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Dialogo tra Alessandro Mendini e Stefano Casciani, sui valori e il valore – esistenziale, economico, culturale – del design.

Alessandro Mendini e Stefano Casciani – Photo by Donato Di Bello

SC Allora, partiamo dai tuoi giudizi molto critici che esprimi su un certo cinismo di ritorno dei designer, per esempio sul lavoro di Fabio Novembre. Hai marchiato a fuoco una sua sedia, effettivamente bruttissima, con poche parole BRUTTO è un oggetto reso volgare da obbiettivi malati (Redesign grottesco della Panton Chair, Her, 2008) ma ricordo una conferenza in Triennale, già diversi anni fa, dove eravamo insieme per parlare di un suo libro.

Io ho cercato proprio di demolirlo, ironicamente, dicendo che era un abile falsario. L’avevo avvisato che sarei venuto alla presentazione del suo lavoro per parlarne male… ma mi pareva che tu all’epoca avessi sentimenti contrastanti…

AM In effetti per me esiste il piacere di avere una “conversazione” con persone intelligenti, come lui: ma quando poi esce una cosa sbagliata e mi si chiede un giudizio critico, dico quello che penso. E’ anche un po’ quello che sto facendo con i miei pezzettini su Abitare… adesso nel prossimo parlo di Studio Job. Lo sai, sono quei due olandesi, ragazzo e ragazza…

Alessandro Mendini
Fabio Novembre – Poltrona Driade Nemo

SC Li conosco, hanno lavorato anche per Bisazza. E su che piano li giudichi criticamente?

AM Job Smeets è stato forse uno dei più bravi allievi della Design Academy di Eindhoven e di Li Edekoort, lo conosco da tanto tempo. Si è messo con questa ragazza, Nynke, e hanno cominciato a fare oggetti insieme, ma progressivamente hanno creato un meccanismo di autopromozione estremo. Ora per il Salone del Mobile si presentano nei chiostri di San Simpliciano qui a Milano (dove c’è la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale) con un gruppo finanziario che li sostiene, con una cosa che si chiama “Servizio da tavola” – oggetti comuni realizzati a scala gigante: un ciotolone, un vassoione etc.. in fusione di ferro arrugginito (il mercante penso sia Moss, che poi venderà tutto a New York).

John Smeets

Dopo di che, sponsorizzati da un’industria della porcellana olandese – mi pare si chiami Royal… qualcosa del genere – producono insieme questo stesso servizio come produzione di serie. In più hanno fatto tre vetrate cattedrale, con un concetto un po’ simile a Gilbert & George, dove fanno degli ammiccamenti tra religione, armi, guerra, Islam…Insomma devo dire che tutti questi oggetti alla fine mi sembrano piuttosto un freddo e cinico progetto di marketing: che fatto da Jeff Koons con Cicciolina sul fronte dell’arte pura ha un valore, ma trasferito nelle arti applicate, per una produzione che poi alla fine è una produzione di design – che nasce da una tradizione sociale, che dovrebbe essere produzione etica – non mi piace.

SC Devo proprio farti una domanda che mi sono fatto io stesso, più di una volta. Ti viene mai il rimorso di avere in qualche modo contribuito a scatenare questo tipo di imprenditoria della firma – preferibilmente straniera – avendo fatto tanti esperimenti di design giocando tra piccola e grande serie (da Alchimia, ai cento vasi Alessi, alla tua produzione come Atelier Mendini) con tantissimi designer di ogni dove?

Cioè, che questa grande tendenza verso il mercato del collezionismo non sia altro che una razionalizzazione cinica di quegli esperimenti che tu hai fatto e a cui anch’io, in modo un po’ defilato, ho comunque partecipato? Ogni tanto, sul piano intellettuale, questo rimorso a me viene.

AM Sicuramente so che sono stato fra i primi a portare in Italia degli stranieri, anche per “ ossigenare” un dibattito critico, allargarlo a una internazionalizzazione della cultura del design”milanese”: ma in parallelo si è avuto anche una specie di declino di creatività italiana. Non capisco bene sulla base di quali fattori, però sono subentrati sia alcuni autori bravissimi – Starck, Morrison, Newson – sia delle industrie che sulla base di questo trend esterofilo hanno privilegiato gli stranieri piuttosto che gli italiani, oppure i soliti maestri milanesi, almeno fin quando sono vissuti.

C’è un’altra cosa per me importante: anche una generazione come la tua, è stata presa in una morsa soffocante – tra l’esterofilia e l’establishment dei “maestri”: tanto che mi sarebbe sempre piaciuto fare uno studio e una mostra su questa generazione (fra i 40 e i 50 – o tra i 45 e i 55), perché è una generazione che è stata sopraffatta, costretta a fare un certo lavoro di routine, magari contro la sua volontà. Tu che ne dici?

SC Personalmente mi ritrovo un po’ meno nel carattere di questa generazione che descrivi bene, un po’ perché sono leggermente più giovane, un po’ per la mia attività di scrittore. Per cui mi sono tenuto più lontano dal problema di progettare ogni giorno, non vivo facendo oggetti: ma ci sono tanti altri che, per un comprensibile, umano miraggio di arricchimento o per necessità, hanno un po’ “girato la manovella”, tirando fuori degli oggetti meccanici, professionali, che però sicuramente non hanno il valore di altri disegnati dai Maestri.

Oppure, gli stessi più bravi che hanno anche cercato anche di fare una certa sperimentazione si sono persi presto: se ne sono perse le tracce o sono diventati, come Stefano Giovannoni, dei grandi geniali imprenditori del design – il suo, ovviamente. Qui nasce un’altra domanda, che provo a sintetizzare: i modelli comportamentali – vecchi e nuovi – del design sono quasi tutti nati in Italia, più o meno in cinquant’anni. Altre nazioni e culture li hanno ripresi e utilizzati a loro uso e consumo, con un successo e una costanza decisamente più continui che in Italia. Da cosa deriva questo fenomeno, secondo te?

AM Se i modelli, come dici tu, sono nati in Italia, i luoghi dove si vende il design storico o dove si fanno le “tirature”, tra virgolette, sono Bruxelles, Parigi, Basilea, Miami e New York. Magari a Parigi nascono anche perché ogni tanto salta fuori qualche pezzo di Prouvé, o che ne so, di Le Corbusier: è proprio antiquariato del moderno ma non c’è sotto un metodo di meccanismo progettuale.

Invece in Italia questi meccanismi ci sono e ci sono stati perché basta citare Alchimia, da una parte e Memphis, dall’altra: gruppi generatori di idee/oggetti che per Alchimia avevano un esclusivo carattere di sperimentalità, per Memphis poi si sono prodotti anche nell’ipotesi di lavorare sul mercato alto-borghese del collezionismo.

Poltron Proust – Alessandro Mendini

Anch’io faccio un mobile in una serie di 9 pezzi, un mobile che vale come un pezzo solo – ma li motivo come una estenuante e anche faticosa, sia dal punto di vista formalistico che etico, ricerca di forme dei mobili. Però rispetto a Job, per esempio, che gioca la sua chance di marketing sull’omogeneità del suo stile il mio discorso è eclettico…

Insomma mi va di fare la predica a tutti gli industriali italiani, che dovrebbero fare la fatica di trovare designer italiani giovani. Perché questi devono emergere, sono più sotterranei, meno riconoscibili: ma non si può andare sempre solo sul sicuro.

SC Devo dirti che all’osservatorio di Domus un po’ questo mondo lo si vede. E’ curioso, perché c’è una certa inventiva e una certa originalità, molta ironia, anche simpatica ma che a volte è autocompiacente : “Sono poco conosciuto, allora faccio un oggettino ironico, magari sarcastico, ma senza ambizioni”. Però poi appena questi giovani superano un certo livello di riconoscibilità, appena qualcuno gli dà spazio nella produzione, si mettono a fare subito i Giovannoni: e gli salta subito la fase sperimentale, non serve più, adesso si fanno i soldi… Forse anche perché in questo momento non c’è più l’interesse per la ricerca vera, la sperimentazione anche un po’ folle. Pensa a quante mostre si facevano ancora negli anni 80 e 90, con poche lire. Oggi si fanno solo esposizioni super istituzionali, un po’ bolse come quelle della Triennale, o quelle sui maestri, vivi o morti… e se non c’è lo sponsor non si fanno. Sai quante volte ho sentito dire seriamente, anche da ragazzi: “Non facciamo in tempo a mettere l’annuncio della mostra sulla guida di Interni per il Salone, allora non la facciamo più.”. Che coraggio!

AM Guarda, ho capito di chi parli: questi come Ragni o Iacchetti che hanno l’ideologia del volare basso e allora fanno la forbicina di plastica, o che ne so, lo stuzzicadenti con sopra l’uccellino. Ma perché uno giovane, intelligente, deve porre a propria ideologia il volare basso? Vola più alto che puoi! E poi quelle cose le ha già fatte come un mago Gino Colombini, il primo designer della Kartell, nel momento giusto… sembra proprio il catalogo di Colombini che va avanti. E mi dispiace che succeda.

Anche se poi dall’altra parte c’è la megalomania alla Carmelo Bene di un Fabio Novembre, che non è Carmelo Bene: sì, magari c’è un’intelligenza pazza, di cui pure bisogna tenere conto. Io ce l’ho con quella brutta sedia perché potrebbe essere venduta a Londra, a Piccadilly, in quei negozi dove trovi i vasi da notte senza il fondo: ecco, quello è il livello di quella sedia. È un oggetto volgare.

SC Diciamo che fra megalomania e volare basso è difficile trovare una mediazione, oppure basterebbe una via di mezzo…

AM Penso sempre che una buona mediazione è lavorare con gli artigiani, come i ceramisti o le ceramiste. Se vai a Nove magari c’è una ceramista che vive di una grande tradizione, oppure a Deruta… Forse è sul fronte dell’artigianato più che del design che sta troppo vicino all’industria, che si possono trovare nuovi spunti di DNA italiano.

SC È una strada molto interessante, che anch’io ho toccato per fare i miei “famosi” vasi da fiori – con un ceramista svizzero, magari, o un laboratorio di metalli di Milano: una strada che segue bene Hella Jongerius, che lavora (non citando gli artigiani) tra artigianato e serie. È riuscita perfino a fare dei vasi con Ikea, realizzati artigianalmente, con decori diversi, ai prezzi strepitosi dell’Ikea.

Vasi – Stefano Casciani

Mi viene poi in mente anche il problema dell’iconografia, della ricerca formale. Bene, i metodi dei nostri giorni sono chiari – come tu dici – c’è un metodo di marketing, per cui paradossalmente più è limitata la serie, più forte deve suonare la grancassa mediatica. C’è però anche tutta una iconografia, un metodo di lavorare per revival di forme dell’avanguardia che secondo me è molto criticabile – mi ricorda le sculture che Paperino va a vedere al museo nei fumetti degli anni Cinquanta. Tu quel tipo di iconografia l’hai usata in modo ironico, ma non trovi che anche lì ci sia una certa compiacenza? Penso a Ron Arad…

Ron Arad

AM Ron Arad è un grandissimo formalizzatore, è uno scultore tradizionale come lo sarebbe Frank Gehry: se non facesse l’architetto, sarebbe un grande scultore degli anni Settanta.

SC Sì certo, ho citato Ron Arad che è l’eccellenza di questo formalismo, ma penso piuttosto ai suoi epigoni di seconda e terza mano…

AM Il vero problema del design oggi credo sia la mancanza di un retropensiero ideologico, o almeno antropologico. Altrettanto succede nell’architettura, perché l’architettura oggi è fantastica! Come si fa a non dire che l’architettura di oggi è fantastica?

Ci sono architetti bravissimi formalmente, che fanno progetti fantastici però privi sostanzialmente di uno scenario umano. È caduto lo scenario del moderno, la Casabella di Dal Co ha le pagine sempre più bianche, perché non ci sono più le opere che riflettono quello scenario culturale.

SC Gli ultimi anni di Bruno Zevi da questo punto di vista sono interessanti, nel senso che con Ghery lui vedeva realizzata tutta la sua idea di un’architettura come ritorno alla grande matrice espressionista dell’avanguardia.

Peccato che non si può essere tutta la vita all’avanguardia, come diceva Picasso: peccato che Zevi abbia scambiato l’inizio di una nuova fase estetica del post-modern per l’apoteosi della fase che lui aveva cercato, promosso e inseguito per tutta la vita. È proprio in questa fase suprema dell’espressionismo che la componente antropologica o ideologica di cui tu dici comincia a scarseggiare.

Mentre invece ritorna ad esempio nel caso di New Orleans, dove gruppi vicini a quell’associazione che si chiama Architecture for Humanity provano un tentativo di ricostruzione dopo l’uragano Katrina. Lì si fa un genere di architettura molto ad hoc, che però non si dimentica del linguaggio globale. Oppure penso a quegli italiani giovani che hanno vinto la nomination a Barcellona durante il Festival dell’architettura per un Centro per giovani donne in Africa…

Architecture for Humanity – Yodakandiya Community Complex

AM Certo questi sono fatti interessanti: sono magari anche un po’ un fatto di speranza, anche se è una parola un po’ grossa. Forse questi sono Riccardo Dalisi dell’architettura di oggi, hanno dei contenuti anche sociali, politici e li esprimono. Detto questo, il forte lassismo del pensiero progettuale oggi fa venir voglia di ragionare sulla necessità della rinascita di un neo-radicalismo…

SC Se guardo al tuo itinerario, il tuo ritorno alla “polemica costruttiva” mi sembra allora un’altra piroetta, acrobatica. Nessuno si aspetta che tu abbia accettato di rimettere in discussione il carattere di merce del design, dopo aver promosso l’idea del design banale, per tanti anni. Dalla fase del “progetto infelice” torni alla fase radicale? Cioè, pensi ci sia comunque continuità tra le idee delle tue opere radicali e il lavoro che fai negli ultimi anni, o certe nuove prese di posizione, molto decise?

AM Certe istanze erano proprio di tipo storico. Tutta una parte del progetto radicale era fondata sulla guerriglia politica contro la reazione, sulla lotta all’industria e l’affermazione dell’immaginazione al potere. Forse questi temi li ho vissuti in maniera infantile, molte di queste cose per me non esistono più: ma all’interno di queste idee, se mi proponi la definizione di “oggetto ad uso spirituale”, allora sì, ogni giorno tento di fare oggetti che contengano un’anima.

Come se il mio lavoro fosse una specie di ruota, che gira da anni e perde un po’ le scorie, ma certi elementi rimangono sempre invariati. È un percorso lungo, evasivo, dispersivo, per una storia breve…forse è la storia di una problematicità, la testimonianza di una mia problematicità.

SC L’opera autobiografica, la biografia dell’autore…ma anche il diritto di autore sta diventando un grandissimo problema, con gli eredi di massa, figli di matrimoni diversi, conviventi, millantatori…tutti che accampano diritti sull’opera di un autore, magari morto in bolletta. All’opposto c’è il problema delle copie: esiste una pirateria anche nel design, mica solo nella musica o nei video.

Vitra è in causa con High-tech che vende le copie cinesi di tutti i pezzi dei Maestri, da Panton a Eames, con tanto di foto del santo e poetica agiografia: ma sono e rimangono delle copie, anche fatte male, degli originali per cui Vitra paga fior di royalties a eredi e fondazioni varie. Da una parte così c’è un tentativo del design di ottenere un riconoscimento ufficiale (legale) del suo valore: dall’altra questa massa anonima di produttori che, acquisito il valore economico del design, fregandosene del designer e dei suoi diritti trasformano il progetto in pura merce.

Salta quindi l’idea dell’autore, del design d’autore, del design dei Maestri, perbenismi di un’epoca che ora pare quella cavalleresca, ma in cui è nato il design come lo conosciamo…probabilmente per il design c’è un futuro, accanto alla deriva collezionistica, di un casino totale dove tutti fanno tutto e nessuno sa più chi ha fatto cosa.

AM Questo impianto tematico che hai dato va benissimo: certo, ci sono anche delle cose sbagliatissime, delle cose che non vanno copiate perché ledono dei diritti industriali. Però se ragiono in astratto, penso che sono sempre stato e sono tuttora favorevole alla copia. L’ho fatta e sono contento di farla. Prima dell’esistenza della fotografia per imparare una cosa la si copiava.

Il Rinascimento è fatto di copie di copie di copie. Copiare significa anche imparare, poi la copia diventa un falso, un vero falso. Ripeto, bisogna distinguere quanto riguarda il diritto alla proprietà intellettuale: ma secondo me, in Utopia, nel Paradiso Terrestre, la proprietà intellettuale non dovrebbe esistere. Così come sono contrario alle corporazioni professionali, sono contrario alla difesa – sempre e comunque – dei progetti.

SC Tu che nei hai viste tante… la tecnologia del web – a parte provocare il disfacimento e la disgregazione del concetto di “autore”, che è proprio l’opposto di Internet – questa “sottocultura” come direbbe Mari, nel bene e nel male, in qualche modo ti ha toccato?

Voglio dire, questa specie di copia del mondo reale che è la Rete, dove l’autenticità svanisce e tutti copiano e riproducono e sono copiati, questa trasfigurazione del mondo causata da Internet in qualche modo ti preoccupa? L’affronti? Non te ne importa? Hai fatto delle valutazioni? Delle riflessioni?

AM Ci ho riflettuto un po’: è un fenomeno importantissimo che sta cambiando il mondo, sta cambiando il concetto di democrazia – come dice Beppe Grillo – la democrazia oggi sta lì. Però io, come “handicappato” contemporaneo, come persona che non è in grado di seguire tecnicamente questi mezzi, sono un po’ fuori dal gioco.

Rimango fermo nella mia mentalità e non ho fatto il salto verso questa nuova situazione… che però non mi spaventa, perché mi affascina. Però mi affascinerebbe anche andare sull’Everest: e non lo farò.

SC Quindi i tuoi oggetti, la tua architettura, non cambiano perché esiste questo mondo?

AM Da un po’ di tempo mi sono convinto che io progetto come si progettava nel Settecento, prima del moderno: al massimo progetto come ai tempi del Liberty…

SC Fai ancora tanti modelli o ti basi solo sulle visualizzazioni al computer?

AM Qui in studio si usano in maniera abbastanza sofisticata delle macchine. In tutta la progettazione. Io seguo questo tipo di lavoro elettronico, mi interessa moltissimo ma non lo so gestire in prima persona. D’altra parte, anche quando faccio un vaso di Venini non ho la conoscenza della tecnologia del vetro: per cui è un po’ la stessa cosa.

Il mio interesse è per le tipologie che vanno dall’architettura all’oggettistica, oppure per i materiali: ma io non possiedo nessuna delle tecniche, vecchie o nuove. Possiedo semmai il sistema meta-progettuale di governarle, sulla base della presenza di un disegnino che faccio con le matite, i pennarelli…

SC Ho rivisto uno dei tuoi disegnini anche nello scorso numero di Juliet
Design e devo dire che sono sempre molto evocativi, hanno un valore di
progetto, in quanto sono in sé dei rendering alla minima potenza: cioè, alla Mendini, quindi spiegano un universo, un mondo culturale
– il tuo – o una allucinazione – un’ossessione? – tutta tua…

AM Certamente, al limite, il progetto si potrebbe fermare lì, con il disegnino. Potrebbe. Così come potrebbe fermarsi sulle parole.

SC Allora fermiamoci con le parole, come abbiamo cominciato…


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