Achille Castiglioni ha concluso da tempo il suo dialogo con la realtà ma lascia come eredità spirituale e materiale, anche per le giovani generazioni, una grande opera progettuale. Così lo ricordava Stefano Casciani su Domus nel gennaio 2003.
Castiglioni, l’Achille, è caro a milioni di persone, dai critici più intelligenti che ne hanno saputo individuare a tempo le straordinarie qualità artistiche alle persone che semplicemente ne acquistano e ne usano gli oggetti: e a tutti coloro – industriali, manager, committenti, amministratori pubblici, allestitori, modellisti, ma anche altri architetti, grafici, artisti, critici – che hanno collaborato con lui, fino agli operai che ne hanno visto le acrobazie comiche e talvolta pericolose sui pavimenti in cemento delle fabbriche e dei laboratori, sui parquet delle residenze più lussuose e dei musei più prestigiosi, e poi ancora in giro sulle moquette di fiere e manifestazioni, fino all’asfalto dei marciapiedi delle città. Perché non c’è superficie, anche la più umile, del mondo costruito o da costruire secondo le sue idee, che Castiglioni non abbia calpestato con il passo spedito e il sorriso sardonico, o semplicemente divertito, di una persona che ama soprattutto confrontarsi con la realtà vera, per tirarne fuori le migliori possibilità di espressione.
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Non credo di averlo mai visto arrabbiarsi, neanche una volta, anche nelle situazioni più spiacevoli: tutto quello che le contrarietà e la malagrazia del mondo e delle persone sbagliate possono strappargli sono al massimo una smorfia e una battuta nel suo amato dialetto milanese, un prendersi gioco della stupidità e delle assurdità purtroppo connaturate a un universo che non ha mai smesso di amare, probabilmente perché l’unico possibile.
“Non tenere conto delle ricerche di mercato “
Eppure Castiglioni sa anche reinventare le regole di questo e altri mondi: a cominciare da quello fisico, di cui ha sfruttato tutte le capacità esistenti e ne ha inventato di nuove, perché i suoi oggetti e progetti in qualche caso – in molti casi – superano le regole della fisica, della meccanica, dell’illuminotecnica, della statica ma anche, soprattutto, con caparbia e generosa ostinazione, quelle della produzione industriale e del marketing.
Interrogato sul mistero e la magia del suo metodo di lavoro che porta inevitabilmente ad oggetti indovinati, spiritosi, ovviamente “belli” ma anche e soprattutto innovativi, Castiglioni ama ripetere spesso la battuta scherzosa: “Bisogna innanzitutto non tenere conto delle ricerche di mercato”. Con nove sole parole sgombra così il campo da miliardi di pagine di manuali, relazioni e consulenze dove – almeno da quando è stata inventata l’industria – tutta la questione del progettare oggetti per la serie, viene ridotta al problema, all’obbiettivo di fare oggetti “per il mercato”: questa specie di Moloch invadente e pervasivo sul cui altare da tempo molti sono disposti a sacrificare qualsiasi cosa. Castiglioni no: a lui interessa soprattutto che gli oggetti che devono (se proprio devono) portare la sua firma siano fatti per le persone di ogni tipo, purché dotate di un certo senso estetico e di una qualche motivazione funzionale ad usare gli oggetti stessi: una volta si sarebbe detto “bisogno” o addirittura “bisogno reale”.
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Qualcosa infatti di quei tempi in cui il design, con molta buona volontà, diciamo più o meno dal Bauhaus in poi, ha pensato di risolvere almeno in parte i grandi problemi, i “bisogni” della società e delle persone, è rimasto radicato nel suo modo di lavorare: tanto da fargli parlare, nella fase più matura della sua attività, di un metodo, basato sulla individuazione della “componente principale di progettazione”: ovvero quell’elemento fondamentale intorno a cui ruota tutto il progetto.
Questa “componente” può essere funzionale, come nel caso ad esempio di una mazza, per piantare pali nei vigneti (non un suo oggetto, ma uno dei tanti bellissimi e anonimi, che ama collezionare), in cui il peso determinante per la funzionalità dell’oggetto, da forma all’oggetto stesso; ma una componente può anche essere il puro divertissement, addirittura, come nel caso dello sgabello “sempre in piedi” Sella, un tic, quello di dondolarsi sulla sedia mentre si parla al telefono: “sgabello per telefono” era infatti il nome originale di questo eccellente ready made.
Questa necessità di sistematizzazione, oltre che a spiegare il lavoro, gli è servita sicuramente anche da motivazione: dopo tanti anni di esperienza professionale in un settore in cui l’approssimazione, l’azzardo e la casualità (ad esempio nel successo di un prodotto) hanno almeno la stessa importanza di un’attenta pianificazione, Castiglioni ha voluto in qualche moda riscattarsi dall’idea di un suo mestiere tutto “artistico”: anche se eccezionalmente, proprio nel suo caso, una simile interpretazione sarebbe possibile.
Una ricerca artistica
Tutto il suo lavoro potrebbe in effetti essere letto in una chiave di ricerca artistica, di grandissima intuizione e capacità nello stabilire e nell’individuare le forme, i materiali e le tecniche ad esse meglio corrispondenti, con l’abilità di creare opere che non hanno nulla da invidiare a un’opera d’arte, a una scultura o un’installazione. L’elenco sarebbe lungo, anzi interminabile: dalla lampada Toio al sedile Mezzadro, dai sontuosi allestimenti per mostre come “Le vie d’acqua da Milano al mare” o “L’altra metà dell’avanguardia”, dai raffinati bicchieri doppi per Danese (volgarmente imitati da un altro designer, non italiano, per un’altra azienda, italiana) all’umile evaporatore in porcellana Fischietto, uno dei suoi ultimissimi prodotti.
Eppure vedere tutto il lavoro di Castiglioni secondo una simile interpretazione, sarebbe anche fare torto alla grande carica pedagogica della sua attività, che si è dispiegata non solo in tanti anni di insegnamento, prima a Torino poi a Milano, ma anche in decine e decine di conferenze un po’ tutto il mondo: che, anche se regolarmente trasformatesi in straordinarie performance “mute” o quasi (Castiglioni parla solo italiano, milanese e qualche parola di inglese e francese) che mandano in delirio il pubblico, contengono ben evidente il desiderio di comunicare, a qualunque costo e in qualunque modo, il contenuto razionale del progetto, o almeno di un certo modo di vedere il progetto.
Questa capacità di distacco, unita a una foltissima sensibilità autocritica, sono probabilmente due delle caratteristiche che hanno fatto di Achille Castiglioni un professionista abilissimo, e allo stesso tempo un personaggio tanto amato, si può dire anzi veramente popolare, tra generazioni di progettisti e, naturalmente, studenti.
Gentiluomo d’altri tempi
Quelli che come me hanno avuto la fortuna di conoscerlo bene non possono dimenticare la sua gentilezza, disponibilità e apertura, unite solamente, a volte, a una certa ritrosia, soprattutto negli ultimi anni, quasi una stanchezza per una fama e un seguito debordanti: peraltro meritatissimi, ma che prima o poi infastidirebbero chiunque. Soprattutto chi come Castiglioni non ha mai smesso di ascoltare, di dare spazio ad altre voci, anche diverse dalla sua: da quella di altri designer, come l’amico Enzo Mari o i compagni d’avventura Max Huber, Michelino Provinciali, Heinz Waibl, Italo Lupi, Gianfranco Cavaglià, fino a quella di tutti gli anonimi giornalisti provenienti dai quattro angoli della terra per cui (quasi) sempre sono rimaste aperte le porte del suo fantastico studio: vera wunderkammer ambrosiana, in cui il profumo di nebbia che arriva dal Castello Sforzesco si mescola alle risate di chi non può resistere alla sua allegria davvero contagiosa, quando inizia a spiegare il funzionamento di un rasoio a manovella, objet trouvè della sua collezione, o si dondola divertito sul sedile Mezzadro, confidando in segreto l’ultima gaffe di un qualche produttore, venditore, committente…
Castiglioni attraversa con la sua grazia di gentiluomo d’altri tempi due secoli di cultura, società, invenzioni, tecnologie, ambizioni, frustrazioni, desideri e sogni di progetto, senza mai perdere ironia e autoironia. Per questo non si può far altro che stimarlo enormemente, come persona e come artista e, in fondo, volergli anche un po’ bene.
Ho cercato di usare il più possibile il tempo presente per scrivere qui di Achille Castiglioni, come si deve a una persona cara e viva tra noi. Non è solo un espediente linguistico, perché anche se Castiglioni se ne è andato per sempre, nel dicembre scorso, non si può che ricordarlo con lo stesso tempo in cui amava esistere per trasformare in eternità l’attimo fuggente della creazione, del linguaggio, del dialogo continuo che da artista pubblico non ha mai smesso di tenere con il mondo. Ci lascia centinaia di oggetti e progetti, disegnati da solo o con il fratello Pier Giacomo, un’eredità gioiosa e luminosa che non ci farà mai sentire la sua mancanza.
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