Hannah Arendt (Hannover 1906 – New York 1975) pubblica “Vita activa” (titolo originale “The Human Condition”) nel 1958, pochi anni prima del suo libro più famoso, il citatissimo (almeno nel titolo) “La banalità del male”, raccolta (del 1963) dei suoi reportage sulle udienze del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme.
Con il termine vita activa la filosofa tedesca, naturalizzata americana, si propone di designare tre fondamentali attività umane: il lavoro, l’operare e l’agire, fondamentali perché ognuna corrisponde a una delle condizioni di base della vita sulla terra, dove: “La pluralità è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà”. Ma l’esistenza dell’uomo è un vivere condizionato che sarebbe impossibile senza le cose e le cose sarebbero solo un insieme di enti privi di relazioni, un “non mondo” se, di rimando, non condizionassero la nostra esistenza. Il problema è la “misura” di queste cose, il loro costo in termini di produzione e consumo.
In una veloce analisi storica, Arendt dà ulteriore rilievo al termine vita activa, in opposizione a vita contemplativa, ricordando come già in Agostino ricorra, come vita negotiosa, una vita dedicata alle questioni pubblico-politiche, ma ancora prima, essere politici, cioè vivere nella polis, voleva dire che tutto si decideva con le parole e la persuasione e non con la forza o la violenza, fino a definire: “È la libertà della società che richiede e giustifica la limitazione dell’autorità politica. La libertà è situata nel dominio del sociale, e la forza, o la violenza, diventa il monopolio del potere […] Ciò che rende la società di massa così difficile da sopportare non è il numero delle persone che la compongono, ma il fatto che il mondo che sta tra loro ha perduto il potere di tenerle insieme, di metterle in relazione”. Questo nella consapevolezza del carattere rovinoso della bontà o meglio della sua impossibile applicazione nell’ambito della dimensione pubblica in quanto portatrice di corruzione (già Machiavelli, nel Principe, insegnava “come non essere buoni”).
Il lavoro, l’opera e l’azione sono i titoli dei capitoli centrali del saggio. Perché distinguere tra lavoro e opera? Perché gli ideali dell’homo faber, costruttore del mondo: permanenza, stabilità, durevolezza, sono stati sacrificati dall’abbondanza, ideale dell’animal laborans: “Dobbiamo consumare, oserei dire divorare, le nostre case e i mobili e le automobili come se fossero buone cose della natura, che si guastano se non sono trascinate rapidamente nel ciclo interminabile del ricambio dell’uomo con la natura […] La richiesta universale di felicità e l’infelicità largamente diffusa nella nostra società sono i segni più convincenti che viviamo in una società dominata dal lavoro, ma che non ha abbastanza lavoro per esserne appagata”. L’assurdo è che non la distruzione ma la conservazione è il più grande impedimento al processo di ricambio, la cui accelerazione è la sola costante significativa.
La sicura modernità di Hannah Arendt nell’affrontare il tema del lavoro è data anche da una sorprendente citazione di Aristotele (che anticipa di millenni Jobs, Gates, Bezos e gli altri tech-Mida contemporanei): “Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo, come si dice delle statue di Dedalo o dei tripodi di Efesto, e la spola riuscisse a tessere da sé e il plettro toccasse la cetra senza che una mano lo guidi, gli artigiani non avrebbero bisogno di aiuti, né i padroni di schiavi”.
Dovremmo tutti essere più attenti a quello che dicono i filosofi.
TWITTA:
Hannah Arendt
Vita activa
Bompiani, 2017
pp. 448
Isbn 9788845295461
di Danilo Premoli – Office Observer
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