XTO+J-C, la più bella biografia mai scritta su Christo e Jeanne-Claude, ha l’incipit degno d’un romanzo:
Era l’inverno più freddo che Christo Javacheff ricordasse. Il 10 gennaio 1957 Christo, assieme ad altri quindici profughi spauriti, si nascondeva tremante in mezzo a un carico di medicinali in un carro merci senza riscaldamento fermo in un punto imprecisato della Cecoslovacchia. Fuori soffiava un vento teso e gelido. 1Burt Chernow, Wolfgang Volz, XTO+J-C. Christo e Jeanne-Claude, una biografia, Skira / Fondazione Ambrosetti, Milano 2001 p.11
Una storia senza fine, come quella di migliaia di persone che ancora oggi, e forse per sempre, fuggono dal male alla ricerca del bene, per sé e i loro cari – ma che per Christo, che allora fugge dall’incomprensione e dal rigor mortis di una nazione del blocco post-stalinista, sarà il preludio a un’opera unica e indimenticabile: tra arte, architettura, disegno del paesaggio, interamente ideata e realizzata con la moglie Jeanne- Claude (Denat de Guillebon), scomparsa già da diversi anni.
Anche la vita di Jeanne-Claude è davvero romanzesca, con un’infanzia tanto esotica quanto difficile, nomade tra famiglie e luoghi, che forse anche l’ha resa così tenace e resistente per condurre in porto progetti che altri neanche avrebbero immaginato di iniziare. Legati da un destino perfino anagrafico, nati entrambi il 13 giugno del 1935 anche se lui a Gabrovo (Bulgaria) e lei a Casablanca, s’incontrano a Parigi e non si lasciano mai più: ”finché Morte non vi separi”.
Ed è stata purtroppo ancora la morte a riavvicinare il destino di Christo a quello di un altro eroe dell’arte contemporanea, Germano Celant: scomparsi a distanza di un mese, dopo aver ripercorso insieme pochi anni fa il lungo percorso di installazioni di Xto+J-C con un altro libro (The Water Projects) 2Germano Celant, Christo and Jeanne-Claude. Water Projects, Silvana Editoriale, Milano 2016 , ovvero tutti i loro più grandi progetti a scala urbana e territoriale, dal 1961 al 2016.
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Quasi 60 anni di lavoro, culminati nella popolare, “miracolosa” installazione dei Floating Piers sul Lago d’Iseo. Ancora una volta, a mezzo secolo di distanza dall’empaquetage di due monumenti milanesi (1970) e delle Mura Aureliane a Roma (1974), Christo era tornato in Italia, guidato dall’apostolo Germano.
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E ora? In questa primavera estate 2020 mai iniziata e mai finita, con troppe persone, artisti, amici che ci hanno lasciato (l’elenco è angosciante) sarebbe forse il momento di fermarsi a riflettere, sul significato dell’esistenza e del suo finire. Quanto è utile una vita spesa a inseguire progetti come sogni, a cercare di compiere un miracolo? Qual è il valore – se non il significato, neppure indispensabile – dei grandi gesti di sfida (bonaria, ironica, a volte quasi comica) alla Natura, che Christo alla fine ha sempre però esaltata, con le sue immense macchine da guardare e percorrere, le sue im-possibili imposizioni a cittadini (abitanti delle città), i suoi deformati paesaggi naturali/artificiali? Ci sarà il tempo per rifletterci su.
Intanto The Show Must Go On, lo spettacolo continua, sempre lo stesso di quella sua società profetizzata da Guy Debord. E di esso resteranno comunque le immagini, i libri, a volte le voci, e la sensazione di déjà vu/déjà vécu che inevitabilmente evocano i progetti di Christo, visti dal vero o solo in effigie. Celant ne è stato l’ultimo grande celebrante, il sacerdote (o il comandante, come lo vide Giancarlo Politi alle prime riunioni degli autori dell’Arte Povera) di cerimonie inventate per una religione laica, quella dell’arte, che certamente almeno una cosa ci spiega.
Anche gli oggetti, gli edifici – mascherati o meno – tutte le opere umane come quelle della Natura, hanno, contengono un’anima. E non è detto che sia sempre e solo quella dei loro artefici.
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