“Anche questa volta ho trovato una via d’uscita”.
Nulla esprime l’espiazione come le tormentate e polverose vicende narrate nei romanzi di Omar Di Monopoli.
Si sente il rumore del ferro, arrugginito, polvere di ferro accumulata nelle aie pietrificate dal tempo e dal calore insopportabile, vissuto come una bestemmia, senza tregua, senza scampo, senza niente.
I personaggi sono quelli che piacciono a noi, già votati al martirio, fin da bambini.
Già pronti per una liberazione esistenziale vissuta da tempi memorabili, solo in attesa di una qualche possibilità di tragedia, di morte, di sangue, di birre Raffo, di carte da gioco sporche, di inarrivabile bruttezza.
Niente che ci ricordi l’altro Salento, il mare, gli ulivi, niente, soltanto quella violenza sorda, sterile che non promette nulla di buono. E che nulla di buono potrà mai restituire dalla terra.
“Nella perfida terra di Dio” è il primo romanzo pubblicato da Omar Di Monopoli per Adelphi nel 2017, e ci ha sorpreso per la maturità, la ricchezza degli ingredienti narrativi, e per la felicità espressiva nello sviluppo delle scorribande, tra i caratteri assortiti e nella precisione raccontata da ciascuno dei personaggi.
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Per questo ci hanno raccontato di Sam Peckinpah, Tarantino, o Faulkner o tante altre derive noir incastonate nel neo-realismo pugliese, così lontano dell’iconografia della dolce e biondissima Puglia.
Di Monopoli sembra avere la necessità di rincorrere l’orrore caldissimo di una terra che non riesce più a ritrovarsi, sembra accendere emozioni troppo forti per essere sopportate, e anche in questa “perfida terra”.
Ogni sorta di mascalzoni, di bulli, di delinquenti e di varie fatture si confrontano sempre sull’orlo dell’abisso, tra monache poco religiose, ragazzini saggi e già adusi ad ogni tipo di violenza e donne fatali che cercano solo di sopravvivere all’odiosa perfidia, del dover stare in questa parte bellissima e terrificante del mondo.
Tore è il carnefice costruito dalle cronache spicce, minime, per lui sparare o essere uccisi è soltanto un soffio di vento impalpabile che ci costringe a guardare in faccia la nostra assoluta e costante inadeguatezza.
Eppure è tutto così efficace, doloroso, scabroso ma perfettamente umano, realistico, essenziale.
Potremmo anche immaginare una giornata al mare tra le dune, tra una grigliata di pesce o rifiuti tossici da smaltire e suore avide di inverosimili lottizzazioni che neppure nei resort iper-volumetrici di quello che appare, e lontanissimo, il nord, il resto del mondo: il pianeta.
Ci sono i santoni, i guaritori, il sesso, la notte di una ragione che non riesce a ragionare, di un mondo che non può espiare le troppe colpe accumulate, senza motivo, senza speranza, senza storia. Tutto in un secondo o in tutta la vita.
Certamente è scrittura cinematografica ma raffinata in tutte le sue inquadrature, scavata come si trova conciata, in ogni fotogramma, in ogni battito di ciglia, in ogni fuga.
Rancida come per sfida, come se volesse vedere gli occhi di chi non ha più nulla da guardare, e non basta il rallenty dello slang del tavoliere, per separare i cattivi dai cattivissimi.
Un padre che vuole tornare per riprendersi quei figli che non conosce, per insegnare loro la violenza che devono condividere, per rivedere, l’antro di un padre scomparso, che ha rinunciato a possedere una terra maledetta, frutto di idolatrie e di altri ulteriori inutili delitti.
Lasciare quella “rrobba” significa rinunciare ad un’identità, tornare ad essere liberi, e Tore lo sa, compirà ogni più orribile delitto pur di ritrovare qualche forma di radice, un poco di sangue del suo sangue, qualcosa per cui vale la pena uccidere.
Ma la mamma, la bellissima femmina amata, scompare, lasciando i piccoli senza speranza e nella solitudine degli incantesimi e delle idolatrie, tra riti tribali e concessioni ad un horror elementare sadico e infantile.
Il romanzo si srotola nel “calor bianco” di tutte le giornate estive del mondo, e i contesti umani poco influenzano le strategie dei cento personaggi, di tutte le speculazioni, di tutte le antichissime vendette che non sembrano spaventare nessuno, neppure un destino che ha già compreso come andrà a finire.
Tore, la nuova compagna, i bambini, i camorristi e tutti gli altri in fondo non sanno che pesci pigliare e non sperano più di poter uscire dal labirinto delle loro angoscianti frustrazioni, sempre costretti a ripetere le stesse violenze, gli sgarri, le perquisizioni, i carabinieri ligi o corrotti, perfino i capi della malavita sanno perfettamente di non possedere alcuna credibilità.
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Qualcuno morirà, altri scompariranno, altri violenteranno qualcun altro, Tore il buono, non è Totò di Miracolo a Milano, anche perché nessuno di questi ha mai creduto a qualsiasi tipo di miracolo e se scompare una mamma, sappiamo benissimo che fine può aver fatto.
Non sono neppure Peckinpah, o McCarthy/Cohen, o Tarantino sono solo pagine che ci impediscono di capire quello che potrebbe succedere alla fine della terra di Dio, terra senza Dio e ovviamente Dio senza terra.
Dietro la violenza degli americani, fa l’occhiolino don Lusi Bunüel, perché è quella la polvere che più assomiglia a Omar, il Messico degli ultimi (Los Olvidados), quelli che parlano i dialetti che avremmo dovuto imparare, per capire dove stava finendo la nostra vita e la nostra peggio gioventù.
Non serve dunque il riscatto e la redenzione, nel gioco delle tre carte l’asocialità e la sporcizia antropologica vince sempre, e non c’è spazio per una borghesia che è troppo impegnata sotto l’ombrellone per incendiare le baracche dove fanno finta di vivere i nostri neo-miserabili.
Grazie a Di Monopoli per averci fatto soffrire, davanti alle ciminiere di Taranto, tra cozze avvelenate, di contrabbando e commercio florido di eroina, tra rifiuti tossici che neanche Gomorra, nel gioco sempre pericoloso che stabilisce quanto cattivo possa essere il più cattivo di tutti.
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Bastano duecento pagine per trovare una possibilità, un argomento imprevedibile, la volontà di un impossibile riscatto e l’anti-eroe moderno può tornare a crederci e battere qualsiasi forma di vessazione arcaica.
Dopo tutte le più improbabili confessioni qualcosa può ancora succedere, ed è questo che rende Omar Di Monopoli, (e Tore) un cantore contemporaneo di ogni nostra insopportabile rinascita, della nostra abilità nel trovare, ancora una volta, una via d’uscita.
Omar Di Monopoli, vive a Manduria(TA) ha pubblicato sei titoli per ISBN e Adelphi.
Nel 2021 uscirà il suo prossimo romanzo per Feltrinelli Editore.
Scrive per la Stampa, La Repubblica e il fatto Quotidiano.
Omar Di Monopoli. ”Nella perfida terra di Dio” Adelphi.2017.
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