“Mura Sensibili. Psicologia dell’Abitare” (ed. SplendidaMente) a firma di Donatella Caprioglio rappresenta un supporto pratico per i professionisti dello spazio costruito e apporta strumenti psicologici utili ad interagire con il cliente. É un libro pubblicato a dieci anni di distanza da ” Nel cuore delle case” – molto amato da una folta schiera di lettori – che ha segnato l’inizio della riflessione sul tema dell’intimo rapporto tra “interno ed esterno” e acceso l’entusiasmo degli addetti ai lavori, tanto da dar vita ad un corso universitario alla facoltà di Psicologia di Padova incentrato proprio sulla psicologia dell’ abitare.
Mura Sensibili è la naturale evoluzione e l’approfondimento teorico e pratico del primo libro.
Progettisti e architetti non costruiscono solo spazi e luoghi fisici, non sono più tenuti a tirare su semplicemente mura (se mai lo siano stati). La loro virtuosa missione richiede di scavare nell’intimo umano per poter costruire spazi dell’anima, prima ancora di architetture fisse.
“Nel cuore delle case. Viaggio interiore tra case e spazi mentali. Come e perchè scegliamo la nostra abitazione” lungi dall’essere un libro di ordine tecnico, costituisce altresì un potente strumento di lavoro nelle mani di progettisti sensibili e capaci di ascolto. Ha segnato l’inizio della riflessione sul rapporto tra psiche e architettura, tra costruzione della propria identità e luogo dell’abitare, solleticando l’interesse degli addetti ai lavori.
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Un’intima riflessione, un viaggio, una serie di fotogrammi in lento movimento di luoghi dell’abitare legati a doppio filo all’intima essenza di chi li inabita. È davvero sorprendente notare le sensazioni che si percepiscono da una casa eppure è così. In questo viaggio della memoria, scorrono immagini vivide di case d’infanzia, rifugi dell’anima, residenze vuote o piene di ricordi, modelli pratici, architetture esistenti in qualche parte del globo, rimandi storici e universali. Case chiuse in se stesse o porte che si aprono al mondo, un nastro cinematografico di architetture antropologiche, vivificate da donne e uomini alla ricerca di emozioni e felicità.
Il verbo “abitare” spande intorno a sé l’aura di un duplice significato; etimologicamente derivante dal latino habitare – esplode in forma iterativa il verbo habere – nella sua versione di avere continuamente o ripetutamente. Ed è lo spazio l’oggetto di questa costante ricerca dell’avere, dell’abitar-ci. Il possesso e la frequentazione degli spazi rientrano nell’ambito delle competenze delle discipline sociali e umanistiche. Nel suo significato radicato, concreto, interpretato da Heidegger, l’abitare si fonde con il costruire. “Far abitare” è l’essenza del costruire, la costruzione investe l’essenza stessa del costruire è il ‘far abitare’. Il tratto essenziale del costruire è l’edificare luoghi mediante il disporre i loro spazi. Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire”. (M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi. Ed. it. a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1976)
Quindi, se da un lato la disciplina del progetto è a valle del senso dell’abitare e rientra nel dominio del “fare” di architetti e designer, dall’altro non si può non tenere in considerazione la dimensione più sottile che interpreta l’abitare come esperienza.
Il racconto di noi stessi e della nostra storia – intima, di famiglia, di comunità – abbraccia ed entra di prepotenza negli spazi rendendoli nostri, apportando ricchezza e conoscenza sull’abitare. L’interesse crescente da parte delle scuole di progetto nei confronti di una disciplina quale la psicologia dell’abitare amplifica lo sguardo non solo verso gli spazi e gli oggetti, ma serve da guida all’elaborazione di indagini sempre più multidisciplinari che interessano tutti i professionisti: siano essi architetti, designer o tecnici del costruire.
Indagini che guardano al progetto e si alimentano di una visione più ampia che possa decodificare cambiamenti sociali, culturali, comunicativi in essere e assecondare le metamorfosi di costumi, stili di vita e ambizioni personali e collettive. Il futuro della progettazione dovrà avventurarsi nella perlustrazione di vasti ambiti di sapere ancora sconnessi tra loro: sociali, psicologici, emotivi e percettivi che delineano un nuovo orizzonte dell’abitare. La psicologia dell’abitare promossa da Donatella Caprioglio diventa quasi una premessa necessaria a dar nuovo respiro alla definizione semantica del termine.
La domanda scolpita nella pietra, volta a meglio comprendere come abitiamo le nostre case, richiede una diversa chiarezza su qual è la mia casa? per poi interrogarsi sul dove e come deve essere. Un amalgama di mondo interiore e realtà esteriore.
L’elegante ed esile Donatella Caprioglio (che fa rivivere ai miei occhi l’icona di stile Audrey Hepburn), professoressa, psicoterapeuta infantile, scrittrice e divulgatrice, è un’anima nomade, errante, in continuo movimento tra dimensioni diverse dell’abitare, conciliando per lavoro e per elezione luoghi tra loro sorprendentemente lontani: Parigi, Venezia e gli incantati trulli della Valle d’Itria in Puglia. Una “erranza” che lei definisce “fortunata” in quanto foriera di ricchezza e opportunità di crescita e conoscenza. Il piccolo ed emozionante libro “Nel cuore delle case” si radica in questo peregrinare dell’anima – scelta consapevole e saldamente perseguita – tra quartieri, paesi, culture.
La psicologia dell’abitare è destinata a diventare una colonna portante dell’impianto progettuale del presente, nonché del futuro, strumento di lavoro ed interpretazione per una crescente comunità di giovani – e non solo – architetti interessati ad indagare come lo spazio fisico della casa sia specchio – a volte opaco – del nostro vissuto interiore, uno spazio mentale spesso misterioso e frammentato. Ci racconta Donatella che quando entra in casa di qualcuno riesce a guardare all’interno del perimetro vitale di colui che la abita.
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Una lunga ed intensa esperienza l’ha condotta ad avvicinare una variegata umanità, persone che non abitano la propria casa poiché non abitano il loro desiderio, non abitano sé stessi. Per questo ha cristallizzato questo pensiero nella diade “abitare/abitarsi”.
Esiste una patologia dell’abitare, che si traduce in una sorta di “mal di vivere” che affligge persone incapaci di abitare la propria pelle e, per questo, vivono la dimensione domestica in maniera passiva, anaffettiva, “non-curante”, indifferente. Questa comporta una povertà dell’abitare e dà vita a case non funzionali, ultimo anello di una catena che inizia con l’incapacità di ascoltarsi e decodificare i propri desideri. Spetta agli architetti mettere in campo delle armi adeguate capaci di intercettare e riprodurre i bisogni più profondi in volumi stereometrici. Attraverso questa disciplina la casa può diventare un potenziale strumento terapeutico, lo diventa nei momenti di crisi quando sentiamo il bisogno di fare ordine, pulire, cambiare arredamento e perfino traslocare in un nuovo guscio.
In realtà, ciò che cerchiamo di fare, è mettere ordine dentro noi stessi, guarirci. La casa è dunque soggetto e oggetto di terapia benefica per il singolo, per la coppia, per la famiglia allargata.
Il processo – a volte emotivamente logorante – di costruire casa, il luogo del vivere quotidiano, è intimamente connesso alla costruzione della nostra identità.
“La casa è la metafora del nostro mondo interiore. Dal modo che abbiamo di abitarla capiamo il legame profondo che ci lega con il nostro inconscio. Troppo piena o troppo vuota , maniacale o disordinata, la casa parla di noi e della nostra vita. Basta entrare in casa per vedersi […]”.
L’importanza della casa – per l’autrice – non risiede tanto nelle mura, quanto nella potenzialità inconscia di sapere accogliere e dare risposta a dei bisogni, e quindi chiedersi “che bisogni ho”. Sono in molti a non chiedersi più cos’è che si vuole, cosa piace, è importante, invece, non sottovalutare i propri bisogni e poggiare la prima pietra su un semplice interrogativo: come ti piacerebbe la tua casa?
Il rapporto con il proprio habitat è, dunque, di natura emotiva. Significa tessere una fitta rete di relazioni olfattive, tattili, sensoriali che ci legano ad un luogo e che si spezza nel momento in cui lo lasciamo.
A pensarci bene, stiamo esplorando una dimensione che ci accomuna ad altri mammiferi, abituati a marcare il proprio spazio vitale con segni fisici, così come noi utilizziamo rituali simbolici più evoluti, investendoli di nuovi significati. Non occupiamo solo uno spazio, ma lo abitiamo con le sue infrastrutture domestiche, le sue architetture olfattive e misteriosi ventri oscuri.
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Ciò indica qualcosa di ancestrale, che va ben al di là dell’organizzazione e delle primarie azioni di difesa, utilizzo e riempimento dello spazio stesso. Una connotazione più strettamente antropologica conferisce significati, ne fà oggetto di relazione interpersonale e, spesso, proietta una dimensione affettiva che ci riporta al grembo materno.
Non esiste una regola unica, un singolo modello di progettazione in linea con le tendenze del momento, le architetture dell’abitare sono molteplici e multietniche tante quante sono le persone che abitano i luoghi.
Personalizzare uno spazio significa anche dotarlo di un volto umano, progettare superfici, arredi, scegliere complementi e oggetti che siano portatori di significato; così come rendere vivo uno spazio significa entrare a far parte dei volumi, calpestare la superficie, riempirlo di sé attraverso l’unicità che ci contraddistingue. Un’abitazione non è un solido vuoto, un corpo geometrico tridimensionale, ma un “iperoggetto” che abbraccia un mondo interiore, oltre che esteriore, intriso di relazioni tra abitante e abitato. Ai due riferimenti cartesiani utili ad identificare punti nello spazio, ne va aggiunto un terzo, che punta verso l’alto, ad abbracciare il complesso intreccio relazionale di varia natura.
Questa ricchezza di dimensioni fa la differenza tra il progetto di una casa rispetto a quello di un altro tipo di architettura urbana. Funzioni, cose e persone sono tutte diverse singolarmente. In un’abitazione si possono srotolare funzioni diverse o svolgere le stesse funzioni in maniera diversa per vissuto, esperienza, cultura personale. Questi ulteriori assi dimensionali, non geometrici bensì antropologici, ne caratterizzano gli spazi e li rendono sempre somiglianti al loro referente umano, inevitabilmente. L’abitazione e l’abitante sono per sempre legati dalla comune radice etimologica, intimamente e reciprocamente vincolati, nel senso, nei fatti e nelle forme. Anche nelle forme dell’architettura e del progetto degli interni.
La genesi dell’architettura scaturisce dalla necessità di creare un interno sicuro – sia esso in principio una grotta, una cappnna o una tenda – in contrapposizione ad un fuori ostile. Uno spazio che nel tempo ha assunto una pluralità di forme e funzioni abbattendo pareti, eliminando corridoi, anticamere e salottini a favori di piante aperte e aree ibride e mutevoli. Quel dentro era un’abitazione. Un luogo e un riparo sicuro dalle minacce e nemici esterni, dove si svolgevano attività simili alle nostre nella sostanza: riposare, aver cura della prole, difendersi e proteggersi come individui e come gruppo.
Abitare uno spazio, forse, in quel caso aveva più significati primari che simbolici, sociali o di rappresentazione di sé: fa parte della nostra storia, senza soluzione di continuità.
L’esperienza percettiva dello spazio ha implicazioni sufficienti per godere o soffrire di quel rapporto, che ci consente di apprezzare le forme di un interno architettonico o di subirle se lo spazio nel quale siamo immersi sprigiona sensazioni negative. Questa dimensione esperienziale relaziona il vissuto individuale con lo spazio dove il corpo è contestualizzato e si apre ad un’ulteriore modalità di relazione tra persona e spazio vissuto. La dimensione personale dell’esperienza di spazialità trova nell’abitare il proprio ideale compimento a patto che si radichi in una situazione di armoniosa attuazione, con modalità, tempi e significati adeguati alla relazione profonda tra spazio e persona. Ogni casa raccontata dall’autrice ha un’anima che scalpita per venir fuori dalle pagine del libro. Se – come sosteneva Le Corbusier – la casa è una machine à habiter, per sua natura assai complessa e in continua evoluzione, si avvicina alla metafora dell’essere umano inteso a sua volta come macchina vivente, anch’essa in continua evoluzione. Quale sarà il loro possibile punto d’incontro (o scontro) in futuro?
Il rapporto tra uomo e abitazione è inesauribile e, al tempo stesso, consuma reciprocamente il soggetto e l’oggetto del contendere. Come scrisse l’architetto Adolfo Natalini: * “vivere in casa non è un’operazione spontanea, naturale, ma richiede una grossa dose di cultura, di raziocinio e di poesia. Ogni casa si struttura come la proiezione spaziale dei desideri, delle ambizioni, delle necessità e delle storie dei suoi abitanti. La casa diventa un’immagine: il ritratto di chi la usa. E come complesso di spazi, oggetti, immagini e intenzioni, si sovrappone agli inquilini, modificandone il comportamento”.
Fonti:
- “Nel cuore delle case. Viaggio interiore tra case e spazi mentali. Come e perchè scegliamo la nostra abitazione” di Donatella Caprioglio, Ed. Il Punto d’incontro 2015
- “Mura Sensibili. Psicologia dell’Abitare” di Donatella Caprioglio, Ed. SplendidaMente 2021
- *Sull’ABITARE a cura di Stefano Follesa
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