“il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione”.

Michel Foucault.

Da oltre trent’anni il problema più spinoso nel restyling delle nostre città sono le famigerate periferie. Nome che riassume in se tutto il male sociale e culturale della nostra epoca.

Nate per insediare classi deboli nelle condizioni di passaggio dall’economia rurale a quella urbana, sono diventate in mancanza decennale di manutenzione: monumenti desueti di una cultura dell’abitare ai limiti della dignità e troppo spesso esempi dell’assenza di ogni accettabile condizione di convivenza civile.

Nonostante questa consolidata valutazione culturale, estetica e urbanistica, Milano ha sempre fatto un’enorme fatica a sostituire “pezzi di se stessa” altamente degradati, come se dovesse mantenere una memoria negativa di un’idea abitativa da neorealismo (e in effetti molti film sono stati girati in quei cortili).

LEGGI ANCHE – A new Bauhaus revolution

Le cause sono molte, e non soltanto economiche, ma anche di natura ideologica,concettuale o di semplice sottovalutazione del problema.

Il quartiere Giambellino di Milano, ad esempio non è un quartiere, è un mondo a parte; dai tardi anni 50 è stato abitato e attraversato dal Cerutti a Vallanzasca, dai fondatori delle Brigate Rosse a Battisti (Lucio), da  Berlusconi, Abatantuono a Gaber e Francis Turatello.

Eliminate le contaminazioni romantiche potremmo considerarlo come possibile momento di elaborazione di una nuova “etica urbana per l’estetica urbanistica”, il vecchio campo di battaglia tra Lorenteggio, Odazio, Largo Brasilia, e i campi verso il Naviglio a sud e i quartieri dei “sciuri” a nord, è pronto (?) per una radicale trasformazione.

Foto storica quartiere Giambellino Milano

La sfida roboante, a metà tra Capitan Fracassa, e il Barone di Munchausen il Comune ha presentato un progetto impegnativo e articolato, mentre Renzo Piano continuava ad elaborare le sue delicate riflessioni col G124 (Giambellino 124), ma ci permettiamo di far osservare che questi 4000 abitanti meriterebbero qualcosa di più, secondo me, semplicemente un quartiere nuovo, contemporaneo.

L’impianto urbanistico del 1938 è a dir poco esausto, schiacciato dal sovrapporsi di emergenze di ogni natura, bisogna avere il coraggio politico di cancellarlo, andando oltre il make-up stilistico presentato recentemente.

Un ambito urbano che è sempre stato rimosso, dimenticato dalle amministrazioni, un’enclave sociale marginale, addirittura misterioso, leggendario nella sua complessità umana.

LEGGI ANCHE – Vico Magistretti, dietro l’angolo del Design

Guardare al Giambellino del futuro è come ricominciare a tessere la trama nuova della città, piuttosto che rammendarla, darne una visione originale e compatibile con le nuove esigenze abitative che cambiano in egual misura per i ceti abbienti che per meno abbienti.

Quel pezzo di passato può avere un cuore digitale e deve ambire ad una luminosità progettuale, come a dimostrare che la dove c’erano “gli ultimi” può nascere e consolidarsi un’idea nuova di residenzialità esente da retorica pauperista.

E’ uno dei luoghi deputati a veder crescere la Milano del terzo millennio, più umana e contemporanea, perché la periferia possa diventare, finalmente, semplicemente città.

Giambellino come metafora, come aggettivo per una vera trasformazione dove l’angoscia urbanistica del passato non venga contrabbandata per evoluzione e rinascita sociale, è un percorso diverso, è un impegno totalmente nuovo rispetto al passato.

Il Giambellino, metonimia delle periferie del terzo millennio non possono non essere considerate  parti fondative della nuova città, dunque cominciamo a non chiamarle come nel passato.

Ci sono scali immensi che diventeranno l’housing sociale del futuro e Reinventing cities dove migliaia di metri quadrati diventeranno studentati, residenze a costi controllati, e temporanee, co-working e co-housing, senza lesinare in servizi e in investimenti estetici, un città che si rinnova dal suo interno e che trasforma la sua storia in desiderio, in stupore.

LEGGI ANCHE – L’offerta antropologica del Borgo Italiano, nel bivio concettuale tra città e campagna.

Questo potrebbero essere “il vecchio e il nuovo” dell’edilizia sociale, un passato che si ridefinisce ed una contemporaneità che investe su nuovi e più consapevoli modalità di ogni forma di residenzialità: giovani, anziani, persone disabili e fragilità psicologiche assortite.

Una casa per tutti in un luogo indifferente all’ubicazione o alla distanza da piazza del Duomo, questo è fare urbanistica per i nuovi quartieri della città.

E per favore non chiamatela edilizia popolare o altro, la città fallisce il suo scopo quando i luoghi meno attrattivi diventano un problema sociale e antropologico, questo invece deve diventare argomento per nuove socialità e per differenti distribuzioni di servizi e centri culturali.

Musei lontani dal centro, punti di eccellenza, università e altro devono fare da corredo a questa nuova immagine che cancella l’atmosfera da “miracolo a Milano” che ormai compie felicemente i settanta anni dalla sua rocambolesca realizzazione.

La città che si estingueva nel reticolo delle deprimenti smagliature, dove i confini segnavano un passaggio tra luoghi e nomi diversi, deve capire l’importanza sociologica di questa rinascita, individuare i territori dove sfidare l’omogenea retorica delle consuetudini e delle dicotomie: vecchio/nuovo, ricco/povero, bello/brutto.

Non mi pare difficile se sapremo rivalutare una regia pubblica illuminata e innovativa capace di rilanciare anche una certa idea di tradizione, una proverbiale capacità tutta meneghina di trovare strade nuove prima degli altri competitor urbani che ringhiano alle nostre porte.

LEGGI ANCHE – Nella mente imprevedibile di Dante O. Benini

Milano è la sommatoria delle bellezze contrastanti e contradditorie e la sua identità vive di queste differenze, che non possono e non devono diventare omogenee, anzi da questa ricchezza nasce la nostra capacità di trasformazione etica ed estetica.

Giambellino o Lorenteggio, e tutta una serie di metafore linguistiche devono rappresentare altrettanti poli di rinascimento di una città che non potrà sopportare un’opacità culturale ed urbanistica che molti spacciano per una gigantesca cantierizzazione indifferenziata: il volume non sempre rappresenta compiutamente un’idea.

Oggi non si può più rivedere quella separazione classista ed economica che ha creato quegli invisibili territori paralleli, che la città del futuro sarà sicuramente capace di eliminare, Milano e di tutti quelli che la amano siano essi costruttori, architetti e cittadini, meritano molto di più.

Riferimenti concettuali dell’autore:

I quartieri dell'(altra) città: un secolo di architettura milanese nei progetti IACP-ALER, Maurizio De Caro, Electa, 2000.


Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato:

Exit mobile version
×