Capitolo I
Ricordo esattamente l’istante in cui nel mezzo della folla annoiata mi sono accorto del tuo sguardo incantato. In quel momento ho capito cosa deve provare un’anima sperduta quando, tra tanti corpi, riconosce quello in cui sceglie di reincarnarsi.
(Dal film La corrispondenza)
Un volto profondamente mutato dai dispositivi di protezione tesi a salvaguardare la salute e integrità della persona, espressioni facciali distorte e mimiche congelate, riconducono la nostra identità visiva ad un effige opaca e sciatta, torniamo allora ad affondare lo sguardo nello sguardo.
L’eminente filosofo e studioso russo Pavel Florenskij è ossessionato dal volto, ed in particolare dal valore ontologico dallo sguardo. Un pensiero così attuale e toccante che, attraverso questo breve cammino, ci permetterà, forse, di far cadere la maschera!
Lo sguardo poteva, e doveva essere, sia centripeto che centrifugo – secondo Montaigne – ma “le regard sur moi” è rivolto verso se stessi. Uno sguardo “allo specchio” che penetra l’intimità del soggetto, attraversato da sentimenti e stati d’animo, gettando le basi per abbracciare nuove prospettive esistenziali in una sorta di moto perpetuo teso al superamento di stessi. Il risveglio alla presenza del mistero non al di là del mondo, ma dal di dentro, ci lega con un filo sottile al pensatore russo.
Così, la ricerca di una pienezza interiore e il tentativo di definire in maniera “stabile” (ciò che stabile non è) l’identità personale, in quella vitale tensione dell’esistenza, che ci rende consapevoli del fatto che la vita è continuo movimento e costante rinnovamento.
In questa dicotomia all’interno della quale l’individuo si dibatte, polarizzato tra interiorità ed esteriorità, mondo visibile ed invisibile, materia e spirito, personale ed universale; l’atto del contemplare è la forma interiore della conoscenza, lo scivolare dello sguardo verso una dimensione ignota e misteriosa, che sembra interrogarci, e chiedere di essere conosciuta o riconosciuta nel suo essere sostanza, substrato. Conoscere, per Florenskij, “implica sempre vedere una cosa nel suo significato, nel suo dono di sapienza, nella ragione della sua esistenza, ove il criterio razionale indica una direzione e mai è confuso con il fine ultimo della cosa e del suo accadimento”.
Pavel A. Florenskij è una delle figure più significative e sorprendenti del pensiero russo, riscoperto dopo oltre mezzo secolo di oblio come uno dei maggiori pensatori del Novecento (soprannominato, forse provocatoriamente, come il Leonardo da Vinci Russo). Florenskij è una personalità complessa e dioramatica, anzitutto filosofo della scienza, fisico, matematico, ingegnere elettrotecnico, epistemologo, ma anche filosofo della religione e teologo, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e di semiotica.
La dualità dell’esperienza del mondo, umana da un lato e scientifica dall’altro, sembra porci davanti ad un bivio, invita ad un confronto –occhi negli occhi -con due visioni antitetiche nei confronti della vita: interiore o esteriore, che danno vita a due diversi tipi di cultura “contemplativo-creativa e rapace-meccanica”.
Di fronte a noi si stagliano, immense, due colonne di senso alle quali appellarci: l’aprirsi del volto (sguardo) alla vita interiore, via per il mistero e lo stupore della conoscenza contemplativa, oppure l’esteriore e bramoso dominio del mondo e delle sue creature (una forma d’ingordigia che trasforma il volto in maschera).
Se, come intuiva Wittgenstein, «il volto è l’anima del corpo», la porta regale (con riferimento esplicito all’opera di Florenskij Le porte) si dischiude all’Essere come lembi di un’ostrica, l’uomo si arresta tremante di fronte all’infinita possibilità di “manifestare o nascondere l’essere”. La terribile libertà può farci annegare nell’esperienza del male, dinanzi a quella larva d’essere chiamata maschera. Solo la sua caduta – una profonda rottura – consente il ricongiungimento con il piano più “alto” al quale aneliamo, permette di superare l’abisso del vuoto per ritrovare il calore autentico dell’essere. E’ qui che lo sguardo viene calamitato verso l’alto, aspirando a quel modello originario che è l’archetipo dell’universale-divino.
“Nel volto il movimento della vita si riflette in maniera interiore a differenza del resto del corpo, ove prevale una dinamica più esteriore. Pertanto per comprendere la natura delle idee è necessario confrontarsi con l’espressività del volto” ci avverte il pensatore russo, che trova in esso il fondamento ontologico e salvifico del volto-sguardo.
*”Ogni condizione particolare dell’uomo, ogni momento della sua crescita, ogni suo movimento, in maniera più o meno forte, brilla della luce del suo sguardo, della sua specie”. Se esaminassimo l’ambito pittorico, facendo tappa nello specifico alla pittura ritrattistica, potremmo annotare (e ammutolire) che la maestria dell’artista, colui che infonde intensità alla vita del ritratto, dipende essenzialmente dalla quiete e dall’ampiezza del movimento dello sguardo che contempla, custodisce, raccoglie.
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Bagnatosi nel fiume sacro dell’estetica del ritratto Philosophie der Kunst- (opera d’inizio Novecento che ha accumulato su di sé la patina del tempo) di B. Christiansen “penso che non saremo molto lontani dalla verità affermando che nell’oggetto estetico più importante di qualunque cosa è la struttura teleologica.”. Il Nostro, ispirato dal segno dell'”oggetto estetico”, rivela l’unità della costruzione del volto, sintesi ideale di una molteplicità unificata (che nello sguardo racchiude l’impronta del divino) alla radice della struttura interiore della personalità, chiave di volta della vita interiore della persona.
Chi, se non “la persona umana nella sua propria autoconsapevolezza” è capace di portare in grembo tutta la ricchezza di quell’intimo movimento, e il simbolo visivo di tutti questi movimenti interiori è il volto. Il compito supremo a cui l’artista, o meglio il ritrattista, è designato sta proprio nel cogliere questo viaggio interiore, quel «fremito dell’anima immobile […], trattenere questi ritmi interiori dell’anima che vibra».
Quando si recita “Il volto è lo specchio dell’anima” si intende appunto una verità fondante: sul volto della persona umana traspare in modo tangibile l’essenza interiore del movimento dell’anima, quel fluire carsico della vita spirituale entro un “ordine”.
Nulla più del volto può favorire e far cadere nella ragnatela del presente l’incontro tra natura e mistero, fenomeno e noumeno, esperienza e trascendenza, esteriore e interiore, visibile e invisibile. In virtù di questo suo sottile e magnetico potere il volto assurge a simbolo per eccellenza della persona, della sua unicità e identità, della sua autocoscienza e del suo irriducibile mistero. Il volto-persona non può, né mai potrà, essere confinato all’immobilismo senza vita della “cosa” e di un concetto astratto; esso trascende i limiti di ogni concetto. Ecco perché «della caratteristica radicale della persona è possibile creare solo un simbolo, un segno, una parola».
Espressioni diverse che rispondono singolarmente al proprio stato spirituale, al movimento interiore della personalità con una sua forma nel tempo. L’immagine mutevole del volto è la costruzione della personalità nel tempo; in particolare, ciò che dona al volto il suo tratto peculiare e irripetibile, la sua tonalità emotiva unitamente al suo motivo melodico principale, «è dato dalla relazione reciproca tra la bocca e l’occhio. La bocca parla, l’occhio risponde. Nella forma della bocca si concentrano le emozioni e la tensione della volontà, negli occhi regna la quiete decisiva dell’intelletto». Sul volto-sguardo è impressa misteriosamente l’idea stessa di persona.
“Già, ma che cos’è poi lo sguardo dell’uomo – si chiede Florenskij – non è forse l’idea che traspare sul suo volto? La riproduzione di uno sguardo umano in un ritratto è l’idea di questo determinato volto, percepita anche da chi lo contempla dall’esterno. Se il volto dell’uomo è destinato al continuo mutare, il suo sguardo traluce nel volto, esso è ciò che non invecchia”.
All’interno della titanica produzione scientifica, filosofica e teologica di Florenskij, spicca per rigore teoretico e intensità spirituale il suo “personalismo” iconico. Questo piccolo contributo si limita umilmente a fissare il proprio sguardo sull’assoluta rilevanza del volto quale epicentro simbolico della sua filosofia antropologica; il volto-sguardo nel quale è impressa la sostanza ontologica della persona, ma nel quale può aver luogo la teofania dell’Essere. Anche per Florenskij infatti, come più tardi per Simone Weil, «una delle virtù capitali del Cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti, è che la salvezza sta nello sguardo».
Fonti:
*Caleidoscopi e conchiglie: Introduzione alla simbolica di Pavel A. Florenskij di Marina Guerrisi
Lo sguardo nel Platonismo teologico di Florenskij – Antonio Leopardi
Pavel Florenskij tra Icona e Avanguardia a cura di Matteo Bertelé
L’ontologia del volto-sguardo nell’estetica di Pavel Florenskij Natalino Valentini
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