avanguardia romagnola

Straripando come una nuova onda, sollevando spruzzi di decori, trascinando con sé laminati o tubi d’acciaio, riviste d’arredamento, tartine e cocktails, illustrazioni e abiti e caffettiere, sedie e souvenirs e sistemi per ufficio, inaugurazioni di qua o di là e in ogni luogo, centinaia di studenti e
laureandi e decine di aspiranti, e molto vino e coca e altre cose; scatenando recensioni entusiastiche ed isteriche, dormendo poco e lavorando fino a non poterne più, prendendo macchine ed autobus, biciclette, taxi e tram nelle città, e aeroplani sopra il mare e treni, traghetti e metropolitane, scrivendo la notte, tornando a casa a pranzo da mamma e cenando con il Direttore del Museo, commuovendo vecchi industriali del mobile e della lampada, del tessuto e del cristallo, della bici e della sdraio, espellendo copertine, conferenze e piccole architetture, il Nuovo Design e i suoi accoliti emergenti e manieristi, accademici e sovversivi si muovono da est a ovest e da sud a nord, dall’Europa all’America e viceversa, pronti a mostrare la loro chincaglieria e a risollevare l’economia, in genere quella breve e sommersa della piccola industria e ogni tanto quella seria e brillante del nuovo capitalismo.

Mentre una dopo l’altra e a intervalli regolari arrivano a casa e in studio le lettere provenienti da una stessa area politico culturale geografica socio economica, che ti chiamano a scrivere i capitoli e i paragrafi della storia futura del design: dopo aver installato miracolose finanze multi produttive e asili nido, festival del porco e servizi sociali, un giorno di molti anni fa qualcuno stanco dell’Unità e di grigliate ha iniziato quella frenetica e misteriosa corrispondenza che riesco soltanto ad immaginare e che mi piacerebbe tanto consultare.

“Egregio architetto siamo lieti di invitarla, Gentile Signore le saremmo grati di voler partecipare”, una architettura di carta che vibra dalle scrivanie degli assessorati e dei centri culturali, miliardi di vocali e consonanti che ballano davanti agli occhi.

È l’avanguardia romagnola, una forza della natura che tira fuori dalle loro tane i designer e gli architetti, i cantanti ed i pittori, i performers e i danzatori, i post, late, vernacular, neo-Modern & Co., li strappa dai loro tavoli e sale di prova, li costringe allo scoperto, a farsi colpire dal fuoco e dalle fiamme delle vecchie befane dell’establishment critico: fino all’ultimo respiro, avvolti nel turbinio delle quadricromie, di cataloghi alti un palmo o i bianco e nero di sedici pagine, i nuovi progettisti italiani si trovano davanti alla finestra o alla minestra, l’unica chance offerta dal Bel Paese, per simulare oggetti ed architetture, utensili e spettacoli, ambienti ed edilizia: disegnare e far modelli, esporre e inaugurare, sperare ed aspettare.

Dalla preistoria dei graffiti d’amore sulla pelle del pianeta dedicati da Sottsass alla sua ragazza, rieditati nel ’78 per l’ “Assenza/Presenza” nella Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, e dai sogni di Raggi, Natalini, Dalisi, De Angelis e Branzi e perfino Isozaki e Hejduk e Hollein, tutti evocati in quelle stanze da Irace, da allora un ininterrotto flusso di disegni, schizzi, parole e opere scorre dall’Emilia Romagna verso il mondo.

Da lì salta fuori lo stesso anno la “Stanza del Secolo” di Mendini, Alchimia e Dalisi a Ferrara, da una vaga ricerca dei segni perduti di generazioni di pittori e avvocati, operai e farmacisti, dei loro dipinti e centrini e carte da parati e soprammobili: un distillato di ‘ismi’ nell’arte e di stilemi, di eroismo senza qualità e di storiche sconfitte dell’avanguardia, un liquido denso di un verde acido e brillante; pronto a trasformarsi nella “Stanza del Manuale” ancora a Bologna due anni dopo, un museo privato di designer grandi e banali, impegnati a raccattare pezzi rotti di quadri e sculture e progetti, i più belli ed importanti e a rimetterli insieme in un ordine casualmente geniale, una specie di Merz pulito e senza odori con cui Schwitters si sarebbe fatte due risate.

E dopo sono venuti bellissimi ed autenticamente falsi piani regolatori per edilizia come quello per tante graziose pensioni e Rimini nel’81, quelle “Architetture estive” dove mi piacerebbe tanto andare, io che non ho mai visto l’Adriatico, a prendere il fresco sulla terrazza di Sottsass o a guardare i cactus nelle serre di Villa Oskar, e a dormire lasciando aperte le finestre dei balconcini di Raggi; ma tutto questo non ci è permesso e si sa che non ci sono i soldi e allora meglio non pensarci e rimanendo in zona andare a cercare un anno dopo le “Nuove Intenzioni” del design a Reggio Emilia, mettendo insieme un altro po’ di serissimi e bizzarri musicisti e stilisti, fotografi e ancora designer; tanto per dimostrare che questa febbre di profezie future per i nostri ambienti si è trasmessa dal design alla moda alla musica e viceversa, e tutte insieme si sono messe a pensare alla
costruzione di un nuovo paesaggio, artificiale e controllato.

E infatti la storia non si ferma, e quando sembrava tutto finito, anche il 1982, dalla vicina patria delle beffe, (da Calandrino a Casabella Koenig-Mendini), dalla toscana Prato arrivano altri assessorati e per le “Conseguenze impreviste: arte, moda, design” mettono insieme con altri e
giovani e impossibili inventori il panorama sconcertante e fascinoso dell’ “Oggetto Naturale”; decine di oggetti completamente inventati e assolutamente attendibili, che fanno saltare i nervi a più d’uno e di tutti gli accademici seri guarda caso e ironia della sorte è proprio il Lonfo, quello dei finti concorsi di design, a paragonare le “Conseguenze Impreviste” al Sabato Fascista, dimostrando cosi l’elevata capacità di comprendere le nuove tendenze, il dilagare della discoteca per radio e televisione, Domus e Bellini, i videogame e la Transavanguardia, Bladerunner e Bowie.

Ma l’avanguardia romagnola batte la Fiorentina 4 a 0, e lancia ancora quest’estate il suo manifesto per la ricostruzione dell’universo marinaro, ancora chiama a raccolta il volgo disperso, ancora lo spinge a lottare con meccanismi e bulloni, stampi ed aerografi, color terminal e temperamine.

E allora per questo “Design balneare” a Cattolica tiriamo fuori le nostre armi deboli ed invincibili: ecco Andrea (Branzi), che da sempre lancia i più lucidi, razionali e moderni messaggi di critica e di design mai visti dai tempi del moderno, colpito al cuore dal vecchio Matisse, dedicargli il nitido e commosso bianco e blu delle sue ceramiche; ecco Alchimia, che lasciati poco lontani in Zona a Bologna i suoi armamentari da collezione si prepara alle battaglie e alla piogge di settembre, affilando i bordi già acuti e taglienti dei suoi decori, che diventano fontane ed ombrelloni, trampolini e chioschi bar, costume da bagno e windsurf: una dura e morbida ondata di stilemi che parte da una architettura alla persona e da lì rimbalza sugli oggetti, e rende grazia ai Viali a Mare trafitti da semafori gialli, e alle spiagge dai chilometri di spicchi primari.

La riviera diventa un’estensione intellettuale, il luogo mentale dove pensare alla rifondazione del progetto, guardando le ragazze da una parte e il tramonto dall’altra, come nelle cabine di La Pietra e Luraschi, (una lottizzazione vagabonda e non speculativa dell’ultima area non fabbricabile, cioè l’acqua marina) o stando sdraiati sull’Isolo di Raggi, innamorato della quiete solitaria dei pomeriggi al largo col materassino, che gli si spande nel disegno come una medusa, allungando tanti tentacoli funzionali per le casse Hi-Fi e la bibita, i giornali e la luce da notte; e si sa che il comfort è un bel problema del design, e perciò che Santachiara si inventa l’Ondolo un altro superaccessoriato e inattuabile dondolo che invece di andare avanti e indietro gira su se stesso.

Così la sdraio sostituisce la sedia come modello ideologico, e lo Studio Elettra la disegna in plastica, aerodinamica e da appendere al soffitto, Ducci ne fa un rigoroso prodotto industriale, Nannetti ci attacca due vaporizzatori per la frescura dell’utente; e al posto dell’Existenz minimum ben vengano tante architetture da spiaggia, pratiche o monumentali, piccole o grandi, sopra o sotto il mare: i padiglioni artistici di Zak Art, gli arredi domestici di Palterer, Scarzella, Scassellati e lo stabilimento di Binazzi, le lampade da sabbia di Maggiori e Zanuso jr. e i manufatti del Padiglione Italya, le ceramiche di Caturegli e Formica e i fari sottomarini del Memory Hotel Studio; la discoteca surrealistica 6OO FIAT più le fantasmagorie ottocentesche dell’ISIA di Firenze, e la morbida sensitiva e gommosa cabina di Folle Balneari; alla biglietteria le porte alchemiche di plexiglas e sabbie di Mingaia e Carretti, e all’orizzonte l’arcobaleno umano di Serafini o le
ciclopiche forme di Marco Tamino.

Siamo ormai abituati al disinvolto passaggio dall’architettura al corpo e ritorno, attenti alle esigenze fisiche e banali dei divertimenti balneari: perciò Giovannoni e Venturini ci regalano pattini alati e luminescenti, il Complotto Grafico il suo windsurf Jugendstil, Renzi e sacchetti gli ozii del club nautico e il piacere di guardare il tempo inutile sul loro orologio: il più sensibile alle esigenze dei lavoratori, lo Studio Stilema, architetta leggere, pratiche e luccicanti valigette da venditore ambulante di bigiotteria; Massimo Viti scambia volentieri il bagnino con la sua mano / computer, per allarmarci invece della bandiera rossa, e per dirci dov’è le toilette. L’unico che insinua un dubbio erotico in questo Festival del funzionalismo evoluto è Remo Buti, con i suoi piccoli costumi d’oro, “da appoggiare tre l’ombelico e la sommità delle natiche” o “da porre in cima al pelo pubico precedentemente pettinato”, come da sue istruzioni.

E desso che ci penso si potrebbe disegnare questo monumento continuo all’ideologia totalizzante e manieristica della neoavanguardia, questo corredo da vacanza ingombrante e leggero, questo museo marino del Ventunesimo secolo, come una penisola sperimentale, un modello di urbanistica futuribile, la giusta e misteriosa conclusione posta al limite di una estensione territoriale mai vista: quello scenario urbano continuo dove non ci saranno più città, ma nuclei sparsi e popolatissimi fatti di architetture spontanee e riciclate, dove non ci saranno più abitazioni o uffici dove andare a lavorare, perché nell’era informatica la nostra casa è il nostro lavoro, e i nostri pensieri i nostri progetti.


Vivremo in ambienti di transito, attenti alle presenze non-oggettive, alla luce, al decoro, all’ombra, al colore, al corpo, invece che alla moquette, ai lampadari e ai fornelli. Chi fabbrica oggetti, utensili, mobili per la cucina, il bagno, il salotto, la palestra, il giardino, la piazza o l’aeroplano non saprà più che farsene e potrà finalmente inventare strumenti nuovi e multifunzionali, pronti a soddisfare esigenze sofisticate ed impreviste.

Sopravviveranno oggetti di altissimo significato culturale, forme che al solo apparire generano familiarità ed impressione, colori e decori pieni di memorie; le funzioni e le malattie, le tasse e l’assicurazione saranno un problema IBM; noi potremo dedicarci a imparare tutti gli strumenti
musicali, a parlare e cantare ognuno per un suo enorme pubblico, “we could be heroes just for one day”.

E anche se questa è una visione, il nuovo design non ha tempo da perdere, e le visioni che raccontano questi progetti non riusciremo a togliercele dalla testa, anche quando ci chiedono di pensare a divertire, a quelli che vanno sulla spiaggia per prendere il sole, fare il bagno e baciare la ragazza, perché fa bene ai bambini e perché andiamo tutti gli anni; e non c’è infatti niente di strano se questa nuova e curiosa avanguardia del design è pronta a schierarsi davanti alle onde e a costruire con la sabbia i castelli delle sue architetture.

Nessun vuole più Weissenhof o Case d’artista sul lago, e il Bauhaus è da tanto tempo che i nazisti l’hanno chiuso, e la casa ideale è il titolo di una rivista di arredamento, e neanche Parigi farà la sua Esposizione universale nel’89, e il 1984 di Orwell è domani. Meglio allora cercare di parlare con i nostri ricordi, di disegnare dischi e prendisole, cannucce ed ombrelloni, architetture leggere da spiaggia e da giardino, perché, come diceva Scheerbart nel ’14 “Compito dell’architetto moderno…è battersi per introdurre nei giardini pareti di vetro con decorazioni variamente colorate: è a partire dal giardino che la nuova architettura ha maggiori
possibilità di imporsi.”

È cosi che il Nuovo design aspetta il suo Scheerbart, un visionario che scriveva il suo “Glasarchitektur”, visto che la sua architettura e i suoi oggetti sono disegnati in continuazione da questi ed altri visionari, e aspettano solo il bacio che li trasformi in veri e piacevoli luoghi dove abitare e ballare e bere e dormire. Qualcosa di altrettanto forte e reale, che possa affrontare anche questa reale ed immensa e indefinibile quantità edilizia ed umana, questa realtà costiera fatta di Cesenatico e Valverde, Bellaria e Igea Marina, e poi Viserba e Viserbella e San Giuliano a Mare, e ancora Rimini e Marebello e Rivazzura, giù giù fino a Fogliano Marina, Riccione e Misano Adriatico e Cattolica.

Una sola volta ho pensato seriamente di andarci, su quelle spiagge immemorabili che credo assomiglino alle Coney Island dell’Intrepido, ed è stato durante una lunga telefonata con lei che diceva di andarci forse perché doveva sembrarle appunto un mare newyorchese quella calma distesa di corpi e sabbia e perfezione organizzativa elvetica; è stato allora che ho pensato di prendere il treno come un tedesco che torna a farsi perdonare, ma io volevo soltanto fare il bagno e prendere il sole e non pensare; ma non ci sono andato né allora né mai e non andrò più in nessun posto con lei; e se tutto questo mi viene in mente si deve ancora scrivere, e molte volte e di molte cose, anche se i ricordi ti fanno passare la voglia, anche se tutti i nostri progetti e disegni e modelli e prototipi ci rimangono vuoti in mano e negli occhi, quando qualcuno di noi se ne va, nel modo strano in cui se ne vanno gli artisti buoni e secondo me lei lo era.

Anche qualche designer è un buon artista, ma più spesso siamo uomini e donne e vecchi saggi disperati che cercano di salvarsi e di salvare chi non vuol esserlo, facendo un mestiere tristemente allegro, perché ti costringe a piangere solo con forme e colori e decori e qualche raro e stanco scritto, e a ridere e far ridere con plastiche, vetro, metalli, e ceramica, anche se qualcuno vorrebbe che si badasse soprattutto ad illudersi e ad illudere.

Eppure ci chiedono di progettare il futuro e quando non ce lo chiedono pretendiamo di progettarlo lo stesso, tanto nessuno fa mai come diciamo noi: volete arredi da spiaggia, banchine e segnaletica, docce, gelati e T-shirt?
Ve li daremo, la gente ne ha bisogno, l’Italia è il paese del sole, del mare e del design italiano, che è il più importante e l’unico divertente in un mondo di serissimi progettisti industriali; disegneremo anche l’universo, come i nostri zii futuristi, anche se ogni tanto ci tremano le mani, e abbiamo bisogno di occhiali e di riposo, e i nostri disegni non sono più belli come quelli di una volta e non è vero che non abbiamo più paura: cerchiamo solo di non pensarci, mentre andiamo avanti, travolti dalle onde che noi abbiamo alzato, finiti sulle pagine culturali dei quotidiani, a far lezione nelle università, alla ricerca del Nuovo design.

Avanguardia Romagnola, in: Design balneare. Memoria e mito balneare 2,
Baggioli editore, Cattolica 1983; op 9-16

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