Cento anni fa nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini, l’ultimo intellettuale italiano, morto in circostanze poco chiare nella notte del due novembre 1975 all’idroscalo di Ostia, la sua uccisione a quasi cinquant’anni di distanza ricorda sempre di più il suo modo d’essere, la sua volontà iconoclasta, la sua rabbia anti-borghese e anti-proletaria, una lama sottile e tagliente, sempre molto, molto pericolosa.
“Abbiamo perso prima di tutto un poeta e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro”.
Orazione funebre pronunciata da Alberto Moravia durante il funerale di Pier Paolo Pasolini il 5 novembre 1975
La lingua può essere letale, e il linguaggio è un tracciato che può portarci verso territori impervi e rischiosi, niente di questo ardire è rimasto oggi, l’insegnamento del militante è stato riposto tra le pieghe della storia e chiuso nel cassetto della retorica sia quando lo si celebra ma anche quando è troppo semplice denigrarlo: il paradosso non ha cittadinanza nella nostra anestetizzata società contemporanea.
E Pier Paolo Pasolini era proprio questo, era una superficie ruvida che ci fa venire la pelle d’oca, perché ci costringe a pensare ad interrogarci sul senso della nostra e dell’umana presenza nel mondo, da questa parte e da tutte le altre parti, il pungolo culturale ha necessità di esprimersi in tutte le discipline dello scibile umano, la lingua parla attraverso la poesia, la letteratura, la saggistica, i testi giornalistici, l’attualità, il cinema, la televisione, i documentari e che altro?
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“La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.”
Pier Paolo Pasolini
In cinquanta tre anni: Comizi d’amore, Accattone, le ceneri di Gramsci, Salò, Petrolio, scritti corsari (pochi), Uccellacci e Uccellini, la ricotta, ragazzi di vita, teorema, porcile, il vangelo secondo Matteo, migliaia di pagine, migliaia di cose, milioni di parole.
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Troppi spunti straordinari incastonati in un uomo solo, un diamante grezzo che riflette, ancora oggi, una luce viva e inquietante, un monito che non siamo più capaci di comprendere, un dolore costante per l’esistenza dell’uomo e del mondo, in un vortice analitico capace di intuire e troppo in anticipo, il futuro della decomposizione della società, molto tempo prima che accada.
Approcciando il suo pensiero filosofico e sociologico ci si accorge che ha una forma impossibile da controllare, un flusso polimorfo a molte facce e sfaccettature, di fatto è semplicemente un “apeirogon” dove gli infiniti lati che lo compongono hanno qualità, lunghezze e densità imprevedibili.
Ogni frase, ogni inquadratura, ogni verso, ogni parola in questo grande pensatore diventa emblematica senza sforzo, senza la necessità di creare sovrastrutture, come se il linguaggio fosse sempre esistito nell’espressione della sua voce, un mistero ancora non risolto.
“Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. come finirà tutto ciò? lo ignoro. Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
Pier Paolo Pasolini
Oggi avrebbe compiuto cento anni e chissà come avrebbe analizzato gli sconvolgenti eventi che da qualche decennio hanno cambiato radicalmente quella società in veloce dissoluzione, senza punti fermi, senza riferimenti che stiamo subendo, più che vivendo.
Il suo sarcasmo avrebbe trovato altri spunti, altre opportunità analitiche e stilistiche.
Questo testo è un invito a cercare quello spessore semantico che ci ha regalato anche se per poco tempo, Pasolini è una sfida che dobbiamo intraprendere soprattutto oggi dove la semplificazione dominante non consente complessità, provocazione, eresia.
Nell’appiattimento bidimensionale il pensiero ruvido, la parola difficile ci spinge a guardare quella parabola interrotta nel secolo scorso come un nuovo viatico, come un nuovo percorso su una strada ancora poco asfaltata, dove ognuno di noi potrebbe diventare una coscienza critica, ora diventare Totò o un corvo è una scelta tutta da compiere.
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“Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di potere dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile.
È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile…
Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.
Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita”.
Pier Paolo Pasolini
Evviva Pasolini.
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