“La torre di Pisa simboleggia in modo esemplare l’impossibilità degli esseri umani di prevedere le implicazioni sociali delle loro opere. L’artista naturalmente non suppose che la debolezza delle fondamenta avrebbe dato alla torre un’inclinazione tale da arrivare all’attenzione di tutta l’umanità. È forse quanto si verifica anche per le creazioni più astratte dell’uomo, nel senso che le loro effettive conseguenze sociali corrispondono solo in minima parte alle intenzioni del creatore”.Questa la singolare riflessione di Albert Einstein contenuta in una lettera del 1953.
Per quanto la celebre torre pendente, in realtà, gli fornisse solo il pretesto per una sofferta considerazione esistenziale sulle imprevedibili ripercussioni delle scoperte nel campo della fisica nucleare, il geniale scienziato tedesco centrava una verità, tanto evidente quanto spesso trascurata, nella critica artistica. A differenza delle “arti liberali” – musica e letteratura – le arti figurative sono legate da un vincolo indissolubile alla loro materia costitutiva; così sono soggette a modellarsi, oltre che sui sentimenti originari dell’artista, anche sui successivi e spesso tortuosi percorsi tracciati dal caso. In particolare, sono esposte a modificare sotto più di un aspetto il loro significato originario in ragione sia del trascorrere del tempo che delle variazioni di luogo, così come accade per gli esseri viventi.
Se la torre di Pisa, nel corso degli anni, non avesse visto inclinarsi il suo asse, probabilmente non sarebbe oggi il simbolo turistico di notorietà planetaria che tutti conosciamo, ma un semplice campanile, se pur esteticamente ammirevole. È indubbio che il cambiamento di posizione abbia modificato in modo radicale la lettura artistica dell’opera oltre che il corso della sua storia. Come è ugualmente innegabile che il movimento in questione, tra le massime libertà concesse in architettura, rappresenti ben poca cosa, se confrontato alla straordinaria mobilità cui, per propria natura, sono solitamente soggette le opere di scultura e pittura.
Un esempio rivelatore è lo Studiolo di Guidobaldo da Montefeltro, proveniente dal Palazzo Ducale di Gubbio. Nonostante le dimensioni e la delicatezza del materiale non ne incoraggiassero di certo lo spostamento, lo straordinario capolavoro di ebanisteria rinascimentale è stato protagonista di vicende degne del più avventuroso dei romanzi. Quasi dimenticato per secoli in una sala dismessa del Palazzo Ducale eugubino, incredibilmente venduto a privati insieme a tutto lo storico edificio, finisce negli anni Settanta dell’Ottocento in mano a un patrizio romano, che lo rimonta nella sua villa di Frascati. A distanza di pochi anni lo Studiolo prende la via di Venezia al seguito di un antiquario ebreo, che per sfuggire alle persecuzioni antisemite nel 1939 lo porta con sé prima a Parigi e subito dopo a New York, mettendolo cosi al riparo dalle distruzioni della seconda guerra mondiale.
Dopo aver attraversato prima le Alpi e poi l’Atlantico con la sorprendente disinvoltura di un bagaglio a mano, l’ingombrante complesso di arredi lignei approda infine nel 1941 in una delle sedi museali più celebri al mondo, il Metropolitan Museum di New York, dove a seguito di accurati studi, riceve l’attribuzione ai grandi intarsiatori Giuliano e Benedetto da Maiano su disegni di Francesco di Giorgio Martini. Restaurato e rimontato con regia ineccepibile in un ambiente appositamente costruito, è ammirato oggi da milioni di visitatori provenienti da ogni parte del globo. Mentre è lecito domandarsi se tali vicissitudini possano avere maggiormente giovato o nociuto – da italiani la nostra risposta appare scontata – è fuori discussione che l’opera esposta oggi al Met di New York non sia più la stessa che, a suo tempo, lasciò la sede originaria nel Palazzo Ducale di Gubbio, perché nel frattempo si è arricchita di un itinerario storico assolutamente unico.
Non tenere conto dei passaggi di proprietà, dei luoghi, degli studi, degli interventi di restauro che hanno accompagnato un’opera d’arte dopo la sua genesi, lungo il tragitto che congiunge il suo luogo di origine a quello di più recente conservazione, significherebbe trascurare, e quindi implicitamente dissipare, una parte non marginale del suo potere evocativo. Una capacità di trasmettere emozioni che si può anche definire casuale – qualora si voglia intendere che essa non traduce una volontà impressa dall’autore a priori – ma che pur tuttavia risulta sempre aggiuntiva e, in taluni casi, addirittura prevalente. Di certo, straordinariamente affascinante. Proprio come nell’emblematico caso della torre di Pisa commentato da Einstein.
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