Dal 10 settembre, e fino al 15 novembre, si tiene alla Tchoban Foundation – il museo del disegno di architettura di Berlino, la mostra personale “Sculptural Drawings” di Thom Mayne – che raccoglie disegni e modelli plastici realizzati dell’architetto californiano in quasi 50 anni di lavoro. Questo è il testo di presentazione del suo lavoro scritto da Stefano Casciani per il catalogo pubblicato con l’occasione dalla Tchoban Foundation.

Cerco di produrre qualcosa di simile all’idiosincrasia dell’individuo, quell’elemento di imprevedibilità che distingue il comportamento umano.

Thom Mayne, Strange Networks, 2020

Da sempre consideriamo il “progettare” l’atto di anticipare nuove realtà, la divinazione di un futuro inatteso ma pur sempre possibile, l’anticipazione della forma di cose di là da venire che solo la nostra mente e la nostra anima possono intravedere in un futuro non troppo distante. Tecniche e tecnologie ci avrebbero aiutato in questo processo, rendendo il nostro atto del progettare più semplice e, se possibile, destinato finalmente a un maggior successo. Ma tutto questo avrebbe avuto senso a una sola e unica condizione: che le nostre umane, limitate capacità di calcolo fossero sostenute e supportate dalla nostra stessa abilità di divinazione, ovvero di immaginare e rendere migliori le “cose”: oggetti, prodotti, manufatti, edifici, città e territori. 

Chiba Golf Club, Japan (model), 
1988/92

E cosa succederebbe invece se qualche tecnologia incredibilmente nuova, permettesse di ridefinire interamente, non solo il nostro atto del progettare, ma perfino lo stesso atto “visionario” del futuro e il motore che lo sospinge, in altre parole, il nostro cervello? Fino forse a un decennio fa, nessuno (tantomeno i designer) avrebbe potuto concepire che qualcosa di simile sarebbe successo, che lo smisurato sviluppo dell’Intelligenza Artificiale sarebbe andato a una velocità tale da cambiare la nostra stessa percezione di questo mondo e di altri possibili mondi che verranno.

Untitled (Nolita hand sketches)_2 9.6.2019

Thom Mayne lavora da tempo su questo sempre più incerto confine tra le potenzialità ancora inesplorate della mente umana e le possibilità di sviluppo di nuovi mondi: grazie prima di tutto alle sue capacità d’immaginazione e poi alle tecniche di rappresentazione, dalla matita impugnata dalla sua stessa mano fino all’Intelligenza Artificiale, ormai parte integrante del progetto e dell’architettura che nasce dal progetto. Scorre così nel tempo una sequenza evolutiva fortemente dinamica del suo lavoro, dai disegni su carta della Lawrence Residence (1980) ai rilievi della Crawford Residence (1988), dai montaggi del Nara Convention Center (1991) fino al punto di svolta del Giant Interactive Group di Pudong (Cina, 2010), da cui inizia quella lunga, importante serie di modelli bi/tridimensionali che va sotto il nome di Combinatory Forms.

Providao, artwork (sculptural model), 2012

Eppure in tutto questo percorso Thom non si è mai posto verso il progetto con un atteggiamento prestabilito, né tanto meno ideologico. Come ogni designer, architetto, scrittore, regista, artista degno di questi nomi, Thom non sa – forse non vuole neppure sapere – esattamente cosa nascerà dal processo creativo: non ha in mente una forma predefinita e meno che mai uno stile, un “segno” o una “firma” cui il progetto, l’edificio, la città immaginati dovranno corrispondere. È invece molto interessato, diciamo quasi ossessionato, a/da un’idea: che studiando la vita possibile dentro l’edificio e di conseguenza i volumi e le forme, i pieni e i vuoti che intorno a questa vita si sviluppano, lasciando al progetto quel certo grado di indeterminatezza che sta proprio nella vita stessa delle persone, potranno nascere spazi e strutture che chi dovrà abitare possa riconoscere come una nuova esperienza estetica.

Greensboryang, artwork (sculptural model), 2012

Vivere e far vivere l’architettura, come ogni suo abitante o progettista, è questo genere di esperienza, originale e diversa da quella che si fa con l’opera d’arte, perché non è puro godimento fisso, estatico, di una qualche bellezza: coinvolge invece la dimensione del tempo e del movimento, come un’azione cinematografica, dove l’attore e lo spettatore percorrono lo spazio in modi sempre diversi, con psicologia mutevole secondo quello che incontrano e sentono, così da creare ognuno il loro personale film: o architettura, nel nostro caso.

Crawford Residence, Montecito, California, United States,1988 – 1990

Sono certo infinite, proprio come le diverse visioni individuali, le combinazioni possibili con cui configurare la forma di partenza dell’architettura che gli abitanti vivranno e ricreeranno di nuovo ogni giorno. Ed è proprio questa libertà di configurazione che da qualche tempo Thom demanda anche alla macchina, all’Intelligenza Artificiale che non è (più) un avversario ma un alleato, di cui “fidarsi” nel suo continuo proporre alternative possibili, fossero queste anche decine, o centinaia, e forse migliaia.

Beimington, artwork (sculptural model), 2012

Perché è proprio nella scelta di una (o più) delle infinite opzioni possibili proposte dalla macchina che sta oggi il mestiere, l’arte dell’architetto. Come uno scrittore usa alcune tra tutte le migliaia di parole che stanno nel dizionario (e raramente, sempre più raramente, ne inventa di nuove) e proprio in quel suo scegliere quali parole e in che sequenza sta la sua arte, come il regista di tutte le infinite possibili inquadrature dell’azione ne sceglie solo quelle per lui migliori – e nel montaggio cinematografico raffina poi quel lavoro già iniziato – così l’architetto che Thom immagina di essere (con successo) si mette all’opera ogni giorno, aiutato dall’Intelligenza Artificiale, nel gioco tra la scelta e il caso, la ragione e l’emozione, il sentire e il prevedere.

Thom Mayne, Listone Giordano Arena

Questa potenziale indeterminatezza dell’oggetto progettuale, nel suo poter essere molte cose, anche molto diverse da quelle che il progettista aveva pensato, ha infine qualcosa a che fare anche con il desiderio, la passione di Thom dell’insegnare ad altri, più giovani, come diventare architetti, o anche solo sognatori di architetture. Come sa chi ama e quindi fa bene il mestiere dell’insegnante, la migliore soddisfazione nell’educare nuovi progettisti (o scrittori, musicisti, pittori) sta nel vedere nascere dalle loro mani e menti qualcosa che noi stessi non avremmo immaginato, ma che il nostro insegnamento ha contribuito, per strade misteriose, a far nascere.

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Thom Mayne e Stefano Casciani, Listone Giordano Arena, Milano

Perciò non guardate alla bellezza di questi tentativi di interpretare il mondo – in forma e materia di carte, legni, acciai, resine – soltanto come opere d’arte, estreme e spesso faticose sintesi di desideri molto difficili, a volte impossibili, da realizzare. C’è dentro ognuno di loro il seme della conoscenza, di quel saper interpretare il mondo che a Thom Mayne, a tutti noi che amiamo l’architettura, è costato un tempo infinito “appuntire come una buona matita”, come diceva a proposito della scrittura Ernest Hemingway: e che nel limitato tempo della scuola, nelle mai abbastanza ore insieme ai più giovani, possiamo solo disseminare, senza sapere bene quale pianta nascerà. Ma che nel migliore, o anche solo nel più fortunato dei casi, darà origine a nuove personalità, ad altre nuove e meravigliose idee degli oggetti, dell’architettura, della città.

Daventou, artwork (sculptural model), 2012

Guardandole con molta attenzione, in un piccolo dettaglio, in un intreccio magari casuale di linee o superfici, ci sembrerà di riconoscere noi stessi, di vedere il ritratto di quel Sé che con ostinazione, a volte quasi disperazione, abbiamo sempre cercato: e qualche volta, per volontà testarda o solo per una fortunata coincidenza spazio-temporale, siamo riusciti con fatica a trovare, per essere certi di aver vissuto davvero, non solo in quel mondo che avevamo immaginato e che a volte noi stessi non sappiamo se esista, o se mai esisterà.


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