Uniti da singolari destini di fama e successo più all’estero che in Italia, due pittori – distanti cinque secoli – dedicano la loro opera alla ricostruzione minuziosa dell’effimero: dove ritrovano la profondità dell’esistenza, svelata in quadri di sublime virtuosismo
Sono nato sapendo che sarei stato pittore, perché mio padre, critico d’arte, mi ha sempre presentato la pittura come l’unica cosa accettabile. Mi dirigeva verso la pittura italiana classica, contro cui reagii ben presto, ma non ho potuto dimenticare il sapore e la pratica del Rinascimento.
Domenico Gnoli, in Domenico Gnoli, 2001
Sebbene non si possa stabilire una relazione diretta, spunti del pungente realismo di Crivelli, legati agli oggetti, agli stati d’animo dei personaggi, alla quotidianità, vennero sviluppati, per altre strade, solo nel Seicento, a partire dalla scuola lombarda e Caravaggio.
Pietro Zampetti, in Carlo Crivelli, 1961
Nemo propheta in Patria non sfigurerebbe come motto sullo stemma dello Stato nazionale (invece del tautologico Repubblica Italiana), per artisti e creativi non dotati di bravura nel business almeno quanto nel loro mestiere di scrivere, disegnare, progettare, scolpire, costruire… Con questo tratto esistenziale si potrebbero accostare centinaia di autori, con altrettanti casi di rivelazioni più o meno postume nella storia delle creatività in Italia.
Certamente la “fuga dei cervelli” di cui molto inutilmente si discute da tempo sui media non è fenomeno solo attuale. Anche in questi difficili tempi, a molti emigrare dall’Italia sembra la soluzione ideale, se in un ciclo di circolarità storica autori di grande maestrìa ancora si scontrano con lobby e poteri causa di stalli e immobilismi, a rallentare quella che potrebbe essere l’eccellenza italiana nel mondo dell’invenzione.
Non sfuggono alla sindrome del fuggitivo anche due grandissimi pittori italiani, che seppure distanti nel tempo di cinque secoli hanno visto le loro (relative) fame e fortune crescere lontano dalla patria: in un certo mondo anglosassone, tra Londra e New York con lunghi soggiorni a Maiorca, per Domenico Gnoli; nelle allora remote provincie Venete come Zadar (Zara) – a seguito di disavventure personali – e poi nella pontificia Ascoli Piceno per il veneziano Crivelli: di cui però la maggior parte delle opere saranno disperse, prima con i saccheggi napoleonici (dal 1796 al 1815) poi finite in gran parte, grazie a mercanti senza scrupoli, alla National Gallery di Londra.
LEGGI ANCHE – Locus Solus (1914): un progetto di Umanesimo e Sesamo Lab per la Biennale dello Stretto
La popolarità di Gnoli in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si deve prima di tutto ai suoi inizi, già a 19 anni, come scenografo di opere importanti in teatri italiani e poi internazionali: alla Schauspielhaus di Zurigo, poi a Parigi e a Londra, dove nel 1955 cura scenografie e costumi per l’As you like it di Shakespeare all’Old Vic (allora co-diretto da Laurence Olivier).
Frustrato dai limiti espressivi imposti dalla necessità di interazione di gruppo in teatro, si dedica soprattutto al disegno, all’incisione, all’illustrazione e alla pittura, dove rivela il suo eccezionale talento con un iperrealismo che diviene via via del tutto eterodosso: perché neppure di realismo si può parlare per le sue più note visioni pittoriche, dove il dettaglio microscopico diventa grande pattern o texture, fino a invadere completamente il campo della tela e costringendo l’osservatore a decifrare quale sia l’oggetto originale cui appartiene quel pattern stesso. Siano essi tovaglie, abiti, capigliature o mobili gli oggetti di Gnoli diventano universi, dove ci si può letteralmente perdere con la vista, in un paesaggio dove il particolare conta come il generale, il piccolo come il grande: e dove spesso quello che più risalta è l’incredibile maestrìa dell’artista nel definire per chi guarda quello che il suo occhio vede, non senza una certa ossessività.
In questo Gnoli è diversissimo da tanta coeva pittura di ordine Pop, dove l’oggetto (in qualche caso la persona ritratta) assume un’importanza perfino eccessiva, grazie anche al facile richiamo consumistico, ovviamente in primis nel caso del più naif degli artisti Pop Andy Warhol. Le sue zuppe in lattina e le sue bevande gassate risultano patetiche in confronto alla scala universale dei mondi che Gnoli è capace di evocare con la sua rappresentazione della realtà, o meglio surrealtà. E se la sua vastissima opera di illustratore include sequenze intense e sovrapposte di sembianze umane, a volte animali e anche combinazioni delle due, nella sua pittura più matura non compaiono mai volti: al massimo figure, seppure a loro volta descritte da oggetti, come le struggenti forme di una coppia distante nel letto, nella grande tela Due dormienti del 1966, dove a segnare i contorni delle due persone che dormono è il copriletto dall’elaborato disegno che li ricopre.
Qui come in molti altri quadri (Without a Still Life, 1966; Cravate, 1967; Robe verte, 1967) Gnoli non disdegna il virtuosismo, si produce anzi apertamente in incredibili performance pittoriche, spesso con la sua personale tecnica che miscela acrilico e sabbia, dove non si leggono i segni delle pennellate e con una cura maniacale del dettaglio che fa tornare il pensiero a certa pittura rinascimentale italiana, di cui proprio Carlo Crivelli è l’artista più eterodosso e – a suo modo – “maledetto”.
Il destino maudit di Crivelli è inconsapevolmente insito nella natura stessa delle sue composizioni artistiche, spesso dittici e polittici. Se per il committente dell’epoca questi sono occasione di mostrare il valore del Santo di riferimento, per il fedele un alto momento narrativo della complicata agiografia cattolica e per lo storico oggetto di studio sulle mirabili tecniche di prospettive combinate, per il mercante di opere rubate e per i musei loro ricettatori sono soprattutto l’occasione per grossi affari a pezzi ridotti, se da un unico polittico si possono ricavare fino a una decina di “quadri”.
Così dopo le prime spoliazioni napoleoniche iniziano le interminabili, rocambolesche peripezie delle opere di Crivelli, disperse lontanissime dai luoghi per cui erano state dipinte: dal giovinetto San Giorgio parte del Polittico di Fermo (1472) finito nel Metropolitan Museum di New York al Sant’Andrea apostolo catapultato da Montefiore dell’Aso (AP) all’Honolulu Museum of Art: nelle Hawaii, cinquantesimo e ultimo stato USA.
LEGGI ANCHE – Benedetta Tagliabue progetta un’architettura dello spirito
Nel farne l’oggetto preferito di rapine e commerci diretti verso il Nord Europa e il Nord America, alla cupidigia dei mercanti e alla fellonia dei più prestigiosi musei si aggiunge il genio visionario e una certa “laicità” del approccio di Crivelli all’iconografia di Santi e affini: che – con rare eccezioni – non sono mai gli invasati protagonisti delle molte disgrazie e scarse beatitudini con cui la Chiesa, über alles quella Cattolica, hanno rappresentato i destini umani dei Santi prima della gloria eterna nell’alto dei cieli: quanto invece appaiono distaccati e mondani, ironici e ingenui, esseri – donne, uomini o angeli – quasi sempre elegantissimi, fasciati da tessuti preziosi o impreziositi, in abiti smaglianti che evocano la grandezza di chi abbraccia la fede di Cristo.
Basta pensare alle corazze che Crivelli fa indossare a due dei personaggi più mitologici nell’iconografia cristiana, San Giorgio e l’Arcangelo Gabriele, spesso e volentieri confondibili: tutti e due fanno fuori il Male – Drago o Satana, che è poi la stessa cosa. Le loro armature, come tanti altri dei moltissimi oggetti che affollano i quadri di Crivelli, sono ritratte con la perizia a metà strada tra quella di un designer e di un raffinatissimo orafo: analisi tecniche di opere come il San Pietro nel Trittico di San Domenico rivelano l’abilità del Pictor Venetus negli inserti “a pastiglia” dorata, dovuta certamente a uno studio approfondito proprio delle tecniche di oreficeria. Ricche di ceselli e sbalzi in forma di creature tutte immaginate, come i fregi quasi invisibili delle “scenografie” pittoriche di Crivelli punteggiate di teschi o elefantini, le armature dei santi guerrieri integrano nel “campionario” iconografico di Crivelli un bestiario non inferiore a quello del coevo Hyeronimus Bosch: che però calca la mano sull’aspetto orrorifico delle sue creature, delle tenebre disperate o delle luci innaturali in cui vivono, mostri dichiarati, “grilli” e chimere che riportano inevitabilmente a un clima narrativo e culturale medievale, felicemente invece saltato da Crivelli già da molti anni, per entrare in una sorta di post-Rinascimento.
Karolus Venetus è anche davvero Pictor Maximus perché al primo posto, al di sopra di tutto, mette l’arte e il mestiere della pittura, o meglio del pittore: cioè sé stesso e il suo immaginare ciò che nella cultura del suo tempo è ancora iconico. E chi più iconico di un Santo? Così il San Giorgio proveniente forse da Fermo (e ora al Metropolitan NY) non solo è un bellissimo giovinetto che non sembra capace di uccidere anche solo una gallina: ma non è per niente emozionato dalle gesta appena compiute, trafiggere il Drago rimasto a terra alle sue spalle. Sta invece in posa, compiaciuto della sua splendida corazza e dell’abbigliamento che l’accompagna, nemmeno minimamente scomposti dalla lotta col Male, come in una nitida foto per Vogue: dove l’unica nota stonata è proprio la punta della perfetta lancia spezzata, visibilmente rimasta in gola al Drago che è poco più di un cagnolone educatamente agonizzante. Tutta la concentrazione, l’abilità iperrealista di Crivelli stanno nel dipingere minuziosamente i dettagli dell’effimero – i capelli, i tessuti, i metalli, i cuoi – lasciando alla comprensione del fedele intendere quale e dove sia la santità del personaggio ritratto (del resto è dipinto in un polittico in una chiesa, quindi è con tutta probabilità un Santo). Eppure Crivelli non è pittore “di corte”.
Lo sfarzo che rappresenta nei suoi quadri, grandi o piccoli, è quello che si aspetta il credente quando in chiesa va a trovare quelli che ce l’hanno fatta, proprio grazie alla fede e alla religione: mentre lui, il credente, si dibatte ancora tra desideri e sensi di colpa, fortune e disgrazie terrene. Perciò Crivelli resta un artista popolare, per quanto così raffinato e colto, tanto abile nella rappresentazione quasi scientifica della natura – vera o inventata, viva o morta, con exploit di realismo che verranno ripresi solo diversi anni più avanti da Caravaggio – quanto generosamente intenzionato a ricreare per i devoti la ricchezza reale di un mondo virtuale. Senza dimenticare che anche tra i devoti gli ultimi saranno i primi: così una delle sue opere più importanti è conosciuta come Madonna della Candeletta, per un’esile, spenta, umilissima e iperrealistica candela di cera bruna – offerta da un invisibile fedele – che si stacca in primo piano sul fondo del trionfo dell’Assunta nei cieli.
Eppure, per la legge del contrappasso, pochissimo si conosce della vita di un artista così empatico con le esistenze delle persone e le trascendenze dei Santi. Si tramanda lo scandaloso episodio giovanile del rapimento e della convivenza con la moglie di un marinaio, per cui all’età di 22 anni, già qualificato come pictor, condannato a sei mesi di prigione e 200 lire veneziane di multa, fugge da Venezia per non tornarvi mai più. Ed è attestato che nel 1490 viene nominato Miles (Cavaliere) dal popolare Ferdinando II (Ferrandino, futuro ultimo re di Napoli prima del dominio francese): ma il resto della documentazione è quella scarna di atti giudiziari, commesse e contratti. Su tutto aleggia un velo di mistero e un sospetto di damnatio memoriae. Giorgio Vasari lo esclude completamente dalle famose “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori”.
Certamente nasce figlio d’arte a Venezia, ma in data imprecisata, tra il 1430 e il 1435. Il padre Iacopo è pittore veneziano (ma non ne rimane alcuna opera) e nelle firme apposte ad alcuni quadri Crivelli figlio scrive Opus Karoli Crivelli Veneti: e ancora nella “Madonna della Candeletta” (1490 circa) quando ormai da decenni si è trasferito stabilmente nelle Marche, inserisce la scritta Karolvs Chrivellus Venetvs Eques Lavreatvs Pinxit, con l’orgoglio di chi ricorda la patria da cui si è però dovuto allontanare per sempre. Gli vengono attribuiti due fratelli pittori, Vittore e Ridolfo, dei quali però solo Vittore è certamente esistito. Non si conoscono suoi ritratti, né autoritratti.Incerto è l’anno della scomparsa (1495/1500), ignoto il luogo della morte e tantomeno quello della sepoltura.
Quasi tutto invece si sa della vita di Gnoli, fino alla fine prematura. All’inizio del 1970 gli viene diagnosticato un male incurabile e in pochi mesi muore, a soli 36 anni, a New York, dove aveva da poco tenuto un’importante mostra personale alla Sidney Janis Gallery. Lo stesso anno le sue spoglie vengono trasportate nel piccolo cimitero di Monteluco (Mons Lucus, Monte del Bosco) di Spoleto, dove la madre possedeva un villino sorto presso l’antico Eremo di San Bonifacio. Con lei Domenico Gnoli riposa all’ombra del Bosco Sacro – il primo di cui è documentata la legge Romana che ne proibisce il taglio – in qualche modo riconciliato con quella natura che nella sua arte non aveva mai particolarmente amato. O almeno, non così amata da non potersene creare una alternativa, tutta sua, personalissima e misteriosa.
Una natura artificiale dove può essere universo da rappresentare anche un solo, lungo ricciolo di capelli (Curl, 1969), pittoricamente, sincronicamente, semanticamente prossimo alla sontuosa chioma della Maria Maddalena di Crivelli, dipinta nel 1475/6 per la chiesa di San Francesco a Carpegna (PU) e arrivata nel 1960 al Rijksmuseum di Amsterdam (passando perfino per il Führermuseum di Adolf Hitler a Linz): la più sfarzosa, enigmatica eppure seducente Maddalena di tutta la pittura rinascimentale italiana.
Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato: