È un metodo, un’attitudine, una condivisione complicata di status, dove ogni momento antropologico diventa oltre a se stesso qualcos’altro, e non necessariamente migliore o peggiore degli altri piccoli mondi italiani, parcellizzati e schiacciati dalla necessità concettuale dell’identità.

Architettura, politica urbana, politica, imprenditoria (quella che un tempo veniva chiamata dei “Capitani Coraggiosi), dove tutto è nato, ma anche morto, dove nonostante le enormi difficoltà ambientali è stato ed è:”the beautiful place to be”, come insegnano studenti, professionisti con l’iPhone che hanno sostituito romanticamente artigiani e operai con la schiscetta.

Milano ha questa incredibile fascinazione perché come ricordava Vittoriano Viganò, grande milanese:”non è bella ma piace perché sa far bene l’amore”, perché vengano tutti qui, ancora non è chiaro ma cercheremo di individuare l’irresistibile appeal attraverso alcuni indizi.

Città costosissima, velocissima, arrogante, individualista, inquinatissima, pericolosissima, eppure negli ultimi due decenni la popolazione è cresciuta rispetto al precedente spopolamento da sequenza di crisi economiche.

Milano piace anche se nessuno ha il coraggio di dirlo chiaramente, perché ancora oggi ti senti parte del grande progetto misterioso che la proietta verso lo spazio indefinito.

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Prima c’era la musica, la letteratura, l’industria, l’architettura, il calcio, poi non ha più controllato le sue trasformazioni, sovrapponendo ambizioni variegate ad indifferenze politiche e sociali,”franza o spagna purchè se magna”, e il motto è stato declinato alla milanese, certo dopo le metastasi, la neoplasia di mani pulite, e tangentopoli, si “pagava” si, ma con un certo stile.

Ecco quello che manca quando ci allontaniamo da questa piccola città, uno scrigno di centottanta chilometri quadrati, manca l’aria, compreso l’inquinamento, tutto sembra troppo diverso per essere accettato, forse perché nonostante un certo autolesionismo, più caratteriale che reale, qui la cassetta degli attrezzi è completa: dal quadrilatero alle neo-periferie.

Spazio, tempo, luogo, forma

“Com’è bella la città

Com’è grande la città

Com’è viva la città

Com’è allegra la città

Piena di strade e di negozi

E di vetrine piene di luce

Con tanta gente che lavora

Con tanta gente che produce”

Com’è bella la città.1971.Giorgio Gaber

Spazio.

Lo spazio non è mai o non è solo quello che sembra, che appare, ma è una continua sovraincisione dei desideri che si determinano convenzionalmente proprio il quel punto specifico dell’universo, nel senso che noi abitatori, attraversatori di città, diamo alla città, la sua vera dimensione ideale, progettuale, simbolica e soprattutto estetica.

Milano dunque come metafora dello spazio come potrebbe o dovrebbe essere definito il principio urbano che supera la sua dimensione convenzionale, ma anche ingannevole, una solitudine filosofica dove l’affermazione più spericolata potrebbe essere condivisa :”Lo spazio sono io, ogni volta che ho la necessità di vivere un nuovo inganno”.

Io, noi, tutti, come metonimia del corpo sociale e politico, come modificazione costante della percezione che si infrange in una qualsiasi forma di realtà, e ci regala, la città, com’è bella la città come” frazione di un tutto” che mai potrà essere condiviso, proprio come lo spazio

Tempo

Il tempo di una città è sempre letterario, viene scandito dalle intuizioni dei grandi romanzieri che l’hanno cantata, sempre in questo flusso confuso dove solo Gadda o Bianciardi, ma anche i poeti come Montale hanno saputo descrivere questa Milano sempre in divenire, e cosa avrebbero mai potuto “dire” i filosofi o gli urbanisti, dopo le parole contundenti, letali, di Scerbanenco?

Quindi lo scorrere di questo fiume che ci contiene, che cambia abitudini e annebbia le nostre percezioni dall’adolescenza incendiaria, alla vecchiaia nervosa e silente, questo tempo non vuole e non può essere condiviso, neppure quando le stagioni della politica e la nostra nostalgia ci relegano ad un passato sempre splendente, luminoso solo perché pieno di speranze svanite. anche una città è come un uomo che nel tempo, riduce le sue ambizioni, le forze, e purtroppo i sogni.

Il tempo di oggi, questo presente permanente ci consente di vivere a pieno la natura superficiale e scontata di “un adesso” senza storia, senza memoria, senza.

Luogo

“questo convegno si chiama fiera di Sinigallia, tenuta ogni sabato, di pomeriggio, dalle parti di Porta Lodovica. Il mito di porta Lodovica-(che ci sia ciascun lo dica, dove sia nessun lo sa)pare proprio, mi dicono, sia una cosa seria. Tutte le Porte di Milano, si ha un bel girovagare, fantasticare, ma han l’aria di un mito: non fossero i granitici tempietti o gli archi fendinadèi o napoleonici superstiti ai vecchi dazi”

Carabattole a Porta Lodovica. Carlo Emilio Gadda.Panorama,1940

“Piove su via Solferino”

Piove. Eugenio Montale. Satura 1971

Gadda e Montale parlano di luoghi, raccontano metafore sulla città in cui vivono, e per il ligure Montale nasce, si caratterizza un’attitudine tutta milanese, via Solferino, non è una strada ma la sede del più importante giornale del paese, metonimia e  luogo simbolo milanese, baricentro paradigmatico ,come la Fiera di Senigallia, legata ad una Porta inesistente che nessuno conosce, neppure il Gran Lombardo.

Ogni città nasce dal nulla, perché il luogo che l’ha generata viveva benissimo senza, e vivrà anche dopo, quando scomparirà; solo nella cultura urbanistica si cercano pretesti per dare un senso a quella scelta: il mare, il clima, la pianura.

 Non basta e non serve, ogni città è un “tesoro privato di luoghi”, che abbiamo introiettato e digerito, sui nostri slanci estetici, sui nostri principi etici, ne siamo gli artefici e i custodi, perché è il prodotto più alto del pensiero umano e urbano, una cultura del progetto che ci dona la nostra città ideale, o semplicemente la nostra città

Forma

La forma è la solitudine della scelta soggettiva, l’architetto sconfina nel proprio narcisismo attivo e produce “la cosa”, sfida il paesaggio costruito e sedimentato da poco o troppo tempo col nuovo, con l’altro e non riempie un vuoto ma modifica definitivamente un pieno.

È l’ossessione della diversità, la fuga da ogni pre-esistenza, la forma dialoga con gli incubi e i dubbi che l’hanno generata e nel nuovo alligna tutta l’ansia del progettista che riscopre il tragico come essenza dell’architettura sia essa vissuta come parodia che come ineluttabilità

La forma ci interroga sul nostro essere produttori di sogni, incapaci di resistere alla colonizzazione del “vissuto contaminante”.

La forma dell’astrazione, figlia dello spirito teorico, scompare come architettura nell’attimo in cui viene “usata”, abitata, manomessa, imbastardita.

È una sfida oggettuale, ci osserva e ci giudica dopo averla generata, vive in autonomia e parla ad altri, guarda ad una realtà lontana dall’origine del progetto che l’ha resa reale, la forma. Ah la forma!

Come se l’artefice anziché l’uomo, fosse altro, come se fosse inutile.

La descrizione impossibile

Cos’è dunque, cosa è diventata questa grande città civile? capace di mobilitarsi per qualsiasi causa, sempre pronta sui diritti e sui doveri, un’anomalia tutta italiana come sommatoria di tutte le grandezze italiane?

La città si è parcellizzata, atomizzata in categorie dello spirito e della società, meta-gruppi che non comunicano tra loro, ma che si rafforzano per spinte centripete.

L’offerta è grande ma con l’esclusiva accettazione di un capitalismo predatorio ed escludente.

Splendente certo di nuove torri e di condomini luxury, che ha dovuto vendere la sua anima popolare per sopravvivere alla competizione tra grandi e piccole capitali del mondo ,Milano non può più aspettare nessuno, deve continuare a vincere, ma in questo presente, non c’è spazio per molti, interi gruppi sono stati sfracellati, immolati sulla pira del profitto.

E’ la cultura post-post moderna che esige performance che potranno essere superate forse dalla metà degli abitanti dell’antica Milano, e le periferie stanno per diventare non praticabili per gran parte dei cittadini tradizionali.

Un sindaco qualsiasi, dirà che comunque non è obbligatorio vivere qui, che anche l’Oltrepò è bello e meno inquinato, ma mentre lo dice ci sono troppi sindaci del novecento che, probabilmente non avrebbero mai immaginato di non poter più ospitare quanti giungono da lontano, da molto lontano, da quel “bel paese” che ancora ci ostiamo a chiamare così.

“Ci sembrava di essere intelligenti perché l’architettura avrebbe migliorato il mondo, l’avrebbe reso quasi perfetto, in una tridimensionalità di grafite, senza sbavature e case senza tende e grattacieli leggeri leggeri, piazze nelle quali discutere e caffè scintillanti, adrenalinici, dove scrivere altri manifesti e luce, luce ovunque nei musei pieni di talento, ma quello che avremmo voluto l’abbiamo dimenticato quasi subito”.

MDC. Mi senti? Trattato sull’Architettura come Comunicazione Umana. 2017 . Il Quadrante

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