A scorrere la biografia di Richard Rogers si rimane incantati sia dalla qualità delle sue opere sviluppate nel corso di decenni di frenetica attività ma anche per la lucidità che nonostante la sua posizione di star dell’architettura ha mantenuto nel corso del tempo, una capacità analitica non comune per i tanti che hanno avuto successo fin da giovani.
“Lascerò questa città non meno, ma più bella di come l’ho trovata era l’antico giuramento del cittadino ateniese ed è l’ambizione alla base del mio lavoro”.
Richard Rogers
E dunque bisogna tornare all’origine di questo percorso, il Concorso per eccellenza del XX secolo, quel Pompidou/Beaubourg, dove alcuni giovani (ovviamente il nostro Piano, ma anche il rimosso Franchini) vincono grazie al genio di Jean Prouvé, la realizzazione di un centro culturale che nel corso degli anni diventerà la metafora stessa del mondo, della cultura.
La possibilità che la contemporaneità si confronti senza timori con la storia, la città di Parigi, distruggendo per sempre l’idea stessa di museo.
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Sono passati più di cinquanta anni dall’ideazione, ma nessuno è mai riuscito ad avvicinarsi all’impatto che quell’edificio ha avuto nell’immaginario collettivo planetario, al punto che gli stessi ideatori non sono stati in grado di superare quella impossibile soglia, dove l’architettura non ha più bisogno di spiegazioni poichè serve solo a “creare meraviglia”.
Rogers, un fiorentino di sangue, ma inglese di spirito, ha tutte le carte in regola per diventare quello che sarebbe diventato, il cognome ricorda qualcosa del rigore creativo milanese (Ernesto è cugino del padre, of course),tornando a Londra si ferma direttamente, metaforicamente in Bedford Square dove all’Architectural Association, capirà che cosa significhi davvero “essere e non diventare” architetto.
Poi Foster, il Team 4, il sodalizio che si inceppa prima di conquistare Parigi, perché nulla può sopravvivere alla giovinezza di quel successo, Piano e Rogers vanno a prendersi il mondo di una nuova modernità che li aspetta a braccia aperte, in luoghi, tempi ed espressioni diverse ma figli(fortunati) di un Dio maggiore.
Torniamo nel Marais, perché in tanti faranno a gara a raccontare il medagliere del grande architetto, mentre noi vogliamo parlare di una sola opera per descriverle tutte, cosi diverse, così lontane nel tempo eppure così geneticamente incatenate all’estetica che le ha generate.
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Un centro culturale è uno spazio dove l’espressione delle arti del tempo trovano una qualità dimensionale ed architettonica chiara, semplice, innovativa ma sempre frutto dell’analisi della società che ha deciso, voluto produrla, come punto più alto di una città e del mondo.
Rogers o Piano (non sapremo mai chi dei due), rovesciano ogni paradigma antropologico dell’arte del XX secolo e dei secoli a venire, perché rendono tutto quello che sarà “esposto”, quasi innocuo, tranquillizzante come se tutti sforzi delle avanguardie esplosive del novecento avessero perso la loro dirompente inquietudine.
Rogers forse non sa ancora, che sta costruendo la metafora stereometrica del pensiero, un modello tridimensionale della capacità di dieci o venti architetture della storia che segnano i passaggi definitivi tra un “prima consolidato” e un “dopo incoercibile” perché il tempo da un punto di vista fisico è solo una convenzione.
Saranno decenni di grandi fortune professionali che si accumuleranno sullo sguardo gentile e fermo di Rogers (e di Piano), passando per grandi cambiamenti anche (societari o di associazioni professionali) ma ora che è passato a miglior vita, non possiamo che ringraziarlo per questa splendente metafora che può essere solo restaurata (e di fatto tornerà luccicante nel 2027, poi probabilmente nel 2050,e nel 2100).
La piazza urbana che contiene e amplifica la bellezza quasi sognante dell’enorme edificio, ha cambiato il rapporto tra città e nuova edificazione, perché entra all’interno delicatamente, integrando perfettamente le qualità tra spazio pubblico imprevedibile e luogo estetica poli-funzionale, solo perché fuori piove e dentro no.
Il museo è la vita che si svolge in quella piazza e che qualche volta (per oltre cento milioni di volte) entra per guardare lo specchio dove si riflettono le nostre necessità e il nutrimento per lo spirito del tempo.
Di ogni tempo.
Dunque la cultura come acqua da bere, corpo e anima del nostro definirci uomini senzienti, abitatori di una città che è tutta dentro un’architettura, e di un mondo che si riconosce in quella imprevedibile evoluzione: Beuys, Wharol, Mondrian e il resto delle attività intellettuali, trovano lo spazio del desiderio dove stare e dove parlare di nascosto con quella strana macchina, nave, fabbrica, qualcosa che non è possibile definire da un punto di vista funzionale.
Che non ricorda o riconosce niente di simile.
Anche Rogers ha avuto i suoi momenti difficili, come al Millennium Dome di Londra dove non è bastato far cadere James Bond, per risollevarne le sorti economiche e purtroppo estetiche, ma Parigi resta l’accordo perfetto che ogni musicista troverà raramente nella sua pur grande genialità, perché una sinfonia è molte cose ma la Nona di Beethoven è un’altra cosa.
Il centre Pompidou, viene ribattezzato Beaubourg subito, a indicare il plateau che lo contiene, ma dimostra che ormai la Città che lo ha prodotto si identifica con quell’architettura, perché ne custodisce il limite dove il passato improvvisamente diventa futuro, e dove l’adesso è un presente permanente, senza stile, senza cambiamenti o trasformazioni, semplicemente un finito-infinito.
Certo ci saranno i LLoyds, l’aeroporto Barajas di Madrid, o la corte europea di Strasburgo e ancora, Berlino Postdamer Platz Daimler, tra le mille idee realizzate da moltiplicare.
I premi (tutti dal Pritzker, al Leone della Biennale, dall’Imperial a Tokio, alla medaglia d’oro dell’AIA) è un meraviglioso plateau di gioielli che manifestano “la nostalgia creativa dell’irripetibile”, come le demoiselles d’Avignon del 1907 per un Picasso che vivrà fino al 1973.
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Certo la sua idea di città è densamente concatenata anche ai testi pubblicati da una città per tutti, a tanti altri, e forse il pensiero ricorrente sarà stato quello verso i maestri che l’hanno contaminato per sempre come Buckminster Fuller, Frei Otto ma anche Archigram, ma senza mai raggiungerlo davvero.
In Richard Roger l’alta tecnologia parla il linguaggio dell’alta poesia, e la dimensione di un quartiere o di un grattacielo hanno la stessa espressività di una piccola galleria nel sud ella Francia, suo ultimo progetto , ma il nostro e il suo cuore siamo sicuri che è rimasto la dove l’avevamo trovato, e forse lasciato.
Tutto questo riposa nelle nostre capacità di ascoltare il suono di una parola che non si spegnerà in questo dicembre dell’anno ventunesimo del terzo millennio a poco più di cinquanta anni dall’inizio del futuro del mondo e dell’architettura.
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