All’interno del lungo ciclo espositivo “il talento delle donne” il Comune di Milano ha dato un esempio encomiabile nella esplicitazione dell’indagine del fenomeno femminile nell’arte dal barocco, al manierismo fino alle avanguardie storiche, russe in primo luogo.

“Le donne sono la vite su cui gira tutto”

da un’epigrafe di Lev Tolstoj

Non è un caso che ci piace inserirci in questo dialogo intellettuale e concettuale poiché ONE ha iniziato da oltre un anno lo stesso percorso, sia pure nel campo dell’architettura, del design e della letteratura.

Le due mostre “Le signore dell’arte. Storie di donne tra il ‘500 e ‘600” e “divine e avanguardie. Le donne nell’arte russa”, sono presenti contemporaneamente nelle sale di palazzo Reale, ristoro culturale ad un torrido agosto milanese, degno del Sordi nel “Vedovo”.

Centinaia di opere, alcune mai esposte in Italia, e un’operazione filologica esaustiva e stimolante sia per quantità che per qualità, ma non è molto importante esprimere un giudizio di merito, critico, ma tornare all’indagine appena intrapresa dagli ambienti culturali e sociali più avanzati sul significato stesso dell’iniziativa che ormai fa parte di un momento di particolare attenzione diffusa agli ambiti di genere.

Non possiamo naturalmente dimenticare la mostra ”l’altra metà dell’avanguardia” della compianta Lea Vergine che per prima illuminò il cielo distratto e maschile dell’arte del novecento, ma ora il percorso comincia ad essere più sistematizzato, organico, con una sequenza importante di esposizioni e saggi che illustrano quanta disattenzione è stata prodotta dalla cultura alta dei secoli scorsi.

Per interesse, per invidia o soltanto perché già essere donna significava partire con un handicap, a prescindere dalle qualità, ci sono voluti secoli affinchè questo processo creativo diventasse paragonabile alle parallele attività degli uomini, non di tutti gli uomini, naturalmente.

Nelle due mostre assistiamo comunque allo sviluppo di un interesse colto alle attività di queste eroine, da parte di padri, mecenati, colleghi affermati o semplicemente avidi collezionisti che pure mantenendo quella cinica separazione tra generi, avevano e hanno compreso l’importanza dell’altra metà dell’universo.

Le due mostre possono essere attraversate come una sequenza storica, una conseguenza di una serie convergenze, tra spasimi, violenze subite e metabolizzate, amori, odi e forze arcane inarrestabili, perché l’arte, quella vera non conosce limiti, e vince anche sull’insipienza che costringe i migliori, spesso, a ruoli di secondo piano.

Soprattutto se in una posizione di minorità antropologica presunta da parte del dominatore di turno Divine, dunque per la meraviglia dell’enorme produzione, dovuta a decine di artiste molte delle quali famose, riconosciute ma troppe solo figlie di qualcuno, o dilettanti di talento, tra una Popova, una Gentileschi, ma anche tra alcune riscoperte troppo a lungo dimenticate come la straordinaria Elisabetta Sirani.

Mostre che sono lo specchio della nostra incapacità secolare di riconoscere il virtuosismo, l’ingegno e le capacità (non solo femminili purtroppo), una miopia mai rimossa dall’establishment di ogni epoca, che rende più forte il pensiero alto della vera arte, cancellando i tentativi di una rimozione interessata.

Non è dunque il momento delle recriminazioni ma dei programmi, per esempio il ruolo della donna russa non solo nell’arte, nella cultura ma anche nella società deve essere scorporato dalle facili considerazioni politiche, e la sequenza tematica delle sale ne è un viatico straordinario perché attraversa tutte le condizioni sociali e culturali.

Dalle sante, alle madri, dalle operaie, alle imperatrici (sedici zarine si conteranno) ma anche alla “liberazione del corpo” che tanto oggi ci preoccupa per le notizie oscurantiste che arrivano da Oriente, dal lavoro delle straordinarie Natalia Goncharova, Ljubov Popova, Aleksandra Ekster.

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Da San Pietroburgo arrivano questi capolavori che invitiamo a visitare con grande attenzione non foss’altro anche per i temi femminili illustrati da Il’ja Repin, Boris Kustodiev e Filipp Maljavin, il suprematista Kazimir Malevich e i maestri degli anni Dieci e Venti del Novecento, Aleksandr Dejneka, Kuzma Petrov-Vodkin, autore del ritratto della poetessa Anna Achmatova.

Il tracciato è limpido ma ancora non sufficientemente condiviso, e ne abbiamo parlato a lungo, basti ricordare Ise Frank la “signora Bauhaus” o le varie collaboratrici dei mostri sacri dell’architettura e dell’arte, e certamente anche la Biennale di Venezia si è accorta di queste carenze, sperando di poter colmare, sia pure tardivamente, il divario storico.

Quello che rende sorprendente l’attraversare le sale del Palazzo, è la varietà di stili, di soggetti, di attitudini e di ispirazioni che coinvolgono tutte le artiste ma, sotto traccia,si percepisce il disagio, la fatica, il dolore, e l’amarezza per le troppe incomprensioni subite, e  fanno riflettere le citazioni di Tolstoj sui muri dell’esposizione.

Eccole tutte in fila e finalmente in mostra: Artemisia Gentileschi, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, Giovanna Garzoni altre decine di figure da riscoprire e da amare, naturalmente mettendo al centro la nostra celebrata Plautilla Bricci, che grazie a Melania Mazzucco è ritornata nel posto che aveva significativamente meritato nella storia della cultura di questo paese.

Queste mostre fanno bene allo spirito e ci riconciliano con la storia, facendoci apprezzare e attraversare territori, e punti di vista che non sempre avevamo osservato con attenzione, e questo è un dovere che può risarcire secoli di distrazione complice e siamo orgogliosi di essere stati tra i primi a occuparcene.

Continueremo così.

Il ruolo dell’informazione, in fondo, è anticipare i trend, le richieste che una società pone, e dare risposte a tutte le domande che la stessa indica, mentre l’arte alla luce di questo processo, è in grado di anticipare tutte le necessità, facendo riflettere o creando fratture, mettendoci in imbarazzo per quello che è stato e per quello che potrebbe essere.


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