Nel luogo fuori dal mondo preferito da Joseph Beuys per parlare al mondo, Lucrezia De Domizio Durini ha ricostruito, con l’aiuto di molti amici artisti, la casa che ospitò le fatiche intellettuali e manuali del pensatore tedesco.
Se mai è esistita una coscienza critica dell’arte contemporanea (quella della seconda metà del secolo in fuga, per intenderci) non sta tanto nelle montagne di codici compilate dai critici professionisti, ma piuttosto nei gesti operosi dell’uomo Beuys, impegnato a ricostruire un metodo nuovo per agire nel sociale, in ogni momento della sua giornata.
Lo si direbbe anche solo a voler calcolare i minuti e le ore impiegate sotto l’obbiettivo del compianto Buby Durini, giorni e notti scanditi da un’ininterrotta serie di azioni, tese a dimostrare l’unico grande e semplice assioma della sua arte: tutti gli uomini sono artisti e al centro dell’arte può essere solo l’uomo in tutte le sue espressioni, dalle più grandiose alle più miserabili.
Sicuramente memore di quell’atto divino che lo salvò, ancor giovanissimo soldato aviatore di Hitler (facendolo, così raccontava, precipitare proprio tra i Tartari allora sovietici, che ne ebbero pietà e lo restituirono alla vita curandolo con i materiali che sarebbero diventati anche quelli della sua arte: fuoco, feltro, grasso…), Beuys deve aver sentito costantemente l’impulso a vagare tra le posizioni ideologiche e i luoghi della Terra esattamente allo stesso mondo: accompagnato però da anime gentili che ne comprendessero il tormento e l’allegria, lo scetticismo e l’utopia, il pessimismo e l’ottimismo, sentimenti da condividere con tutti gli altri uomini.
Di tali anime Lucrezia De Domizio Durini (che ha idealmente e concretamente sposato la causa politica e artistica di Beuys già alla fine degli anni Sessanta) è quella che forse lo ha più fedelmente accompagnato nelle sue peripezie intorno al mondo, riuscendo però a riportarlo spesso a quell’ancestrale luogo terrestre dove sorge l’antica casa di Campagnano.
Tra quelle zolle sembra essere cresciuta ed esplosa la voglia dell’artista di restituire con i movimenti dei contadini – controcanto epico alle complesse e sofisticate elucubrazioni intellettuali alla lavagna di cui fu maestro in ogni luogo che richiedesse l’incitamento all’azione – l’arte stessa alla sua natura febbrile: non tanto con la decadente eleganza dei pennelli e delle paste colorate, non solo con i segni secchi del lapis e gli acidi e squillanti toni dei materiali amorfi, ma anche con la liquida sensualità degli alimenti più antichi: il vino, l’olio.
L’ultimo e più sonoro slogan di Beuys, DIFESA DELLA NATURA, ha risuonato e risuona ancora a lungo tra questi colli strani e improvvisi sprofondamenti, pervade l’esterno e l’interno della casa che Lucrezia De Domizio e suo marito Buby vollero dargli come quartier generale per le sue azioni da padre del movimento verde. Così che non sembra strano oggi vedere la stessa casa rifiorita a luogo contemporaneamente da abitare e da contemplare: stanze e scale e corridoi e finestre e soffitti e pavimenti su cui camminare in silenzio o vociando in animate discussioni con gli amici e i compagni e i colleghi, come deve aver fatto tante volte Beuys con Lucrezia e Buby e Marco Bagnoli o Remo Salvadori o Michelangelo Pistoletto e altri più giovani artisti.
Giovani e artisti che Beuys ha sempre cercato di aiutare e che Lucrezia De Domizio ha aiutato a creare e, in questo palazzo non più antico ma ora moderno e contemporaneo, a esporre (solo vantandosi con modestia di riuscire a dialogare con loro attraverso l’allestimento delle opere, anche questo secondo un insegnamento di Beuys “l’artista crea l’arte, qualcun altro l’allestisce”).
La signora, la giornalista e la scrittrice che hanno scelto di essere una sola donna più attraverso questa dedizione all’arte che nei frangenti usuali della vita quotidiana stanno così davanti alla porta della casa, nella piantagione Paradise, nella piazza Joseph Beuys, pronte ad accogliere i transfughi di un mondo sempre meno incline a capire la poesia.
L’ansia di ricordare ogni giorno chi è amato ma non c’è più si può forse mitigare in un progetto di architettura senza architetti, di arte senza rappresentazione, di vita senza i molti svantaggi dell’esistenza.
Segue Lettera di Lucrezia De Domizio Durini a Stefano Casciani, dopo la pubblicazione dell’articolo su Abitare.
Milano 1.12.99
Carissimo Casciani,
Ti ringrazio, perché credo che nulla è dato al caso e nulla è andato perduto. Hai saputo descrivere in un sintetico testo una vita dedicata all’arte, alla cultura. La tua chiusura finale e le tue parole mi portano lontano in un presente senza limiti. È difficile esprimere emozioni e sentimenti e non riesco a trovare le parole per dirti che hai capito. In due ore di incontro una vita di gioie ma tante e ancora tante sofferenze sola in un mondo che non sa capire.
Grazie
Lucrezia
da Abitare n. 390, dicembre 1999, pp.70/71