a strillare et allora è corso qua il detto Francesco et ha aperto la finestra che già si vedeva lume me ha trovato colco in questo mattonato che da lui e certi altri che lui ha chiamati mi è stata levata la spada dal fianco e poi mi sono stato rimesso a letto et in questa conformità è successo il caso della mia ferita ».

Francesco Borromini


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