Gli «hôtels particuliers» di Victor Horta
Chi è il primo grande visionario dell’architettura moderna? Bruno Taut, con le dichiarazioni “assolutamente folli” del suo giornale “Frülicht”, voce dell’espressionismo architettonico tra il 1920 e il 1922? Lo scrittore Scheerbart, profeta con il suo libro “Glasarchitektur” dell’avvento di “una nuova civiltà” grazie all’architettura di vetro? Antonio Sant’Elia, con il suo Manifesto dell’Architettura Futurista del 1914? O non piuttosto Victor Horta, che vent’anni prima di loro riuscì a creare la nuova architettura di una nuova società con opere di eccezionale qualità inventiva, perfette fino all’ossessione nell’estrema cura del particolare?
La rivoluzione spaziale e figurativa operata da Horta inizia proprio nel 1893 con l’hôtel Tassel in rue Janson a Bruxelles; esso è tornato nel 1985 alla sua originale sistemazione, dopo anni di oltraggioso mascheramento. Anche questo recupero, come quello della casa-studio Dubois (1901), degli hôtels Solvay (1894) e Van Eetvelde (1895), si deve all’architetto Jean Delhaye, che dopo essere stato allievo di Horta si è fatto promotore della migliore conoscenza e conservazione delle sue opere.
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Tale è il fascino del lavoro artistico di Victor Horta, da impegnare quasi intere esistenze nel suo studio: quella di Delhaye come quella di Yolande Oostens-Wittamer, che ha dedicato un intero, imponente volume alla trattazione del solo hôtel Solvay. Se quest’ultimo merita un tale interesse in quanto sintesi estrema dell’idea di “opera d’arte totale”, che Horta poté tradurre in realtà grazie al mecenatismo di Ernest Solvay, l’hôtel Tassel ne è l’indispensabile premessa.
Qui l’architetto belga ha modo per la prima volta di mettere in atto la sua finalità creativa di una nuova architettura a partire dallo spazio interno. Se la facciata dell’hôtel Tassel, sapientemente inserita nel contesto della rue Janson, non ci dà particolari emozioni, appena entrati subiamo invece il fascino della pianta totalmente libera, in cui l’intera superficie è sfruttata per la creazione dell’ambiente abitativo: un gioco di spazi trasparenti su diversi livelli, che sono funzionali articolazioni della casa, ma anche altrettanti organismi della natura artificiale inventata da Victor Horta.
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La famosa scala, quasi un simbolo dell’iconografia Art Nouveau, diviene nella reale esperienza dell’interno una raffinata decorazione se paragonata alla forza inventiva del “jardin d’hiver”: quel caratteristico spazio hortiano a sua volta piccola casa nella casa, in cui le luce filtra da volte vetrate, dando forma e vita alle strutture e agli arredi fissi, vere e proprie: “architetture decorative”.
Ne sono un esempio le fonti di luce artificiale, liberi elementi illuminanti più che vere lampade: come quella ancora originale in cima alla scala dell’hôtel Tassel, o come gli incredibili lampadari pre-futuristi dell’hôtel Solvay. La preveggenza e l’attualità di Horta stanno anche in questi particolari, nella capacità di controllo globale sul processo creativo (il suo studio era attrezzato con un laboratorio di modelli al vero per le fonderie, gli artigiani del marmo e quelli del legno esecutori degli arredi), nell’interazione tra il linguaggio industriale del ferro e del vetro e l’estrema abilità artigianale.
A soli dieci anni di distanza dall’hôtel Tassel, la casa sulla avenue Louise che Horta costruisce per il deputato progressista Max Hallet è già espressione di una raggiunta maturità espressiva, nel ridare equilibrio alla concezione “eroica” dello spazio già proclamati nella casa di rue Janson.
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Ancora oggi abitato da una famiglia che dichiara esplicitamente l’estrema piacevolezza dell’uso di questi spazi, l’Hôtel Max Hallet già nella facciata fa pensare a una apparente rinuncia di Horta ai virtuosismi formali che lo hanno reso famoso: all’opposto dell’hôtel Solvay, l’essenzialità domina qui sul desiderio espressivo e l’interno, pur conservando elementi caratteristici come il “jardin d’hiver”, e la grande scala verso i piani superiori, dimostra chiaramente un’intenzione “neoclassica”: perfino nelle decorazioni murali Horta raffigura delle vere, bellissime rose, capovolgendo la sua famosa frase “Lascio il fiore e prendo la tige”, creata a significare la natura astratta del suo stile.
Ma nella zona della musica, e nella facciata sul giardino che le corrisponde, esplode l’episodio più futurista della carriera di Horta: tre bow-windows accostati, completamente vetrati, sorretti da esili strutture a fungo. Una visione sorprendente, pochissimo conosciuta, che rimette in discussione la presunta accademicità di Horta nella sua maturità, anticipando piuttosto le soluzioni costruttiviste e certi neofuturismi alla Archigram.
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Dalla visita al’hôtel Max Hallet, che ha la sua obbligatoria conclusione con questo “abitacolo spaziale”, si esce scossi dalla rivelazione di un Horta predecessore delle moderne utopie sulla “Architettura di vetro, salvatrice dell’umanità”.
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