(Scrivere un nome, pensare con una matita, i materiali per una ricerca, un metro quadrato basterà? La comparsa del digitale ( e la sua portabilità) L’ufficio-casa è contemporaneo “se guardate al passato sarà un progresso”)
“Home, is where I want to be
But I guess I’m already there
I come home, she lifted up her wings
I guess that this must be the place”
This must be the place.
David Byrne/Talking Heads,1982
Non si chiamerà più ufficio, e neppure casa, e non ci assomiglierà neppure, sembrerà di entrarci per la prima volta ma è come se ci fossimo stati da sempre, certo ci saranno le macchine, le tecnologie che non riusciremo a depotenziare, ma sarà come scrivere il nome di uno spazio che non riusciamo (o possiamo) definire.
L’architettura troppo spesso ha negato la possibilità al luogo di diventare “altro da sé”, di immaginarsi, prima di definirsi.
Oggi forse ne dobbiamo svelare il mistero che nessuno ha mai pensato, perché in molti l’idea aleggiava, nel silenzio delle consuetudini.
Ed è giunto il momento di rendere visibile questo nome: un tavolo rotondo della cucina della nonna, o una mensola sbrecciata che nessuno usava nelle grandi case del passato, dove abbiamo imparato a scrivere in corsivo, e forse già pensavamo di disegnare qualcosa, o il vetro della finestra dove “lucidare” immagini che mai avremmo saputo replicare.
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Luogo è il suo nome, l’ufficio è la casa dove posso lavorare, studiare, immaginare, senza dover assumere l’atteggiamento pubblico, sociale che mi porta verso la fine di quello spazio che mi serviva solo per uscire, ma che mai ho sentito come intimo, erotico, fisiologico. Mio.
Oppure fare finta di niente e che tutto possa tornare come prima.
Voglio pensare, che possa esistere un modo per scrivere lo spazio come linguaggio e come espressione di una letteratura, onirica, un contenitore di magie, una caverna dove nascondere tutte la pulsioni dell’ Umanità, per sentirne il suono, per vederne baluginare qualche piccola luce, nel buio delle nostre emozioni sopite.
Scrivere un nome, dare forma fisica ad un’idea che vuole esistere, che raffina la nostra capacità maieutica mai dimenticata, questa è l’epoca in cui dobbiamo far capire che si può intraprendere una strada diversa e che progettare non è nulla di diverso dal pensare, finalizzato all’indifferenziato teatro dell’umanità.
Forse, posso “pensare con una matita”, e sentirne la vibrazione naturale che dal foglio arriva al polso e poi più su, e viceversa, che tipo di comando cerebrale giunge a questa mano e la costringe a definire lo spazio bianco e quello disegnato, la pausa nel discorso, ne scioglierà i silenzi dell’imponderabilità.
Nel foglio c’è tutto, e tutto quello che ci basta. Nel foglio ci sono già tutte le istanze da estrarre dal niente indifferente e che potrebbero diventare segni, che potrebbero trasformarsi in luoghi reali, fisici, finalmente poli ad alta densità multifunzionale.
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Si parte sempre da quello che non c’è e che vorremmo ci fosse in qualche forma, la ricerca non inizia dall’esistente, non produce repliche del già scontato, anche perché nel dejà vu ritroviamo elementi della memoria antropologica che non possiamo rimuovere completamente.
L’architettura ha un compito sociologico centrale nel processo di definizione delle nuove peculiarità funzionali, e deve riprendere quella potenza espressiva che negli ultimi decenni aveva ceduto all’estetica del gesto, al trucco della bellezza, perché l’etica richiama all’ordine, e indica un tracciato che non possiamo trascurare.
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La Krisis ha dettato le nuove regole del gioco e non è sufficiente cercare di cavalcare la confusione dei tempi di transizione, bisogna stabilire dei nuovi principi per superare l’ansia da prestazione che il vuoto ha imposto, la ricerca formale non può essere soltanto uno scenario, una quinta teatrale in grado di rassicurare anime sempre più fragili.
Un metro quadrato basterà per esprimere l’antica capacità di creare essenzialità, per costruire sguardi compiuti sul futuro e su una visione che oggi non dobbiamo e non possiamo controllare, l’architettura dei luoghi è soprattutto il “farsi di un luogo” quello che l’esperienza umana sarà in grado di colonizzare, chiamandolo ufficio, casa, negozio, supermarket.
Certo che basta “unmetroquadrato” perché focalizza l’espressione di una volontà programmatica, rincorre l’Idea che ci inquieta e che risolve una necessità, eccolo il suono, una nota perfetta che attendevamo in quel particolare fraseggio e che cambia la prospettiva di un’intera sinfonia, e come potremmo pensare ancora che l’architettura non è un’attività intellettuale?
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L’universo digitale ci accompagnerà in questa avventura senza darci particolari indicazioni, indizi che dobbiamo interpretare per rendere esplicita ogni rappresentazione del neo-spazio, denso, contraddittorio e imprevedibile, che si attiva e si genera quotidianamente con la colonizzazione umana che, ne trasforma ogni principio semantico.
Il rapporto con ogni produzione ”elettrica” è stata la fonte di alcune svolte che, dagli anni settanta, hanno imposto scelte impossibili al solo gesto del disegnare, perché il tracciato di ogni segno assumeva una ineluttabilità ed una rigidità che la matita non aveva mai conosciuto, e quindi ne ha modificato ogni impianto teorico, rendendo vano lo sforzo artigianale del gesto improvvisato.
Nella ricerca del luogo, e del principio ordinatore che lo determina il mezzo è indifferente ma il pensiero non ha necessità di stabilire priorità meccaniche o emotive, fluttua indisturbato verso il traguardo che si era prefissato, quasi inconsciamente, nell’assenza di regole chiare.
La macchina serve solo se la mente ne richiede l’uso, ed è pronta a rispondere a sollecitazioni che non necessariamente deve comprendere, perché l’intelligenza non sarà mai artificiale.
L’ufficio-casa è il pretesto per manifestare la nostra inadeguatezza a comprimere le trasformazioni sociali in un luogo, a stabilire nuove complessità in grado di sopportare questa velocità che il cambiamento ci impone, ma questo è un processo più ampio e irreversibile.
Lavorare o vivere, giocare, amare, comprare, percepire cultura, sono aspetti interconnessi della nostra coscienza che rendono visibile l’architettura come compagna imprescindibile della contemporaneità, è la necessità vitale che deve dare senso continuamente alle regole in divenire della società, forse per la nostra volontà di inseguire un’idea di civiltà, sempre resiliente alla banalità.
Questo è vivere nell’Adesso, senza alcuna possibilità sembrare nostalgici, retorici o peggio prevedibili, zigzagando tra “youtuber”,” influencer” e “fb addicted” che anche in architettura regalano un assordante chiacchiericcio alla sana pratica teorica e allo spessore della ricerca, accademica e pratica.
Quindi parlare di sedie e tavoli, scrivanie e divanetti ci appare fuorviante se non abbiamo ancora capito dove collocarli, ma è certo, o almeno probabile, che il caos respinge le Correzioni Istantanee che non rappresentano una soluzione, ma un’Aspirina concettuale alla fine dell’Era delle Superficialità Sovrapposte.
Questo impone una fatica intellettuale molto diversa da quella del recente passato perché il gesto estetico non ci salverà da questa nebulosa programmatico-funzionale, molto più dirompente del post-qualche cosa che, ci ha divertito dalla Strada Novissima in avanti, e quindi per leggere la contemporaneità dei luoghi non basterà inventare nuove densità: un ufficio è una casa, una casa è un ufficio ma più niente sembrerà come sembra.
Guardare al passato non significa ritornare ai “tempi belli della nostra adolescenza creativa” ma trasferire dentro la visione di un futuro, tutta la capacità analitica che fino ad oggi non avevamo compreso fino in fondo, e renderla attuale senza fermarne la forza dirompente, utilizzare i segnali che ci arrivano dal pianeta, ritrovare l’identità nel nostro agire linguistico e letterario.
Anche l’architettura dei luoghi è un romanzo con molti capitoli da scrivere, e serve impegno per raccontare una nuova storia e soprattutto per viverla, per dare una possibilità utile alla creazione e per migliorare concretamente la nostra tormentata esistenza di uomini, sempre alla ricerca di bellezza, ma sempre incatenati all’oppressione delle nostre coscienze.
Non consideriamo dunque un luogo, qualsiasi luogo come un posto da arredare, immaginiamo che quello spazio può produrre visione, innovazione e un benessere che non dipende dalla qualità dei materiali, dei colori e della luce ma dalla perfetta identificazione tra l’esistenza e la nostra capacità di progettisti di dare a quella funzione un senso da introiettare.
Non sarà facile ma ci dobbiamo provare, già oggi.
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