Testi sulla (non più città) nella riedizione pazientemente curata da Manuel Orazi per Quodlibet, è una raccolta di testi, in gran parte inediti, scritti da Rem Koolhaas tra il 1998 e il 2014, ed ora pubblicati per la prima volta in italiano. 

Le note “immagini di pensiero” (Denkbilder) diventano un diario composito di ricordi, riflessioni, ricerche e narrazioni che disegnano l’orizzonte urbanistico di città e società molto diverse tra loro per sistema economico, politico, sociale e collocazione geografica. Un metronomo che batte due tempi: quello visivo e quello profetico.

Rem Koolhaas

A tratti quest’opera sembra intersecare il tragitto delle Immagini di Città di Walter Benjamin – che utilizza il tempo e il ricordo come mezzo per esplorare i luoghi del costruito. E’a Parigi che gli spazi architettonici di aggregazione diventano specchio della società. Parigi è la città dell’apparire: è lo specchio, più dell’elemento architettonico, a definire l’insieme di una società.  

Per un architetto che si ritiene quasi francese – è in Francia che Koolhaas ha lasciato significative tracce del suo “passage” – Parigi è l’elemento onnipresente di ogni urbana equazione. “Dimenticate Parigi e andate a Laos o Singapore”, se il mondo intero si è trasformato in una megalopoli è possibile rovesciare la medaglia e, allora, sono le megalopoli a diventare mondi a sé stanti. Le “non più città” appaiono come schegge decontestualizzate, “frammenti di modernità” a testimonianza del fallimento della pianificazione urbana. Corpi compressi, deformati, privi di ombelico, se non c’è più un centro ma una pluralità di centri allora che ruolo ha la periferia? Traiettorie interrotte da una distorsione di cannibalismo che assimila interno ed esterno. 

Il progettista olandese di fama mondiale raccoglie – in un taccuino prezioso – un “delirante” (tributo a Delirious New York) diario di viaggio, riflessioni ad un congestionato crocevia tra presente, passato e futuro sull’ontologia delle entità urbane che non sono più.

Prima di fondare OMA, e dar così vita alla fantascientifica (Office) officina di “modern architecture”, Rem Koolhaas è stato in origine giornalista, sceneggiatore cinematografico (lavoro grazie al quale si è pagato gli studi londinesi) e scrittore; un libero sperimentatore della parola, compositore di luoghi non spaziali capaci di creare legami profondi e connessioni. Quelle che, sovente, non si riescono a rintracciare all’interno delle città e delle metropoli.

La sua vulcanica personalità migra verso l’architettura per indagare rapporti che legano persone e società, gli spazi del loro vivere come cerchi concentrici che si allargano dalle case, agli edifici fino ad inglobare l’essente delle città. Guidati da piccole onde increspate da un sasso gettato in un lago ci chiediamo: dove si nasconde la profondità? Sulla superficie.

In questo attraversamento planetario, si respira l’anelito del post-moderno tratteggiato dalla linea visiva-profetica di uno scorcio di orizzonte sbirciato dal finestrino di un aereo.

Esperienze vissute sulla pelle ed incarnatesi in paesaggi urbani che hanno segnato la giovinezza di Koolhaas, ed oltre: dagli studi all’AA di Londra alle prime visite negli Stati Uniti, al racconto del viaggio studio come circumnavigazione del Muro. Da Berlino a New York, da Tokyo a Dubai passando per l’utopia di Brasilia descritta come un aereo che ha lasciato nella polvere i resti di un lontanissimo reperto archeologico nell’esatto centro del Brasile, è oggi un museo dei paradossi e, forse, della delusione architettonica en plein air, protetto e tutelato dall’UNESCO (la fusoliera è opera geniale di Oscar Niemeyer). Una città progettata e cresciuta in tempi rapidissimi – per volontà politica del Presidente Kubitschek- e altrettanto velocemente deceduta.

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Atlanta, più di tutte le altre, rappresenta un paesaggio più che una città. Visitandola, Koolhaas imprime in uno strato profondo della memoria il primato della “zonizzazione” amplificato negli spazi di passaggio e transito, che potrebbero essere replicati ovunque, uguali a sé stessi. E’ la città dei 40 aeroporti – uno dei non luoghi per eccellenza descritti da Marc Augé– scopre Atlanta come la città che è, non come dovrebbe essere, motore perpetuo di velocità ed efficienza.

Città-metropoli, luoghi post-luoghi, dove si cancella il confine tra centro e periferia, punti dai quali s’irradiano traiettorie eterogenee, linee di pensiero che puntano verso agglomerati di riflessioni che guardano al futuro sulla scia luminosa di materia immateriale, in un’esistenza trascorsa a produrre urbanistica.

New York nata e già segnata dal suo destino di città che accoglie. Il manifesto, mai compiuto del “Manhattismo” (A retroactive Manifesto for Manhattan). “La grande debolezza dei manifesti è la loro mancanza di concretezza, il problema di Manhattan è l’opposto: una montagna di concretezza priva di un manifesto”.  Un libro di cui, si dice, non ama molto parlare. La teoria deManhattanismo porta verso l’esistere in un mondo artificiale interamente fabbricato dall’uomo, vivere nella fantasia.

Ampie fette del suo territorio sono occupate da” mutazioni architettoniche, frammenti utopici o fenomeni irrazionali”. Ogni isolato (block) è coperto da innumerevoli stratificazioni di “architettura fantasma”, che di volta in volta assumono le sembianze di edifici esistenti e all’ultima moda, progetti ideati e mai realizzati, fantasie popolari che tentano di proiettare sulla città un’identità alternativa a quella presente. Una città che cade e si rialza, messa in ginocchio da cicliche crisi e sempre pronta a rinascere e reinventarsi in qualche modo. La città del vuoto – ne è simbolo Ground Zero – di che materia è fatta?

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L’irriverente archistar (termine ormai insostenibile) sembra snobbare il concetto di smart city, tendente ad un’immagine edulcorata, troppo colorata e di facile digestione per un vasto pubblico; un piatto appetibile per la politica da servire per un futuro dove comfort, sicurezza e sostenibilità sono le colonne su cui poggia il panopticon digitale della sorveglianza tecnologica.

Non sarà forse il caos ad essere l’origine del tutto? La Défense a Parigi è prateria d’innovazione e modernizzazione, un territorio cuscinetto, “un pugno nello stomaco” a tutela della capitale (progetto in progress al quale l’architetto ha contribuito personalmente). L’architettura nemica del muro di Berlino, sono tappe altrettanto significative di questo viaggio. Qual è l’utopia del secolo per lo scultoreo gigante della “decostruzione” urbanistica? La sua speranza, così come le sue ultime parole, non pendono a favore dell’architettura.

La Défense De Paris

L’unica via d’uscita possibile sembra risiedere nell’abitare la crisi ed inventare una trasposizione di ’”urbanistica light”.

La follia del fallimento è l’orizzonte all’interno del quale muoversi, scevri da ideali avanguardisti e mire utopistiche. La “sostanza urbana” (riprendendo il significato spinoziano di sostanza come qualcosa che esiste in sé e si concepisce per sé) si trasla da immagine di città a figura del pensiero. Si demoliscono le tradizionali, ormai consunte, partizioni tra architettura, filosofia e giornalismo per raccogliere frammenti e schegge da scomporre e poi ricomporre in un nuovo organismo, lasciando a terra pregiudizi ideologici ed estetici. Le ultime pagine sono interamente dedicate a cosa la città si lascia alle spalle, e cioè la campagna e coloro che la abitano.

Un territorio ampiamente sconosciuto ed in rapido mutamento, dove il lavoro dell’uomo viene sostituito da sofisticate tecnologie e macchine sempre più efficienti – anche in borghi remoti della bucolica Olanda – il contadino gestisce il suo lavoro da tablet o PC. Sarà la mostra al Guggenheim di New York, ferita dalla pandemia, a raccontare Countryside, The Future indagando le aree non urbane come soluzione immaginabile alle grandi questioni aperte della contemporaneità.

Nel suo peregrinare da Ebreo in fuga, Benjamin si lascia permeare dall’essenza dei luoghi che visita; scopre le città perdendosi in esse e aprendosi alla possibilità di vivere il luogo nella maniera più autentica.

Nella sua opera la città si rivela nelle pieghe ove si cela la cultura del luogo e si percepiscono i sintomi del futuro a venire. Lo spazio costruito non è solo dimensione fisica ma luogo all’interno del quale si svolgono attività, relazioni e azioni. Introduce il concetto di “porosità” in qualità di commistione tra interno ed esterno, pubblico e privato, vita e architettura si fondono e coesistono.

Calvino scrisse “Le città invisibili” all’interno delle quali si nascondevano città invivibili, tristi e felici, città ragnatele e centri urbani che divorano interno ed esterno in un’unica polpa mal digerita. Una scrittura leggera ed ironica, che disegna realtà oniriche e a tratti surreali, che non so perché, si è poggiata su di me come un cappello curioso predisponendomi alla lettura di questa raccolta autografa di un sagace Rem Koolhaas d’annata. 


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