Dedicato a Giuseppe Margaritelli (1928-2021)
Qualche anno fa il prof Ivan Rizzi, presidente dell’Istituto di Alti Studi Strategici e Politici, mi invitò inaspettatamente a scrivere un contributo per un libro dedicato ai Maestri e alle grandi guide delle contemporaneità. Una riflessione fuori dal quotidiano tra Etica e cultura d’impresa. Sul fondale: fragilità delle democrazie e del senso di comunità, in un’epoca dominata dalla rivoluzione digitale.
Fui imbarazzato per diversi motivi. Non fu solo l’effetto di una personale, innata avversione per le grandi guide, innescata probabilmente da certi anticorpi di pensiero laico e liberale inoculati in gioventù.
Il panorama dei leader politici mondiali mi appariva sconsolante, anche i punti di riferimento morali sfumati. E poi Etica è una parola che non amo maneggiare, perché è una provetta delicata che è meglio non scuotere, soprattutto quando dalla sfera strettamente personale la si intenda allargare alla Società, per non dire allo Stato. Gli esperimenti del Novecento dovrebbero essere bastati.
Infine c’era pure quel sottile velo di pigrizia, che spesso non riusciamo a infrangere da soli, se non troviamo chi ci obbliga a farlo. Pensare è una cosa, ma mettere nero su bianco richiede tempo e ben altra fatica. È la stessa differenza che passa tra avere buone idee e realizzarle. Ogni imprenditore lo sa bene.
Il prof. Rizzi fu molto abile ad abbassare, una a una, le transenne che avevo garbatamente anteposto, e lo fece attraverso una lunga conversazione nel suo studio milanese che, prendendo le mosse da Lucio Fontana, ci portò amabilmente a spasso tra arte, architettura, filosofia (per me sempre un po’ inafferrabile) e pensiero politico. Parlammo soprattutto di democrazia e informazione nella nuova era digitale. Mi arresi infine al compromesso di un’intervista da riportare a testo scritto, che finì nel libro “Maestri e nuove guide “ edito da Rubbettino a luglio 2017.
Lo recupero e pubblico oggi in due parti.
Questa seconda è dedicata a mio padre, perché molto parla di lui.
Perugia, 16 febbraio 2021
Essere custodi responsabili (parte II)
[…]
Passando invece ad una dimensione personale, su una scala molto più piccola dunque, i maestri di vita sono stati i più imprevedibili.
Hanno avuto il volto di singole persone, così come quello di esperienze vissute. Mi soffermo su quest’ultimo aspetto in quanto ritengo molto significative dal punto di vista educativo anche alcune tappe della nostra attività imprenditoriale di famiglia.
In modo particolare le buone pratiche della selvicoltura da noi scoperte in Francia nei lontani anni Sessanta e trasferite poi in Italia, che trovo abbiano molta attinenza al tema dei maestri e delle guide perché portatrici di lungimiranza. Sappiamo bene come l’agricoltura abbia sempre ottimi insegnamenti da impartire, in quanto contiene dei radicatissimi principi di buon senso. Bene, la selvicoltura aggiunge a questo patrimonio di saperi elementari, una singolare visione di lungo periodo.
In Francia da mille anni si gestiscono foreste con una logica che prevede la messa a dimora di piante i cui frutti non saranno visti né dai figli né dai nipoti, ma raccolti solo a distanza di ben due secoli. Compiere l’atto di trasferire al futuro un patrimonio – in questo caso naturale – ti fa rendere conto del carattere particolare di questa azione, dell’insegnamento del far bene che si perpetua di generazione in generazione, e che in maniera quasi automatica sei indotto a restituire.
L’arte del prendersi cura e custodire, svincolato da un utilizzo immediato, rende merito e conserva memoria di chi ci ha preceduto. Dando valore a questa ragione di carattere superiore l’uomo, in fondo, individua una via per sopravvivere a se stesso, e in qualche modo afferrare un lembo di immortalità. È sicuramente un esempio questo di un’esperienza di campo, che ha pieno titolo per definirsi maestra.
Nella vita chi è stato invece per me un maestro in carne ed ossa sono sicuro che rifuggirebbe questa definizione. Sono persone insospettabili, silenziose guide del fare, di un insegnamento impartito sotto traccia attraverso l’esempio, che resta la più grande aula formativa messa mai a disposizione dell’uomo. Ho avuto la fortuna di incontrarle nei luoghi più imprevedibili e disparati; da loro ho tratto preziosi insegnamenti, nonostante ne siano probabilmente inconsapevoli.
È avvenuto ad esempio con un designer e architetto di fama come Michele De Lucchi, a cui devo il saggio insegnamento che nella vita è preferibile ricercare in profondità il senso autentico delle cose, e lasciare invece la fama, insieme alle sue false adulazioni, appese alle pareti di un ripostiglio. Un pensiero molto medioevale, di un pensatore molto contemporaneo. Che si unisce a un secondo altrettanto valido: si può essere rivoluzionari anche senza urlare e calpestare ciò che si vuole superare.
Oppure con una personalità del mondo della cultura come Philip Rylands, storico dell’arte e direttore della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia che, tracciando con il suo garbo anglosassone un’unica linea di congiunzione tra Palma il Vecchio e Jackson Pollock, mi ha mostrato che creatività e bellezza cambiano forma, ma non sostanza, e superano i limiti del tempo. E che il rapporto tra arte e impresa, cioè tra cultura ed economia, si nutre di ascolto, scambio reciproco e soprattutto del più prezioso e genuino degli ingredienti: la relazione umana.
Da un professore universitario, ormai scomparso, come Guglielmo Giordano ho appreso che l’insegnamento è un servizio che richiede infaticabile dedizione e che non si finisce mai di imparare dalla natura se si ha la curiosità e pazienza di osservarla.
Ma senza andare troppo lontano, molto ho appreso sulla responsabilità sociale del fare bene impresa dall’insegnamento di vita di mio padre.
Che custodisco riservatamente, come un bene prezioso.
Ciascuno a suo modo, mi ha offerto testimonianze impagabili. Lezioni impartite in una forma del tutto naturale. Senza salire in cattedra, senza toni paternalistici, sempre a voce bassa e lontano dai riflettori. Ma con parecchia pratica sul campo, che resta sempre il terreno prediletto dei veri maestri.
Tra i tratti unificanti di tutte queste figure, tanto diverse fra loro, riconosco l’attitudine a circondarsi delle persone migliori e la generosità d’animo di chi tiene molto più a cuore l’atto del trasferire conoscenza che non quello di conservare gelosamente un sapere acquisito. Non credo sia un caso che tutti coloro che io considero grandi maestri a loro volta siano stati prima attentissimi allievi.
In effetti la capacità di trasmettere è intimamente legata alla curiosità e capacità di apprendere. E qui mi ricollego ancora una volta alla selvicoltura che tra i molti esempi di vita offre anche quello del trasferimento della conoscenza.
Di nuovo torna a galla la parola chiave lungimiranza, quel generoso sguardo in avanti che permette di sentirsi custodi del tempo e non solamente produttori o consumatori. La selvicoltura sostenibile, unico aggettivo che si addice a questa antica pratica, non è tanto un atto orientato a produrre o utilizzare ricchezza quanto invece finalizzato da sempre a salvaguardarla e trasferirla.
Lo stesso principio guida si applica bene all’insegnamento, inteso come capacità di tramandare un patrimonio culturale, così come all’impresa vista come portatrice di ricchezza sociale. Quest’ultima è da intendere in primis come un organismo sociale, una comunità di persone delicatissima da formare, un bene tra i più preziosi e difficili da costruire, ma estremamente fragile.
L’impresa è un’alchimia magica, come un delicato cristallo, il cui ingrediente più importante è rappresentato dal capitale umano.
L’imprenditore è garante del suo perpetuarsi nel tempo mantenendolo vitale, fertilizzandolo continuamente di energie nuove, preservando un codice genetico e un tessuto connettivo fatto di unità di spirito e valori.
Anche questo richiede un lungimirante atto di conservazione.
L’essere consapevoli della fragilità di ciò che maneggiamo – dalla famiglia, all’impresa, alla società fino – su una scala ancora più larga – alla democrazia, ci rende coscienti che il nostro compito è di essere custodi responsabili.
Il tessuto imprenditoriale deve essere educativo, deve far nascere il desiderio di un senso non solo banale e utilitaristico, dato che l’obiettivo ultimo in fondo è conservare e tramandare. Non necessariamente di più, ma sempre leggermente meglio rispetto a ciò che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti.
Questo leggermente meglio è ciò che costruisce il progresso.
È evidente che il tema delle guide e dei maestri, nelle sue varie declinazioni, segue gli stessi princìpi di responsabilità, di lungimiranza, del prendersi cura.
Il principio del buon insegnamento del resto funziona in ogni campo, sia nella grande scala che in quella più piccola.
Ma torniamo alle grandi guide. In un momento storico pur complicato come l’attuale, in verità non mi sento affatto orfano delle personalità monumentali, quasi eroiche e salvifiche, uomini della provvidenza di cui una società matura non dovrebbe mai avvertire la mancanza. Principio che Bertold Brecht affida al suo Galileo con il celebre monito “sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi”.
Trovo molto più interessante guardare alle tante piccole virtù civili che, crescendo dal basso, rendono una società robusta. La formazione diffusa è una tematica che riguarda l’istruzione e la cultura come via per sviluppare criticamente un efficace metodo di lettura, ovvero una sana capacità di confronto con la realtà, continuamente mutevole, che ci circonda.
Tanto più in un’epoca che pare aver scelto la sola tecnologia come propria guida, e sposato la velocità come principale criterio di misura.
Se vuoi andare veloce vai da solo.
Se vuoi andare lontano vai insieme.
Proverbio africano
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