(primo maggio duemilaquindici, mattina, primo febbraio duemilaventuno,mattina)
Il primo maggio del duemilaquindici, al mattino, faceva freddo a Milano, nonostante fosse primavera inoltrata, il cielo coperto e livido di una pioggia pronta a bagnare la grande inaugurazione.
L’Expo delle meraviglie cominciava con un clima anomalo, e io c’ero, prima che aprissero i cancelli agli ospiti giunti da tutto il mondo, ai capi di stato, agli ambasciatori, alle autorità, ai curiosi.
Ho un ricordo nitido di quella giornata, e della sequenza di sguardi che accompagnavano la teoria di padiglioni appena ultimati, a far da cornice al gigantesco decumano contemporaneo.
Certo che dopo sei anni, e troppe differenze, non è facile stabilire quali fossero le finalità di quella immensa kermesse, e quindi l’esibizione di un mondo, di tutte le nazioni del pianeta che facevano a gara per mostrarsi agli altri e guardare e creare dialoghi, e relazioni, costruire legami, e raccontare, raccontandosi.
Tutto questo in cento ettari di città e per centottanta giorni, un riassunto del tempo presente e una presunzione del futuro, possibile e prossimo.
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Questo appariva, questo mi sembrava, ma è stato tanto tempo fa, troppo perché io possa ricordare il sogno di costruire tutte quelle architetture, finalizzarle nello spazio neutro di una vecchia campagna, e cercare di dare al transeunte il senso del permanente indissolubile.
Il bosco incontaminato dell’Austria, la gigantesca rete elastica del Brasile, gli specchi kitsch della Russia o la sinuosa cittadella degli EAU, e poi cluster, pubblicità ridondanti (molto fiera campionaria anni sessanta) e potenze economiche esibite in maniera difforme ma esteticamente muscolari.
Una forsennata dichiarazione di una peculiare idea di bellezza, istituzionale, ogni stato che si mostra per dichiarare nello spazio di una breve visita, quello che vuole offrire, quello che può esibire, senza limiti e senza paure, tanto è solo un’esposizione universale che verrà smontata in autunno.
Sembra una città proprio perché non lo è, sembra quello che vorrebbe essere senza cercare di esserlo, una metafora di una metafora, un mondo in miniatura dentro un gigantesco quartiere-universo che delimita lo spazio delle nazioni/espositrici nella sequenza geometrica degli allineamenti.
Tutti hanno lo stesso spazio, lo stesso rettangolo da “colonizzare”, ma nessuno vuole assomigliare a nessuno.
Architetti, paesaggisti, designer e direttori creativi plasmano le differenze di ciascuno dei mondi che in qualche migliaio di “metriquadrati” deve stupire, vincere la sfida in brevissimo tempo.
Ora sembrano rovine, padiglioni bombardati dagli esperti demolitori, capaci di annientare in qualche mese, gli sforzi, il lavoro e le sfide di anni, di portare tutto alla grande piastra indifferenziata dove sorgerà il quartiere del futuro, quello vero, e questo sarà per sempre.
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Nell’immagine odierna di un grigio solido, classica di una giornata invernale tutto appare surreale, operai, qualche tecnico col giubbetto colorato e le antiche vestigia dell’esposizione che collassano sotto i colpi sapienti di macchine mostruose, minotauriche.
Eppure volevamo che le Architetture di servizio, enormi volumi di legno di abete potessero restare come memoria di quell’evento, come manifesto di un modo di costruire “circolare ” e pronto per essere recuperato e trasformato in materia altra, solo cambiandone il suono.
Come un museo, o uno spazio di colloquio in un carcere, o una scuola materna in una zona terremotata, o un monumento capace di dialogare con una piccola piazza, un centro per accogliere i profughi sulle scogliere di Lampedusa.
Questo non ha trovato spazio e tempo per poter essere realizzato, e dunque resterà l’idea descritta dettagliatamente in una relazione tecnica, sbiadita e consumata dagli anni, poco male perché noi continuiamo a credere che quello che avevo scritto si può realizzare, e forse qualcosa accadrà.
Un bellissimo progetto cambierà lo spirito dell’area rendendolo più urbano e realistico per l’impianto del futuro, centri studi, luoghi di ricerca, università e Hotel faranno di quell’area la sperimentazione più spinta di una certa idea di città che dal presente permanente si proietta verso i prossimi decenni, con una popolazione residente di decine di migliaia di persone.
Il legno di abete della vecchie architetture di servizio tornerà a nuova vita in altri luoghi e dentro altre funzioni, come a conservare lo spirito ideale di chi l’aveva scelto, voluto e imposto come percorso compositivo e programmatico, e quell’essenza è già una risposta concreta alla necessità di immortalità che l’architettura richiede.
Non è uno scontro (inutile) tra visioni della città e solo lasciare spazio ad una naturale evoluzione che il tempo richiede e che trova in alcune memorie fisiche, la necessità di stabilire dei principi etici, perché anche i materiali hanno questa caratteristica, prima di diventare componenti dell’esplosione estetica.
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Ci siamo stati, e siamo contenti di riprendere un discorso progettuale dopo una lunga pausa, di affrontare, sia pure limitatamente la nostra sfida al “temporaneo permanente” che vive, e si trasforma dando senso a nuovi luoghi.
Questi spazi forse ricorderanno quanto è accaduto in quella mattina di maggio, e questa non è nostalgia ma volontà di dare al progetto, una nuova possibilità, e al legno di abete che lo compone nella sua totalità, quelle caratteristiche che la nostra contemporaneità richiede.
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