Plasmare l’abitare sul “modello della Biblioteca” pone il dilemma, che non può non investire il mondo della progettazione, del rapporto altalenante tra accentramento e dilatazione degli spazi verso una dimensione più aperta e sconfinata. Il tentativo di abbattere le pareti dell’entità domestica per espandersi alla conquista di nuovi territori potrebbe essere confuso con una forma di “violazione” della natura stessa dell’abitare?
Gianni Vattimo, grande studioso di Heidegger e pensatore, che ha saputo intravedere un nuovo orizzonte nel pensiero “debole” di sua formulazione, ha lasciato in eredità una testimonianza mantica sulla “Biblioteca” come metafora dell’abitare, un frammento lucente di verità, che può restituire al nostro ambito domestico la dignità di luogo di apprendimento e “raccoglimento”. (Ne è esempio la Biblioteca di Umberto Eco, suo ultimo lascito all’umanità, che è diventata patrimonio dello Stato).
Se il sapere non consiste tanto nella risposta ma nella domanda che sappiamo porre (come insegna l’oracolo di Delfi) sarei concorde nel tornare ad interrogare, dunque, un grande pensatore come Martin Heidegger partendo proprio da lì, dalla sua convinzione che “i mortali devono innanzitutto imparare ad abitare”.
Non dimentichiamo che leggere in latino significa anche raccogliere, e cogliere con gli occhi; la casa evoluta ospiterà sì scrivanie, desk, interfacce tecnologiche (che “brutta” parola per Vattimo interfaccia, molto meglio la faccia del nostro essere parte dell’universalità umana) ma ci sarà un crescente bisogno di angoli d’intimità e meditazione, all’interno dei quali i libri diventano aperture sul mondo, riferimenti cognitivi di una complessità esteriore.
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Nella biblioteca si potrebbe operare quella sintesi tra chi legge – un’azione che richiede raccoglimento, silenzio, tranquillità e meditazione – e i libri-soggetto di lettura, sono loro a parlare di un mondo esterno (o addirittura di altri mondi). Anche nell’alveo dell’abitare tardo-moderno (dove entrano suoni, rumori e collegamenti che viaggiano veloci) si guarda all’esterno con crescente aspirazione, ma dovremmo pur sempre mantenere quella dimensione intimistica del raccoglimento.
Un abitare, che diventa per noi oggi, una sintesi d’intimità e apertura indefinita; una tensione continua tra comoda “intimità” in cui ci riconosciamo alla quale si affianca il “guardare fuori”, ossia una continua tensione fra esteriorità ed interiorità. La realtà dell’essenza umana che possiamo praticare moltiplica l’universalità nascosta in noi attraverso “interfacce” esterne (sempre più tecnologiche, connesse, virtuali); così come l’architettura, la progettazione di spazi e oggetti, l’urbanistica dovrebbero incarnare questa pluralità non ben identificata, che oggi è possibile, anzi siamo chiamati ad applicare, a realtà concrete dell’esistenza umana.
Interrogarsi sull’abitare non si arresta sulla soglia di un’indagine sulle tecniche costruttive o la narrazione evolutiva degli stili, si lega all’attinenza che – secondo Heidegger – l’opera del costruire e dell’abitare hanno nell’esperienza dell’uomo in quanto abitante della terra.
Il pensiero heideggeriano ha lasciato una traccia profonda, difficile ed impervia lungo la quale possiamo tentare di avventurarci per affrontare un’epoca intera. Non solo quella che ci siamo lasciati alle spalle, ma quella che verrà. Persino i teorici dell’architettura sono chiamati, oggi stesso, a confrontarsi con la sua opera; oltre le teorie, in cammino verso un’autentica visione del mondo e dell’uomo. E’ un atto temerario voler riformulare il pensiero, porsi ex-novo la domanda e, con questo, trattare la storia del pensiero occidentale non come dato acquisito, bensì come interlocutore da conoscere ed interrogare per così dire “spudoratamente”.
Ma non vogliamo affatto, con questo, eludere la ricerca sulle tecniche e gli stili architettonici: essa fa parte della forma di volta in volta data all’abitare dell’uomo. (Merita un separato approfondimento l’opera del filosofo e architetto Christian Norberg-Schulz, il compito dell’architetto è quello di creare luoghi significativi, dove sia cioè più facile abitare, avere corrispondenza identitaria, senso di appartenenza. ). Appena l’uomo si ferma a riflettere sulla propria sradicatezza, questa non è più una miseria secondo Heidegger.
È dunque lui che per primo ha posto radicalmente la questione dell’abitare, lui il primo che ha dilatato il senso della dimora dall’urbanistica alla filosofia. A ben ascoltarlo, l’urbanistica e la filosofia non possono più essere come prima.
Il tratto che unisce il costruire all’abitare non si esaurisce nel rapporto funzionale dell’edificazione di un tetto: “Non si costruisce per abitare, afferma Heidegger, piuttosto si abita costruendo”. Il modo proprio con cui l’uomo costruisce è l’abitare e allo stesso tempo l’uomo abita il mondo costruendo uno spazio. Si pensi a quanto è congenito nel bambino il compito di muovere e spostare cose, di creare e di riconoscere spazi proprio per prendere le misure della sua presenza al mondo: fin dall’inizio disponendo oggetti i piccoli dell’uomo dispongono se stessi e il mondo intorno a loro. Per quanto ristretto possa essere il mondo e l’esperienza del mondo per un bambino, tale spazio è pur sempre il suo mondo, nel quale egli impara a vivere, abitandolo.
Abitare è allora la forma dell’essere/uomo sulla terra, il carattere atavico del suo restare, del suo essere radicato sulla terra: l’uomo è poiché abita la terra. L’uomo è nel mondo (ha un proprio posto) proprio in quanto lo abita, la possibilità di abitare il mondo si traduce nella concreta opportunità di essere sei stesso.
“Bauen” significa appunta costruire, erigere edifici; ma possiede anche un’altra valenza più profonda ed originaria, quella di coltivare, prendersi cura (della terra e della crescita dei frutti); costruire, dunque, non significa solamente edificare e produrre luoghi, ma si pone in relazione con l’atto della coltivazione, e della custodia della terra. Certo, l’idea della costruzione di edifici si è appropriata rapacemente, nel corso della storia – del territorio semantico che rafforzato l’hybris costruttiva dell’uomo.
La nuova sfida potrebbe abbracciare una ritrovata capacità all’ascolto, quello dell’appello alla riscoperta dell’abitare nel solco di custodire la terra che abitiamo. La tensione tra esterno ed interno potrebbe dare respiro al proseguo logico della continua ed irrisolta tensione tra ”mondo” e “terra”.
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Il lungo lavoro di ricerca incentrato sui tre capisaldi: Costruire, Abitare, Pensare (Bauen – Wohnen – Denken ) si chiude con questa affermazione: “Sarebbe già abbastanza se si fosse riusciti a portare l’abitare e il costruire nell’ambito di ciò che è problematico, degno di interrogazione, e che quindi essi restassero qualcosa degno di essere pensato. (…) Costruire e pensare sono sempre, secondo il loro diverso modo, indispensabili per l’abitare. Entrambi sono però anche insufficienti all’abitare, fino a che attendono separatamente alle proprie attività, senza ascoltarsi l’un l’altro”
Lo iato tra metafisica e opus (sia essa in pietra, ferro o altro materiale) potrebbe essere colmato se, seguendo Heidegger, si riuscisse a ricomporre la silenziosa dualità dell’esperienza umana: l’uomo che pensa è il medesimo uomo che costruisce.
L’esperienza dell’abitare il mondo è costruita dal pensiero così come l’atto del pensare si nutre di terra; il collante che unisce questi ambiti non è di natura meramente teoretica, ma va ricercato nell’esperibile dell’uomo che vive (e dunque pensa, abita, costruisce). Le radici dell’uomo affondano nel rapporto con la terra e l’abitare ha a che fare con il suo incontro con la pietra, il legno, il metallo.
E’ l’ora ultima per apprendere ad abitare in forma autentica, impossessarci degli strumenti teoretici e non (chi saranno gli insegnanti/maestri di questa scuola del pensare/fare?), che renderanno possibile rifondare la nostra progettualità, il nostro esserci come l’“essere nel mondo”.
In un anno al quale abbiamo dedicato un giorno della memoria – forse per evitare la terapia dell’oblio come ha scritto Paolo Mieli – e nel corso del quale ci siamo interrogati (e ci stiamo interrogando) su cosa saremo, e soprattutto come abiteremo, l’imperfetto futuro post-pandemico. Professionisti della comunicazione, antropologi e sociologi – ma vieppiù architetti e designer – di varia estrazione e vissuto si sono sfidati a colpi di interviste, post e tesi sulla prossima vita dell’abitare le città, le case, i luoghi di lavoro. Si sono posti domande alle quali nessuno di noi sa dare risposte universalmente valide, né certe perché toccano nel vivo l’essenza intima del nostro essere “umani” e il relazionarci al mondo estraneo che ci circonda.
FONTE: Analisi del saggio Costruire abitare pensare in Saggi e Discorsi, Mursia, Milano, 1976
Heidegger, La casa, in Saggi e discorsi, Milano 1976
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