Nella sua Berlino, Wim Wenders racconta passato e futuro delle regioni del mondo scoperte e rivelate attraverso il suo cinema, i suoi personaggi, l’arte e la musica: una confessione lucida e piena di speranze nelle persone, nelle
città e nelle loro fragilità.
C: Caro Wenders, grazie intanto per averci concesso questa intervista. Ha letto le domande che le ho inviato?
W: Veramente no, preferisco non conoscerle in anticipo.
C: Bene, allora parleremo di un po’ di tutto: cinema, musica, architettura…
W: Proprio quello che temevo!
C: Allora cominciamo con l’architettura.
W. Benissimo.
C. Ho visto il suo “Alice in den Stadten” (1974 n.d.r.) quando iniziavo l’università…
W: Dev’essere stato molto giovane!
C: Avevo diciotto anni.
W: Io ero solo un po’ più vecchio: ne avevo ventotto quando l’ho girato.
C: A parte la bellezza e l’intensità delle storie che mi hanno trasmesso, i suoi film mi hanno fatto pensare che le città possono essere anche poesia, non solo un insieme di edifici. Ha mai pensato all’influenza dei suoi lavori sulla percezione della città da parte del pubblico?
W: Probabilmente un regista può pensare che i suoi film alla fine possano avere qualche influenza sul pubblico; sicuramente io non mi sono mai veramente soffermato a pensarci. Amo le città e ho sempre prestato molta attenzione ai luoghi in cui giro i miei film, ho sempre lavorato in posti che mi piacevano e in alcune mie opere le città hanno assunto un ruolo da protagonista. Spero quindi che tutti questi film abbiano contribuito a dare un’immagine diversa di luoghi come, per esempio, Lisbona, Berlino, Tokio o Palermo.
C: Mi sembra di averla sentita dire che gli edifici sono cittadini in forma di architettura, dei veri esseri viventi: cosa intendeva?
W: L’architettura, le città e i luoghi dialogano con noi ininterrottamente. Pensiamo di essere gli unici a parlare, ma io sono convinto che ci sia uno scambio: i luoghi ci danno energia, sensazioni, ricordi, creano situazioni in cui possiamo lavorare, rilassarci, sentirci bene o male. E per come la vedo io, questa è una forma di dialogo. Se ricevo qualcosa e do qualcosa, questo è un vero scambio. Le città influenzano le nostre azioni e i nostri pensieri, i nostri atteggiamenti e persino il nostro comportamento sociale: ci influenzano più di quanto probabilmente siamo disposti ad ammettere. Sono sempre stato convinto che il cinema abbia un compito importante, aiutarci a decifrare e ad andare più d’accordo con la città. Oggi, molti film d’azione presentano la città come una specie di nemico, ma detesto questa sua immagine di luogo da evitare, che ci pone continuamente degli ostacoli e ci rende la vita difficile. Come volessero farci credere che se non fosse per le città saremmo tutti molto più liberi. Per me è vero il contrario: le città ci liberano, possiamo fare quello che vogliamo proprio perché viviamo nelle città. Ci offrono continuamente nuove occasioni, più di quanto non impediscano a queste occasioni di presentarsi. Probabilmente è proprio con “Alice in den Stadten” che ho cominciato a dare uno sguardo più benevolo sulla città, a mostrare come la gente interagisce con i luoghi urbani… Anzi, no! a dire il vero anche il mio primissimo cortometraggio “Summer in the City” faceva già qualcosa del genere! E lo stesso vale per i miei corti come
“Silver City Revisited”. Ecco, anche i miei titoli sono pieni zeppi di “città”…
C: Nei suoi film le persone sembrano perdute; pare che cerchino di ritrovarsi nelle città che lei mostra. E di queste città tende a non mostrare il volto ufficiale, ma piuttosto luoghi nascosti, posti che la gente non conosce. Cos’è che rende interessante questo lato delle città? Forse perché è proprio lì che i suoi personaggi cercano qualcosa, o sé stessi?
W: La prima volta che ho fatto assumere a una città un ruolo attivo nell’azione cinematografica è stata con “L’amico americano”, del 1977. Il film è ambientato ad Amburgo, a Parigi e per un pezzetto a New York: tre città che nella storia hanno funzioni molto diverse, dove la gente si comporta in modo diverso e ciascuna di esse produce sensazioni molto
diverse. Nel film si salta continuamente da New York ad Amburgo e viceversa, semplicemente con dei tagli di sequenza, come se in una frazione di secondo ci si potesse spostare dall’una all’altra. la prima volta che ho cercato di rappresentare l’accadere di una specie di “città simultanea”, e l’ho fatto per far capire allo spettatore quanta influenza le città hanno su di
noi. Quando Dennis Hopper/Tom Ripley cammina per New York è un personaggio diverso da quando cammina per Amburgo. E Bruno Ganz, che recita la vittima con il nome di Zimmerman, ad Amburgo si sente perfettamente a casa, protetto dai vicoli, dai negozi, dal porto. Quando va a Parigi, la città gli è decisamente ostile. Il Metro è come un labirinto, sembra non ci sia via d’uscita: d’improvviso capisci che una città è una questione di vita o di morte, e per Zimmerman Parigi è veramente una città mortale. Ma viaggia, prende l’aereo, poi un treno col suo avversario, Tom Ripley, il mercante d’arte corrotto. Questi ha molto più controllo sulle proprie azioni, non è una vittima come Zimmermann, perciò tratta le città con molta più disinvoltura, una leggerezza superiore. Quando gli chiedono cosa fa ad Amburgo, dice che sta tentando di farci suonare di nuovo i Beatles… Scherza, perché non gli importa veramente dove si trova, è uno straniero ovunque. Almeno Bruno Ganz appartiene a una città, ad Amburgo.
C: Una risposta molto bella a una domanda un po’ vaga… già che ci siamo le farò un’altra domanda molto generica. Data la sua conoscenza di tutte queste città e aree del mondo, diciamo Europa, America e Asia, che ha guardato tutte con molta attenzione, quale crede possa superare meglio questa recessione mondiale?
W: Sopravvivranno tutte, anche se non allo stesso modo. L’Europa è attrezzata in maniera diversa. La sua storia è fatta praticamente di una sequenza di crisi, di non si sa nemmeno quante guerre, quanti disastri e quante alleanze diverse. Attraverso l’esperienza di tutti questi anni di guerra, l’Europa è diventata quasi un continente utopico, perché ha acquisito una cultura del dialogo. Per questo penso che possa affrontare meglio i conflitti e le minacce del futuro. L’America, per esempio, non sa cosa sia il dialogo. Gli americani non conoscono i confini: l’unico vero confine che hanno è quello col Messico, e lo gestiscono decisamente male. Non conoscono i confini, non conoscono le lingue, e in fondo non sanno nemmeno cosa sia un conflitto. Per loro conflitto significa immediatamente aggressione. L’Asia ha strutture di potere diverse e differenti tradizioni, e la gente è molto più abituata a obbedire, a credere negli ordini. Oggi in Europa nessuno vuole più obbedire. L’epoca dell’obbedienza cieca è finita, il che per l’Europa rappresenta un fattore positivo. La gente è in grado di dar seguito alle proprie decisioni, sa meglio come farsi rispettare. Negli Stati Uniti ti sorprendi di quanto la gente sia immatura, manipolata e sperduta, almeno in quello sconfinato “centro” tra le due coste. In Asia mi pare ci sia più capacità di affidarsi al destino: non so quanti milioni di emigranti cinesi siano oggi disoccupati. Immagini lo stesso in Europa, ci sarebbe una rivoluzione! Ma non in Cina. Lì la gente obbedisce, almeno per ora…In India, il sistema delle caste, ha abituato le persone agli ordini, ad adattarsi ad essi. In Europa, questa struttura fa ormai parte del passato. Credo che con la nostra varietà di culture, la nostra storia di conflitti e con il rispetto per il dialogo che abbiamo imparato a costo di grandi sofferenze oggi abbiamo gli strumenti giusti per affrontare i grandi cambiamenti che avranno necessariamente luogo nel prossimo secolo. Sono contento di essere tornato qui!
C: Qual’è stata la sua prima impressione del Giappone? E cosa rende quel paese, e Tokio in particolare, così importanti per lei?
W: Sono molto affascinato da certi elementi della cultura giapponese (e asiatica). Il Giappone è il primo paese dell’Asia che ho conosciuto, potrei avere provato la stessa attrazione anche verso altre culture, ma è in Giappone che sono andato, per ragioni molto concrete: è il paese in cui Yasujirō Ozu ha fatto i suoi film! Nella mia comprensione e nella mia ammirazione, il suo lavoro è il paradiso perduto del fare cinema, niente di più, niente di meno. Così volevo conoscere il paese che è riuscito a creare film così perfetti. Ecco perché sono arrivato in Giappone prima che in Corea, in Cina o in Tailandia, o in qualsiasi altro paese asiatico che conosco.
C: Parlando del Giappone, com’è iniziata la collaborazione con gli architetti Sejima e Nishizawa per il film sul Rolex Learning Centre?
W: Molto semplice: un giorno ho ricevuto una lettera in cui Sejima-San mi chiedeva se ero interessato a vedere un loro edificio, il Rolex Learning Centre, che sarebbe stato completato dopo poche settimane, e a discutere di un’installazione che avrebbe voluto portare alla Biennale di Venezia, di cui era stata nominata curatrice. La lettera non è arrivata a sorpresa, ci eravamo già incontrati a Los Angeles alla fine degli anni Novanta, o forse nel 2000-2001; Sejima sapeva che avevo girato parecchie scene di “Palermo shooting” in un edificio da lei realizzato in Germania, la scuola di design di Essen, dove il protagonista del mio film, il fotografo Finn, vive e ha il suo studio al suo interno. Nella lettera c’erano informazioni sul Rolex Learning Centre, che mi sono sembrate molto interessanti: avere un edificio così grande su un unico piano è un fatto quasi unico, un edificio che sorge dal terreno e si sviluppa con valli e colline. Ho subito capito che non potevo farmene un’idea solo vedendolo in fotografia. Così ci siamo incontrati a Losanna. Abbiamo trascorso due giorni nell’edificio e alla fine ho detto che sì, che volevo veramente fare quel film, o quell’installazione.
C: Il modo in cui ha tradotto l’edificio in immagini di movimento mi pare perfetto. Due domande: quanto tempo le è servito per capire la struttura e come mai ha scelto di girare in 3D?
W: Non avevo nessuna idea da dove cominciare quando sono arrivato per girare. Volevo essere aperto verso l’edificio e già durante il primo giorno ho avuto la certezza di non capirlo: dopo una giornata intera al suo interno non riuscivo a orientarmi, ho pensato che si trattava di un segnale fantastico a favore del progetto. Nella gran parte dei casi, è sufficiente
attraversare un edificio due o tre volte per aver la certezza di conoscerlo, ma nel Rolex Learning Centre non riuscivo a capire i collegamenti tra le varie parti. Una cosa del genere mi è successa raramente, fa veramente l’impressione di un edificio senza fine. È straordinario.
C: Perché dunque ha scelto la tecnica 3D per girare e presentare l’edificio?
W: Per aiutare a orientarsi, per esempio: il Centro ha caratteristiche che nessun altro edificio possiede. In qualsiasi altro edificio che conosco non ci sono “colline” o “vallate” e nella visione bidimensionale non si ottiene mai una buona percezione prospettica dell’altezza, di salite e discese. Nel 2D, una corsa in discesa risulta sempre relativamente noiosa. L’unico modo per superare queste limitazioni e offrire allo spettatore la sensazione di essere sul posto era creare la possibilità di percepire lo spazio. E questo si può fare solo con la tecnica 3D. Perché, mentre siamo qui seduti, lei mi vede in tre dimensioni, io vedo lei in tre dimensioni. Entrambi abbiamo due occhi, perciò nel suo cervello lei in realtà mi vede due volte. Poi il suo cervello mette insieme i due flussi di informazioni che provengono dagli occhi e lei mi vede capovolto: ma il suo cervello ha imparato a elaborare le informazioni nel modo giusto, quindi l’immagine risulta quella esatta. I film in 3D fanno la stessa cosa sul piano fisiologico, imitando il funzionamento dei nostri occhi. In effetti, per cent’anni il cinema ha barato, tentando di superare il fatto di non disporre della terza dimensione con montaggi ed effetti speciali di tutti i tipi, usati per farci credere che vediamo lo spazio. Poi naturalmente ci sono la prospettiva e l’esperienza. Tutti noi abbiamo visto un sacco di film: li vediamo nella nostra testa come se ci mostrassero lo spazio, anche se logicamente non è vero. Quindi, stranamente, penso che il 3D non sia il futuro del cinema. Si tratta invece di un passato mancato. Avremmo dovuto sempre vederlo, così fin dall’inizio.
C: Alcuni architetti che conosciamo entrambi molto bene, come Jean Nouvel o Massimiliano Fuksas, dicevano già anni fa che il loro lavoro è simile a quello di un film-maker o di un regista. Pensa che i suoi film contengano qualche aspetto del lavoro dell’architetto?
W: Sento una grande affinità con gli architetti: il nostro lavoro presenta più somiglianze di quante se ne possano supporre. Sono stato con Jean Nouvel in luoghi in cui doveva costruire, mentre costruiva e a costruzione ultimata. Mi ha ricordato molto la mia situazione prima della realizzazione di un film, quando tutto è ancora nella mia testa; poi quando giro o sono in sala montaggio; infine quando il film è terminato. Il mio lavoro dipende moltissimo dal senso del luogo, e un architetto lavora innanzitutto sul senso del luogo. Una volta ero a Sidney per una mostra di mie fotografie al Museum of Modern Art. Dovevo tenere una conferenza intitolata “Il Senso del Luogo”. Riguardava il modo in cui un regista o un fotografo lo utilizzano per mettere insieme luogo e storia e farli operare all’unisono. Tra il pubblico c’era Glenn Murcutt, un architetto australiano che mi piace moltissimo, ma che non avevo mai incontrato. Conoscevo tutti i suoi edifici, ed era per me una specie di idolo. Alla fine della conferenza si è presentato e ho provato una strana forma di soggezione, perché amavo i suoi progetti e avevo visitato molti suoi edifici. Ha iniziato a dirmi: “Dovevo proprio sentire la sua conferenza, perché un paio d’anni fa ne ho tenuta una con lo stesso titolo”. Allora ho capito che il lavoro di architetti e registi, specialmente nella fase in cui sognano un edificio o un film, presenta delle analogie. Altri registi lavorano molto a partire dal senso della storia o da una certa figura che appare nel film, il che si adatta molto anche alla prassi di alcuni architetti. Il mio lavoro è però sicuramente più basato sul senso del luogo: la storia si sviluppa in un certo posto, può svolgersi solo lì e in nessun’altra parte. So che ci sono architetti, come Glenn Murcutt, che funzionano e lavorano solo all’interno del luogo. Quando gli ho chiesto come mai non avesse mai costruito in Europa, Murcutt mi ha risposto: “E come potrei? Non conosco il clima, non conosco le stagioni, gli uccelli, gli alberi. Come potrei costruire? Fammi vivere in Irlanda per dieci anni e allora potrò costruire una casa”. Esagererei se dicessi lo stesso, ma ho bisogno di passare del tempo in un luogo prima di poter girare, e bisogna che il posto mi piaccia davvero. Se il posto non mi piace non so nemmeno dove puntare la cinepresa.
C: Come ha trovato Paris, Texas?
W: Paris, Texas nel film non c’è, non compare, è solo una piccola fotografia. Il titolo rappresenta quasi più una metafora che un luogo reale. Naturalmente ero stato a Paris, Texas molto tempo prima di fare il film. Per via del nome, che è quasi troppo bello per essere vero: con quelle due parole racconta una storia straordinaria (o un haiku), due parole composte entrambe di cinque lettere. Poi le metti insieme e all’improvviso ti ritrovi con quest’antitesi, un ossimoro, due opposti legati a formare una nozione che diventa immediatamente un conflitto gigantesco. Può trattarsi di uno scontro o di uno scherzo, e infatti per la maggior parte della gente suona subito come uno scherzo. A proposito, ci ho perso una scommessa: quando stavamo scrivendo la sceneggiatura del film ho scommesso con Sam Shepard che a Paris, Texas c’era una torre Eiffel. E Sam diceva di no, che c’era però un Moulin Rouge. Quindi abbiamo fatto la scommessa e quando ci sono tornato con la macchina fotografica ho capito che Sam aveva ragione. La cosa divertente è che dieci anni dopo, nei primi anni Novanta, quando ci sono tornato ancora una volta, c’era anche una torre Eiffel, mentre il Moulin Rouge era stato chiuso. Non una grande torre Eiffel, naturalmente, ma grande circa come una ruota panoramica…
C: Dove ha scattato la foto della ruota panoramica qui sul muro?
W: In Armenia, vicino al confine con la Georgia. È stata costruita dai russi, c’erano molti operai russi qui, ma se ne sono andati: la città in cui vivevano ora è completamente deserta. La foto risale al 2007…
C: C’era qualcosa che mi ha fatto pensare all’Europa dell’Est…Che ruolo ha la fotografia per lei? È solo lavoro di preparazione per i film o qualcosa di più?
W: La fotografia occupa ormai metà della mia attività, è una vera occupazione: faccio fotografie fin da bambino, ma ho cominciato a prendere la cosa sul serio solo dopo aver fatto la mia prima mostra, nel 1987. E dal quel momento ho viaggiato molto, come qui in Armenia, dove sono andato solo per fare fotografie, non volevo farci un film. Fotografare è diventata una parte molto importante della mia attività quotidiana, passo un sacco di tempo a seguire le stampe e a fare mostre fotografiche – come a San Paolo, dove sono appena stato, per due settimane. È diventata l’altra parte della mia esistenza, perché i film hanno una loro logistica e una loro agenda, e ci vuole sempre più tempo a produrli: ogni anno più tempo, non solo per me ma per tutti i registi. Perciò, se oggi lavorassi unicamente ai film, dovrei starmene a lungo seduto senza niente da fare. Per fortuna ho altri impegni, insegno due giorni la settimana e ho un incarico per la European Film Academy, eppure riesco ancora a fare un film ogni due o tre anni. Ma cos’altro potrebbe fare un lavoro-dipendente come me con tutto il resto del tempo? La fotografia è ideale, perché non hai bisogno di nessuno. Non ho assistenti. Mi bastano la macchina fotografica e le pellicole, ed è tutto. Curiosamente, la mia fotografia nasce ancora coi negativi, mentre gran parte del lavoro cinematografico è ormai realizzato con tecnologia digitale. Non ho nemmeno un treppiede, scatto le foto con la macchina a mano anche quando uso un grande apparecchio panoramico, una macchina fotografica di grandi dimensioni, che tuttavia continuo a portare con me. Viaggio da solo, mi trascino il mio equipaggiamento. Ed è fantastico.
C: E forse nascono idee per nuovi film…
W: Mi fa venire ancora in mente Glenn Murcutt. Dopo che ci siamo conosciuti mi ha invitato a casa sua. Ho visto il suo studio, ed era deserto, così gli ho chiesto dove fossero la segretaria, gli assistenti…Mi ha risposto che non ne aveva, che lavorava completamente da solo. Quando arrivano progetti di grandi dimensioni collabora con un altro architetto, così sono in due e al momento di costruire ovviamente assumono altro personale, ma in pratica Murcutt non ha uno studio. E anch’io amo il mio lavoro fotografico perché posso farlo da solo. La maggior parte degli architetti hanno eserciti di assistenti. Lo studio di Jean occupa un intero edificio, con dozzine di persone. Eppure credo che ogni architetto in fondo sogni di poter tornare a sedere e fare i suoi disegni tutto da solo.
C: Lei ha sempre avuto molta cura del suono, inteso come musica e come chi fa musica, la scelta dei musicisti che compaiono nei suoi film rendono il suo lavoro ancora più interessante e importante, almeno per me. Come mai dà così tanto spazio a musicisti pop, a cantanti e gruppi pop-rock? Nessun altro regista ha saputo farlo così bene.
W: Non è proprio vero, non credo di aver inventato io quel modo di lavorare. Se c’è un film che mi ha assolutamente incoraggiato a unire il mio interesse per la musica a quello per il cinema è Easy Rider. Quando l’ho visto frequentavo la scuola di cinema e stavo girando le mie prime cose, e quel film è diventato una pietra miliare della mia vita perché mi ha mostrato come la combinazione tra cinema e rock & roll fosse perfetta. Le canzoni hanno un grande potere narrativo, tanto da diventare parte integrante dello stesso fare il film. Fino a quel momento avevo pensato che la musica fosse solo un ingrediente, poi è arrivata la grande rivelazione. Amo veramente rock & roll e il blues. Ed è stato molto, ma molto difficile per me decidere se fare musica o film, quando ho iniziato la mia carriera. Il giorno in cui ho dovuto vendere il sassofono per comprare la mia prima cinepresa Bolex 16mm è stato uno dei più duri della mia vita, perché sapevo che una volta venduto quel sassofono non avrei mai più suonato.
C: Possiamo dire allora che il lato musicale nei suoi film è anche un omaggio alla musica che si è lasciato alle spalle, a un Wenders musicista mai nato?
W: È un omaggio alla cosa che amo di più dopo il cinema. Qualsiasi cosa faccia – guidare, preparare un film, scrivere o lavorare al montaggio – trascorro più tempo in compagnia della musica che senza. In questo momento non c’è musica solo perché stiamo registrando l’intervista. E fare cinema è l’unico mestiere che io conosca in cui si possono mettere insieme più cose: viaggiare, leggere, musica, pittura, letteratura, poesia. Naturalmente anche l’architettura può avvicinarsi a questo traguardo. Jean Nouvel lavora con le immagini e l’immaginazione e molta ispirazione gli viene dalla musica.
C: Lei ha stretto amicizia con musicisti come Bono degli U2, e molti altri. Ci vuole parlare dei suoi rapporti con questi artisti?
W: È una relazione di corrispondenza. Per molti versi, loro vivono la vita che avrei potuto vivere anch’io, non come rockstar, ovviamente, ma come musicista, cioè incidono dischi e vanno in tournée. Credo che anche per molti musicisti il cinema sia l’altro territorio su cui avrebbero potuto sbarcare, e naturalmente cantanti e autori lavorano molto a cose di stampo cinematografico. Solamente lo fanno, per così dire, “in miniatura”. Con alcuni di loro – come Lou Reed, Bono, Nick Cave – ho sviluppato un’amicizia duratura. Negli anni abbiamo lavorato insieme abbastanza spesso, e sento più affinità con loro che con la quasi totalità dei miei colleghi registi. Sento di avere più cose in comune con Lou o Nick o Bono, rispetto a quello che provo a fare e a comunicare, che con la maggior parte degli altri registi. Un film rappresenta molto di più di quanto non mostri il prodotto finito! L’intero stato d’animo, le sensazioni dalle quali nasce un film sono “vita contemporanea” e vengono dal viaggiare, dal vedere un mare di cose e dall’ascoltare un sacco di musica, dal venire a conoscenza di una quantità di storie. Poi fai il tuo film che rappresenta solo un minuscolo aspetto di tutto quello che hai vissuto. Ecco, immagino che per la gran parte dei musicisti sia la stessa cosa: quello che riescono a infilare in una canzone non è che un frammento di tutto quello attraverso che hanno passato. Per questo penso che i film interessino ai musicisti e che la musica interessi agli autori di cinema: perché conosciamo molte cose dei rispettivi mondi. Intendo dire, sono stato in studio con dei musicisti ma non ho mai vissuto veramente la loro vita, la posso immaginare ma non ne ho esperienza. Sto leggendo la biografia di Keith Richards, e continuo a stupirmi quanto cose condividiamo, in parallelo. Certo non intendo la quantità di droghe e cose del genere – per amor del cielo, sarei già morto dieci volte! – ma dal punto di vista filosofico: quello che è accaduto nel mondo e che ha portato agli album dei Rolling Stones ha straordinarie corrispondenze col mio mestiere, con molte mie esperienze e con i miei film. Per certi aspetti è logico, abbiamo più o meno la stessa età. Le loro fonti di ispirazione, wow! : quasi un universo parallelo a un certo tipo di cinema nato a sua volta nei tardi anni Sessanta, nei primi anni Settanta, insieme al rock britannico.
C: Perché pensa sia ormai così raro trovare registi che siano anche degli autori?
W: All’epoca dei miei esordi era scontato che dovevi essere tutt’e due. Era inconcepibile non occuparsi di tutto. Era semplicemente impensabile non essere produttori, perché nessuno avrebbe prodotto i tuoi film. Perciò io me li sono prodotti da solo. Non conoscevo nessuno scrittore, dovevo scrivermi le sceneggiature, e all’inizio facevo anche il cameraman. Ero costretto a fare tutto da solo e lo spirito del lavoro era così personale, diventava un’espressione così personale, che non avrei mai potuto pensare di lasciare che lo facesse qualcun altro. Far scrivere le mie storie ad altri, almeno nei primi dieci anni, mi sembrava un’idea assurda. Perché un altro? Era il mio lavoro! Se avevo qualcosa da dire e volevo comunicarlo, perché ingaggiare un ghost-writer? E lo stesso vale per la musica: per quale motivo chiedere a qualcuno di scegliere la musica per i miei film? È la parte più divertente di tutto il processo! Oggi, tutti i film hanno un supervisore per la musica e lui, o lei, sceglie i brani da usare: per me è inconcepibile! Non credo che i registi riescano più a divertirsi. Il vero divertimento è fare da soli, perché, alla fine, sei tu l’unico responsabile per tutto. Eppure oggi dividere il lavoro è la regola. Lo scrittore scrive. Il regista dirige, il produttore si occupa della produzione, poi ci sono il compositore, il supervisore musicale, il montatore…Non dico che così non si possono produrre grandi film, ma, alla fine, la maggior parte dei film non sono più una vera espressione personale.
C: A proposito della prossima domanda, premetto che secondo me tutti i suoi film sono vere opere d’arte…
W: Non interferirò con le sue convinzioni! Io però non mi sono mai definito un artista…
C: Ma molti artisti negli ultimi vent’anni hanno usato il video, il cinema e i film, alcuni tra questi hanno cominciato a realizzare veri e propri film…il caso peggiore mi pare Julian Schnabel, il migliore Sherin Neshat. Che ne pensa di questo fenomeno?
W: È un fenomeno cominciato molto tempo fa. Quando, alla fine degli anni Sessanta, volevo diventare un pittore, ho presto capito che molti dei miei artisti preferiti, come Stan Brackhage, Andy Warhol e Michael Snow, erano pittori che facevano anche dei film. La cosa mi ha entusiasmato, perché ho capito che c’era la possibilità di continuare a dipingere in modo diverso, con la cinepresa. Perciò faccio anch’io parte di quello stesso fenomeno. E penso peraltro che Julian Schnabel abbia fatto almeno due grandi film.
C: I suoi film sono autobiografici? Quanto c’è di lei nei suoi film?
W: Anche se non in forma autobiografica, i miei film dicono molto di me. Ci ho messo dentro così tanto delle mie esperienze che se scrivessi un’autobiografia avrei l’impressione di saccheggiarli. Philip Winter, il tizio che compare spesso nelle mie storie, è una specie di mio alter ego. Sa un sacco di cose su di me… Sì, i miei film sono molto personali, ma non parlano del mio privato, forse perché non mi piacciono le biografie, perché devono inevitabilmente superare il confine tra il personale e il privato. A me il privato però non interessa, anche se ho tratto molto dalle mie esperienze personali, da quanto ho visto e vissuto, dalla mia vita e di quella dei miei amici. Le biografie invece entrano inevitabilmente nella sfera privata, e io detesto la cultura dilagante dell’invadere la sfera privata. Su un’isola deserta può mettermi davanti dieci riviste come People e vedrà che non ne apro nemmeno una. Non mi interessa, punto. Preferisco guardare le onde per dieci ore di fila che leggere una di quelle riviste.
C: Lavora con sua moglie?
W: Sì, continuamente. Siamo entrambi fotografi ma mia moglie, a differenza di me, fa solo la fotografa, anche se in passato si occupava di riprese cinematografiche. Viaggiamo insieme, lei è l’unico compagno di viaggio con cui riesco ad avere a che fare. Per esempio, siamo stati in Armenia insieme per due settimane. O in Giappone, dove siamo andati per un lavoro che ci è stato commissionato. Facciamo colazione insieme, poi le va da una parte e io dall’altra. La sera ci incontriamo e ci raccontiamo del lavoro che abbiamo fatto durante il giorno. Lei fotografa ancora con la pellicola, ma ha cominciato anche a usare il digitale. Io uso soltanto pellicola. Dopo un po’ torniamo a casa, sviluppiamo le nostre immagini, io ho i miei provini a contatto e lei ha i suoi: così vedo per la prima volta quello che ha fatto e visto nelle sue uscite, lei guarda al mio lavoro e vede per la prima volta quello che ho fatto e visto, nello stesso posto in cui si trovava lei. Lei non si ricordava della ruota panoramica, ma ha scattato immagini straordinarie di contadini nei campi, a dieci chilometri da dove mi trovavo io. Io ero attratto dalla ruota panoramica e ci è voluto un bel po’ di tempo prima che tutta la gente se ne andasse e lasciasse il campo sgombro per fare le foto. Donata è interessata unicamente alle persone, la sua fotografia riguarda le persone e la loro anima Ritratti, ma anche gente che lavora o è assorbita da quello che le piace fare. Lei mostra praticamente il controcampo delle mie immagini. Lavora solo in bianco e nero, mentre io lavoro a immagini a colori. E quando lavoro in un certo luogo, non sono particolarmente interessato alla gente, preferisco lasciarla sullo sfondo. Ecco, non ci intralciamo, direi piuttosto che ci completiamo, in un modo molto bello. So che è un sogno poter vivere come marito e moglie, lavorare insieme ma anche di spalle.
C: Ha un buon rapporto con l’Italia? Trova che abbia qualcosa di speciale?
W: Negli ultimi dieci anni l’Italia mi ha attirato più che in passato. Ci ho girato anche un buon numero di film. Ho riscoperto la passione che hanno tutti i tedeschi per il sud in generale, e per l’Italia in particolare. Una passione che mi è nata a un’età relativamente avanzata, ma alla fine anche Goethe era anziano quando si è recato in Italia – sono stato molto contento
quando ho scoperto che non era più un giovanotto! Quand’ero più giovane, a venti o trent’anni, puntavo sempre a ovest, all’America, all’Australia. L’Italia era troppo vicina. E solo ora che sono tornato a vivere in Europa e ho accettato che questo è il mio posto ho perduto gran parte dell’interesse per l’America, perché riconosco anche la ricchezza e la bellezza dell’Europa. È vero, sono particolarmente attratto dall’Italia, dalla sua gente e sento che rappresenta un elemento complementare al mio essere tedesco. Non sono mai riuscito a provare lo stesso in nessun altro luogo. A molti tedeschi piace la Grecia o la Turchia, ci vanno di continuo. Non so, ma me succede lo stesso con l’Italia; sento che posso trovarci tutto quello che serve per rimediare al fatto di essere tedesco. Non mi serve molto altro. Per molto tempo ho pensato che l’America avesse tutto quello che mi serviva per riempire i vuoti della mia anima. Ora sono contento di aver scoperto l’Italia, ha un gusto migliore ed è più vicina. Eppure anche la mia affinità con l’Italia non è priva di sofferenza, ultimamente. Di questi tempi è impossibile andare in Italia senza provare un forte imbarazzo: ma passerà, sarà un pezzettino della storia e ci ricorderemo come abbiamo fatto a sopravvivere a quest’epoca. O meglio: ci domanderemo come abbiamo potuto accettare che durasse tanto a lungo. Passerà e diventerà solo una nota a margine della storia, ci rideremo su come accaduto con l’era di Reagan. Soffrivo così tanto in quegli anni che ho dovuto lasciare l’America. Non ce la facevo più e sono scappato di nuovo quando è spuntato George Bush, ero furioso. Adesso ci scherziamo sopra, e ricordiamo quegli anni solo con un po’ di imbarazzo. Anzi, per la verità, non sono ancora del tutto capace di ridere di Bush, con tutti i danni che ha fatto, ma è storia, ormai… lo stesso succederà con l’Italia.
C: Dobbiamo chiudere l’intervista, purtroppo, ma ho ancora un’ultima domanda. Si è mai chiesto come mai, da tedesco, è diventato uno dei registi e autori più importanti del mondo? Com’è successo?
W: Il tempo, tutto qui. Ho avuto fortuna. Mi ascolti: per qualsiasi persona veramente creativa, non importa dove e in che epoca vive, non c’è condizione migliore della tabula rasa, di un momento in cui puoi cominciare da zero. Oggi invece non c’è artista, musicista o regista che possa partire da zero: dappertutto c’è una tradizione, nel cinema, nella musica, nell’arte, nell’architettura. Qualsiasi tipo di musica ti piaccia, ha almeno vent’anni, come l’indie-rock. E sono 50 anni per il rock & roll, 80 per il blues, e così via: ma per me, regista e giovane creativo nella Germania degli anni Cinquanta, non c’era proprio niente. Niente di niente. Non c’era più il cinema, quando ho cominciato. La Germania era letteralmente no man’s land, per un regista: potevi cominciare da zero, senza dover far riferimento a niente e a nessuno. Mi permetta un’eccezione, a proposito di biografie. Dicevo che non m’interessano, ma in quella di Keith Richards, che sto leggendo, si capisce che quei ragazzi hanno cominciato dal nulla, anche loro: hanno ripreso la tradizione americana del country blues, ma per suonarci la chitarra elettrica come nessuno aveva mai fatto prima. Non c’erano regole, potevano inventarsele da soli. È la condizione più straordinaria! Io volevo diventare pittore, poi sono letteralmente inciampato nel cinema, quando in Germania era solo una pagina bianca. Così il mio desiderio di essere pittore e musicista mi ha portato ad essere né l’uno né l’altro. Ho scoperto invece il terreno vergine del cinema, in cui non esistevano regole: è stata davvero pura e semplice fortuna, e tempismo. Volevo essere qualcos’altro, poi ho trovato un luogo deserto nel paesaggio, un punto sulla mappa dove nessuno era ancora mai stato. E ci ho messo un piede…
Questo testo è stato originalmente pubblicato in Domus numero 943 del gennaio 2011
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