Ora che Rem Koolhaas ha compiuto 75 anni anni possiamo dire che per mezzo secolo ha cercato di reinventare le avanguardie, di rivitalizzarle, di resuscitarle, ma invece di diventare contemporaneo è rimasto l’ultimo protagonista dell’architettura moderna.
Non fatevi ingannare dalle forme strambe e costrette all’estremismo, i suoi eroi, e i suoi maestri erano quelli della prima metà del secolo scorso.
Rem Koolhaas ha capito subito quasi da cool-student londinese all’AA – ovviamente e dove se no? – che con la morte dei maestri, la teoria e la pratica del progetto erano diventate praterie da colonizzare.
Deserti sconsolati senza stelle polari capaci di guidare, e sceglie di diventare un personaggio tra il cinematografico – lui che nasce critico di quella disciplina – il giornalista, e il santone antipatico.
Negli anni settanta, verso la fine del mondo conosciuto, l’Olandese Volante esprime un desiderio e inventa la prima rete professionale della storia dell’architettura.
Non apre uno studio, ma tre, e in luoghi essenziali.
OMA nasce a Londra, e poi a Rotterdam, e dunque ad Atene – non conosciamo l’esatta entità professionale concreta di questi uffici – ma intanto parte l’inarrestabile costruzione, del Mito.
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Il più grande e controverso, i suoi disegni imbarazzano prima che stupire, frutto di una sapiente miscellanea di plagi, ma così intelligenti e affascinanti che il mondo della cultura, da subito gli perdona qualsiasi cosa, anche scambiare Derrida con Malevic, ma che importa, nella nuova decostruzione tutto è permesso.
Rem lo sa, e si appresta a sbancare i casino immobiliari di tutto il mondo, dopo essere partito da una villetta vuota alla periferia londinese e dove riusciva a sbarcare il lunario vendendo le sue vedute prospettiche improbabili e scorrette.
Non vince nessun concorso ma tutti si sbracciano per applaudirlo, ma non è ancora arrivato il Delirio.
Nel 1978, esce “Delirious New York. A retroactive manifesto for Manhattan”, libro che diventerà lo spartiacque dell’architettura degli ultimi decenni, e in 308 pagine, tutto il resto implode nello scontato, passa in secondo piano.
Ecco vedete, con l’uomo che ha disegnato la Casa da Musica, “fottendosene del contesto”, di Porto, e grattacieli a Pechino, o il simbolo della UE, e poi Prada e bla bla, non si riesce mai a mantenere un profilo critico rilassato, perché “l’architetto più famoso del mondo” è odiato da tutti, anche se perfino i suoi acerrimi nemici lo considerano il degno erede di Le Corbusier, che certo non era un esempio di simpatia e disponibilità.
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E questo gli crea un’aura quasi ectoplasmatica, imprevedibile, immateriale, Rem non esiste ma le sue parole sì, i suoi segni incidono nella carne viva della contemporaneità come un monito, lui non crea architetture, “emana editti”, come un annoiato “papa laico” della cultura progettuale.
Nessun progetto ha mai ricevuto un plauso sincero da nessuno, solo insulti, alcuni virulenti e definitivi, altri dialettici, ma nel 2000 hanno dovuto dargli il Pritzker Prize, perché non se ne poteva farne a meno, come se tutti si sentissero inadeguati rispetto a qualcosa che non amano ma vivono come un senso di colpa.
Se non puoi essere amato cerca di farti temere, e chi meglio di lui c’è riuscito?
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Alcuni edifici olandesi progettati nell’ultimo decennio sono di una bruttezza sublime, un azzardo strepitoso, come se volesse capire fino a che punto il pubblico muto, sia in grado di sopportarlo, e lui scrive, e spiazza e realizza mostre che non hanno nulla a che vedere con tutte quelle realizzate prima, o dopo.
Biennale di Venezia nel 2014, compresa.
Ma il botteghino e il fatturato dello studio gli danno ragione, e quei famosi 350 miliardi di euro che è il valore dell’architettura nel mondo – soldo più, soldo meno – hanno per lui un significato magico, eccitante, creativo.
Non è mai esistito da quando esiste questa professione, un architetto così incompreso, celebrato, solitario, senza epigoni o seguaci.
Famosissimo, influentissimo (tra i primi cinquanta uomini al mondo, e unico nella sua categoria), inimitabile, coraggioso, oltraggioso e incapace di qualsiasi dialettica.
Ogni libro è un’Enciclica pronta a divenire un best seller, come nell’architettura di tutti i secoli scorsi non si conosceva, alle sue conferenze c’è un pubblico giovanile adorante che lo invoca come Eric Clapton, e vorrebbe seguirne le gesta sapendo che anche se non sai suonare la chitarra c’è solo Uno che può diventare una star.
Dunque se fai oggetti spaventosi (argomento di profondo interesse per il nostro moderno Anticristo) solo Lui può permetterseli, e costringere un miliardario o un’orchestra intera a sopportarli.
Mi piace scrivere di Rem, e mi entusiasma il suo smisurato amore per la contraddizione, per gli ossimori teorici, per affermare quello che si deve negare, e realizzare tutto quello che probabilmente non gli piace o non gli interessa fino in fondo, come se fosse costretto a farlo.
E in questo rimanda alla domanda che fecero ad Arnold Schönberg:”Perché ha deciso di comporre musica senza tonalità?” E lui rispose:”Perché qualcuno doveva pur farlo”.
Forse, solo nuotare gli interessa, ed è appassionato di mostri architettonici, meglio se figli deformi dell’abusivismo universale, perché REM adora il lusso e le bidonville, insegna ad Harvard ma collabora con l’Università di Nairobi, considera lo shopping una disciplina filosofica, e potrebbe dimostrare che il futuro è in campagna.
Eccolo, già fatto.
L’urban-archi-scrittore, che pensava di concentrare tutti gli olandesi in un unico polo urbano mostruoso, ora ha scelto di andare a cantare la campagna, e dopo cinque anni di studi il suo laboratorio chimico che produce DTS (droghe teoriche sintetiche), AMO, e il suo braccio armato Samir Bantal, proclama che il futuro è lì.
Naturalmente la tribuna è di gran classe, al Solomon R. Guggenheim Museum, al numero 1071, 5th Avenue, New York e fino al 14 agosto con 25$, si può assistere – sempre che il buttafuori Covid-19 si decida a riaprire i battenti – al nuovo spettacolo dell’inarrestabile Illusionista Olandese, che naturalmente costringerà tutto il resto del pianeta ad inseguirlo invano, lui sta già lavorando su “villettopoli” e “capannonia” che hanno sporcato per sempre il pianeta.
Un’architettura finalmente depurata dall’uomo, autoreferenziale, che non serve progettare, e che si auto genera per partenogenesi, ovvio no?
“La sua noia è ipnotica, la sua banalità mozzafiato”
Il suo ruolo è sempre stato quello, i suoi libri hanno spiegato al resto degli architetti quell’inadeguatezza che ci prende quando non siamo abbastanza attrezzati per imporre idee, forme inconsapevoli, metafore e finalmente gli amati ossimori: sublime bellezza o lusso popolare, anche se gli basta una parolaccia per spiegare tutta la Vita e l’Opera.
“Fuck the contest” è la mamma distratta della mostra in corso a New York, perché a Rem non interessano gli uomini che abitano l’architettura e questo si capisce bene, per cui ora vorrebbe che tutti si spostassero altrove, nel 98% del territorio mondiale che non è città, che non è urbanizzato, anche se il vero nodo della questione andrebbe cercato nel rapporto tra città e campagna, problema complesso.
C’è sempre troppo da fare e poco tempo per farlo.
“Fottersene del contesto”, o “fottere il contesto”, meglio, non è un’affermazione teorica rivolta alla costruzione di una scuola, di un “ismo”, ma è soltanto la sua attitudine, quando affronta qualsiasi progetto – che sia a Venezia o a Lagos, a Roma o a Houston, oppure a Assisi – non potrà mai avere alcuna relazione con le preesistenze, con la storia e con tutti quelli che hanno avuto il coraggio di anticipare, di occupare inutilmente lo spazio intorno al nuovo Miracolo di Rem.
In questi tempi di reclusioni casalinghe forzose abbiamo visitato anche noi virtualmente – del resto il museo ora è chiuso – la mostra, che è simile a tante altre sue mostre, per quanto l’obiettivo sia molto diverso.
Cinque anni di ricerche per raccontare le trasformazioni della campagna, illustrate lungo i sei livelli del museo, ognuno con un tema specifico:
.domande e stereotipi sulla vita in campagna,
.la moderna concezione del tempo libero,
.le politiche di trasformazione del territorio,
.le nuove strutture sociali,
.la tutela della natura,
.applicazioni matematiche, scientifiche e tecnologiche nell’agricoltura.
E poi non potevano mancare i cambiamenti climatici, la migrazione, l’intelligenza artificiale e l’alterazione irreversibile dei paesaggi naturali.
Praticamente la “Storia del Mondo e dell’Umanità”, concentrata in un loop grafico-adesivo, che si sovrappone, annullandolo, al capolavoro di Wright, e tutti gli altri a guardare con la bocca aperta, anche se dal video.
Ora bisogna ammettere che Koolhaas è l’unico sociologo urbano vivente, l’unico antropologo culturale in attività e, se vogliamo, l’ultimo teorico per cui questa parola abbia ancora un significato.
La trappola teorico-ideale è sempre in agguato, attiva, pronta.
Nonostante tutto Rem rimane una figura di intellettuale che sento vicino, culturalmente ma anche per certi slanci scomposti, spesso imprevedibili, e sono sempre più convinto che non sia minimamente interessato a realizzare le sue architetture, dunque un vero teorico.
Così preso dalla elaborazione di un nuovo capitolo di questo romanzo misterioso dove nulla è certo, dove la trama cambia autonomamente rispetto all’autore e soprattutto il finale è tutt’altro che scontato.
E come potrebbe sacrificarsi alla prevedibilità, alle norme, ai budget limitati, ogni giorno è buono per una nuova pericolosa avventura, ben consapevole che i detrattori fanno il suo gioco, perché l’invidia globale tangibile, uccide.
Nella caffetteria dell’AA gli dissi, una mattina: ”Sai che c’è un critico italiano che denigrandoti ha paragonato la tua architettura alla serie di cartoon dei Jetsons (i Pronipoti in Italia)?”
Lui mi guardò con particolare attenzione per poi rispondermi: ”Mi pare veramente un complimento, io ammiro molto l’architettura di Hanna e Barbera”.
Ecco questa è la sua intrinseca superiorità.
Ama Salvador Dalì solo perché aveva abitato vicino al suo primo studio londinese, e questo ci riporta al 1938 quando l’Esule, un certo Sigmund Freud, ricevendo quell’eccentrico spagnolo, lo definì quasi come un cretino. Ed ecco dunque che nel gioco delle sovrapposizioni e dei collegamenti concettuali, o situazionisti, la teoria istantanea permanente, il manifesto, l’omelia prendono forma.
E Guy Debord è un dilettante di talento rispetto alla guerra verbale e scritta continua, in cui Koolhaas vive benissimo.
Tutti vanno alle sue mostre, tutti leggono i suoi libri, ma molti lo considerano un pessimo architetto, privo di talento, un collezionista di forme messe a sghimbescio su un piano neutro, che per lui non ha alcun significato, e non compie neppure sacrilegio, perché il vero “Dio dell’architettura”, non è Foster o Gehry, o la povera Zaha, ma è lui.
Questo è l’unico progetto esistenziale per cui sembra essere portato, anche se non sappiamo se sia sufficiente a nutrire la sua incoercibile e smisurata necessità di dimostrare l’inadeguatezza del pianeta, incapace di ricevere o addirittura comprendere l’Opera di Rem Koolhaas, il Demiurgo Sussurrante.
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